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“Ho settanta anni e una moglie (che adoro) la quale si spegne, ogni giorno di più, per via dell’Alzheimer. Non avendo dei figli, temo il Dolore del distacco e la profonda solitudine”

Questa è la sintesi della domanda posta all’interno del Forum di SOS Alzheimer ON LINE. Il primo punto, quello riguardante il dolore, è stato affrontato nell’incontro precedente (dal titolo “il dolore che mi porto dentro”); ora ci occuperemo di capire il rapporto con la solitudine

Solitudine…

Questo termine, secondo i dizionari della lingua italiana, identifica la condizione di chi vive solo, in modo permanente o per un lungo periodo, ricercata per acquisire pace interiore o subita per assenza di affetti o appoggi materiali.

E si accompagna, spesso, ad uno stato d’animo che abbiamo sperimentato con la nostra venuta al Mondo: l’Angoscia

Quand’è che incontriamo due questi “ingombri” emotivi?

  • nel momento in cui capiamo che il Mondo non si adatterà a noi ma, semmai, dovremo essere noi ad adattarci a lui…
  • ogni volta che sentiamo il peso di ritrovarci da soli e non siamo preparati;
  • allorquando avvertiamo la paura di non potercela fare e ci sentiamo “persi” oltre ogni limite.

“Il mio pianto è un grido dell’anima che spezza le vene e altera i sensi… un pianto dignitoso che soffoca i pensieri. Non riesci più a capire chi sei… Vivi ore in un oblio di niente, sconfortato dal tutto che è al di là di una porta aperta e inattraversabile… Un sibilo ti spezza le orecchie: è un suono leggero per chi ascolta da fuori ma, dentro, è come un urlo che rimbomba nel cuore. Questo è il pianto di chi è solo”.

Lo psicoanalista Paul Claude Racamier ha spiegato nel suo “Il genio delle origini” che esistono due pungiglioni della Psiche, che sono l’angoscia e il lutto: l’uno la ferisce quanto l’altro ma entrambi le sono indispensabili come via verso l’autonomia.

COSA ACCADE, DURANTE IL NOSTRO PERCORSO DI CRESCITA?

Appena usciti dai cambiamenti della gravidanza, prima e della nascita, poi, si vive una fase di simbiosi con la madre che, al riparo da ogni tensione, ricorda le acque “amniotiche” di un lago senza increspature.

Quindi, c’è la fase dell’apertura al mondo e si inizia a sperimentare l’obbligo del distacco, con il senso di solitudine.

Per tutti i cambiamenti cui andremo incontro (dai più tristi ai più gratificanti), produrremo (per un tempo variabile) uno stato di angosciosa solitudine: ogni volta, è come se rivivessimo una nuova nascita, un altro salto nel buio che, però, ci condurrà ad un migliore livello di autonomia.

Perché si ha paura della solitudine?

La solitudine, siccome ci sintonizza con le frequenze del nostro mondo interiore, costituisce un amplificatore di stati d’animo.

Ognuno di noi, nell’arco della propria giornata, trascorre tantissimo tempo a riflettere, a meditare, a volte a rimuginare… e di questo ce ne accorgiamo attraverso quello che comunemente si definisce “umore”.

Anche quando ci troviamo immersi in una folla, per intanto cerchiamo di capire come contestualizzarci e, quindi, come integrarci e come inserirci per cui, anzitutto “viene” il rapporto con se stessi e poi, con chi ci sta vicino o intorno.

Allora, siccome la solitudine può essere considerata il nostro alter ego, perché si utilizza questo termine per identificare qualche cosa di negativo?

“Solo chi si isola da se stesso e dal prossimo è veramente solo” (Nicola Abbagnano).

La risposta, quindi, consiste nel fatto che tutto gira in funzione del peso che le diamo e di eventuali circostanze avverse che non riusciamo a metabolizzare. La solitudine non dovrebbe essere qualcosa nel rapporto fra noi e il mondo esterno ma, al contrario, una situazione che connota un nostro corretto modo di essere, e che ci offre l’opportunità di capire come esprimere al meglio noi stessi, la nostra personalità e il nostro ruolo.

Per capire, effettivamente, il senso di quest’ultimo passaggio (esprimere al meglio il compito che ci tocca), vorrei concludere questo intervento con una lettera pubblicata, nel 2013, dal giornalista Massimo Gramellini.

Buongiorno, mi chiamo Gabriele Francesco. Sono nato a Novara l’11 aprile 2013 e oggi avrei un mese, se fossi ancora vivo. Invece sono morto lo stesso giorno in cui sono nato. Adesso, tutti starete pensando che mamma e papà non si sono comportati bene…

in effetti mi hanno lasciato solo, sotto un cavalcavia, con indosso pochi stracci e senza un biberon nei paraggi.

Ma io non mi permetto di giudicarli.

Certo è, che noi neonati siamo indifesi: ci buttano dai ponti, ci fanno esplodere sotto le bombe, ci vendono per pochi soldi. Siamo carne da telegiornale.

Prima di chiudere gli occhi, mi sono raggomitolato tra i rifiuti, per cercare conforto e ho pensato: “Ma è davvero così brutto questo Mondo, che sto già per lasciare?”

Poi mi sono sentito sollevare e, sulla nuvola da cui vi scrivo, ho visto che la bellezza c’è ancora.

C’è bellezza nel camionista che mi ha trovato e nell’ispettore che mi ha messo questo nome meraviglioso. Sapete, è importante avere un nome: significa che sei esistito davvero.

C’è bellezza nei poliziotti che per il mio funerale hanno fatto una colletta a cui si sono uniti tutti, dai pompieri alle guardie forestali.

E c’è, la bellezza, nella ditta di pompe funebri che ha detto: “Per il funerale non vogliamo un euro!”, così i soldi sono andati ai volontari che in ospedale aiutano i bimbi malati. Dove sono nato io, metteranno addirittura una targa.

Allora non sono nato invano. Mi chiamo Gabriele Francesco… e, la solitudine, non mi farà paura. Mai.

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