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Come disse un Saggio “nessuna legge può tramutare il pigro in attivo o rendere sobrio l’ubriaco”: diventa necessario indagare, allora, sulla cosiddetta morale, per comprendere l’utilità delle leggi. Brevi riflessioni da cui trarre interessanti spunti personali.

Giustamente, si dice che tutta la vita sociale è pervasa dal diritto, nelle sue umili, come nelle solenni manifestazioni.

Ci si accorge, allora, che il diritto riguarda la maggior parte dell’attività umana ed accompagna l’uomo dalla nascita alla tomba, attraverso il fonte battesimale, nei cortei di nozze, nell’atto sublime della maternità e nella gioia orgogliosa della paternità.

Pertanto, il diritto è connaturato con la vita associativa. Se gli uomini vivessero isolati tra loro, quasi novelli Robinson Crousoe, l’organizzazione giuridica non avrebbe ragione di esistere, perché ciascuno organizzerebbe la propria vita uniformandola all’immutabilità delle leggi biologiche, chimiche e fisiche che regolano la natura.

Ma che cos’è il Diritto? Etimologicamente, la parola discende dall’aggettivo latino “DIRECTUS ” : vale a dire, “ciò che è conforme”; analogicamente, invece, lo si collega all’altro più famoso termine latino ” JUS “; parola, quest’ultima, di incerta etimologia i cui significati possono ricondursi agli altri termini del diritto romano, come ” IUSSUM” , o comando; ” IUSTUM”, o conforme al diritto; o all’espressione ” SECUNDUM JUS ” che noi traduciamo: GIUSTIZIA.

Ciò detto, potrebbe concludersi, allora, che il “diritto” è ciò che riteniamo giusto, o conforme alla Legge scritta, alla legge morale, o alla nostra coscienza?

Se così fosse, il concetto del diritto subirebbe una riduttiva concezione soggettiva e, come tale, arbitraria, ancorché visione di gruppo: e ciò non sarebbe riferibile alla concezione oggettivistica della norma.

Infatti, gli stessi Latini, allorché parlavano di IUS, anziché definirlo come scienza, preferivano considerarlo come arte: ” JUS EST ARS BONI ET AEQUI “; e questa fu, forse, la vera ragione che permise alla civiltà romana di affermarsi, col sigillo della propria legge, nella storia dei popoli, fino ai tempi nostri.

Voler, quindi, insistere nella definizione del termine diritto è ricerca che esula dalla presente tematica, perché, comunque lo si voglia intendere – come regolatore delle azioni umane, come sistema di limiti, come prodotto sociale – il diritto assume ben diversa dimensione se lo si confronta con i grandi concetti della morale universale, col senso fideistico dell’umanità e con quel richiamo costante ed interiore che i più chiamano dovere.

Questo obbligo intimamente avvertito è principio assoluto, che sta al di fuori di ogni condizionamento premiale o punitivo.

Questa insopprimibile esigenza interiore fu chiaramente delineata dall’intelligenza critica di KANT, allorchè individuò nella Ragione, non la legislatrice del mondo fenomenico, ma la suprema regolatrice dell’attività pratica che, attraverso i famosi “imperativi categorici”, sfocia nel postulato della Libertà, unica condizione allo svolgersi dell’azione morale.

Eppure, nel III secolo a. C. , per un eccesso antimetafisico, nasceva la filosofia del dovere per merito degli Stoici, per i quali la pratica delle virtù consente al saggio di rimanere incontaminato dai desideri mondani.

Ma in una struttura sociale, così delineata, il rigore della legge non ha più alcuna significazione pratica, dal momento che ogni uomo è vigile ed incorruttibile giudice di se stesso; modo alquanto utopistico, quello degli stoici, di pervenire alla virtù, quasi in forma ascetica ed asettica, prescindendo dai mali e dalla caducità della condizione umana.

Certamente la volontà di ogni individuo, allorché è protesa alla ricerca del Bene, deve riconoscersi nel diritto positivo del proprio tempo e della civiltà storica che le è propria.

Se prendiamo in esame i doveri ed i diritti garantiti dalla nostra attuale Costituzione, constatiamo che essi sono in armonia con la pratica delle virtù: virtù patrie, virtù civili, virtù domestiche sono, tutte, la poliedrica sfaccettatura del grande principio Kantiano “Fa’ il Bene” che è, pure, il primo degli imperativi evangelici.

Al cittadino probo si richiede un’attività positiva che concretizzi, nei suoi rapporti interpersonali, quell’aspetto essenziale della legge, ai fini di un pacifico ed operoso svolgimento della società .

Nella nostra condizione temporale possiamo solo impegnarci nell’esercizio e nella pratica delle suddette virtù, avvertendo il dovere dell’operatività non come qualcosa che ci viene imposto dal di fuori, non come comportamento coartato, non come questua della gratificazione altrui, ma come intimo, gioioso moto del cuore.

Prof. Giuseppe Chiaia (22.06.2005)