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Pubblicato su Lo SciacquaLingua

Se apriamo un qualunque vocabolario alla voce nome, leggiamo: parte del discorso che designa persone, cose, idee, fatti e può essere “concreto” se indica persone o cose controllabili dai sensi; “astratto” se designa entità mentali (la bontà, per esempio); “comune” se può essere ‘condiviso’ dagli esseri della stessa specie e infine “proprio” quando distingue un individuo da un altro (ma anche una cosa da un’altra: i nomi di città, per esempio). Al lemma sostantivo leggiamo, invece: parola che indica la ‘sostanza’ di una cosa nel senso più lato (persona, animale, idea, oggetto, ecc.); i due termini, quindi, possono considerarsi l’uno sinonimo dell’altro.

E tutti e due, guarda caso, vengono dal… latino; il primo da “nomen”, affine a “noscere” (conoscere) e significa, propriamente, “ciò con cui si ‘conosce’ qualcosa”; il secondo da “substantivus”, letteralmente “che può stare da sé”. Vediamo, ora, come sono nati ma forse sarebbe meglio dire come si sono formati i sostantivi (o nomi)… italiani. Quelli di antica formazione provengono, in linea generale, dai corrispondenti sostantivi latini, sia pure con qualche mutamento nella pronunzia e nella grafia, come la caduta delle consonanti finali (quasi sempre la “m”) in modo che tutte le parole italiane finiscano con una vocale: urbe(m); casa(m); aula(m). I cognomi, naturalmente, sono un caso a sé stante in quanto per svariati motivi, pur essendo “italiani”, possono terminare con una consonante: Bianchin; Bordon; Rumor; Melis; Solinas; Corrias ecc. Oltre tutto, per la lingua, i cognomi sono un’ “invenzione” piuttosto recente.

Ma torniamo ai sostantivi veri e propri per vedere come si è arrivati alla “forma” attuale… italiana che presenta, in generale, queste desinenze (dal latino “desinere”, terminare, quindi “terminazione”; vale a dire quella parte terminale della parola che si “attacca” alla radice o al tema per esprimere la flessione della parola stessa: maschile, femminile, singolare, plurale): “o” per il maschile derivato da sostantivi latini in ‘um’ (amico); “a” per i femminili (ma anche per alcuni maschili) tratti da sostantivi latini in ‘am’ (casa e poeta); “e” per i sostantivi di ambo i generi derivati da sostantivi latini in ‘em’ (giudice, vigile). Per quanto attiene ai sostantivi plurali c’è stata una notevole semplificazione rispetto alla lingua madre (il latino) che presentava quattro desinenze: “ae”; “i”; “es”; e “a”, quest’ultima per i cosí detti sostantivi neutri. La lingua volgare, cioè l’italiano, ha utilizzato soltanto le prime due desinenze, cercando di raggruppare i maschili sotto la desinenza “i” (amici) e i femminili sotto la desinenza “e” (case); sono sfuggiti a questa “regola” i sostantivi femminili che già nel singolare finiscono in “e” perché non si confondesse il plurale con il singolare (la torre, le torri). Ma non è finita qui.

La lingua volgare (italiano) rispetto a quella classica (latino) ha apportato una rivoluzione nel genere dei sostantivi: ne ha abolito uno, il neutro. Il latino, infatti, prevedeva tre generi: maschile, femminile, neutro; quest’ultimo serviva, per lo piú, per i sostantivi indicanti cose inanimate, prive di “sesso”. Nell’italiano il neutro è caduto e sono rimasti solo i due generi “classici”: maschile e femminile. Una traccia del neutro è rimasta, però, ben visibile nella forma plurale di un gruppo di nomi che nel singolare sono maschili e nel plurale, invece, presentano una forma in “i” tipicamente maschile e una in “a”, propria del neutro latino. Come mai? Rispondiamo con una domanda: vi siete mai chiesti per quale motivo si dica “ossa” e “ossi”; “braccia” e “bracci”; “membra” e “membri”? Per non parlare di “uova” e “paia”, prive della forma plurale maschile? Risposta: i parlanti, ignari del latino e dei suoi generi – parliamo del periodo di transizione dal latino all’italiano – davanti a questa strana desinenza plurale “a”, hanno sentito la parola come femminile e hanno cominciato a dire (e a scrivere, naturalmente) “le ossa”; “le braccia”; “le uova” e via dicendo. Cominciavano a prender corpo, insomma, i cosí detti sostantivi “sovrabbondanti”. A questo punto, gentili amici, qualcuno di voi si domanderà la ragione per la quale il sostantivo “mano” disattende le ‘regole’ sopra esposte: pur terminando in “o” è di genere femminile (l’unico in lingua italiana). La risposta è semplice: ha conservato il genere che aveva nella lingua latina.

A cura di Fausto Raso