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Caro Tonino,

Allorché, la notizia della tua sofferenza mi è giunta, un frastuono lacerante ha squassato la mia mente, ed il cuore si è aggrappato ad una farfugliata preghiera alla Provvidenza divina perché ti preservasse alla tua famiglia ed ai tuoi amici.

A volte il nostro animo avverte l’insofferenza del vivere, un’inquietudine del presente che sfugge al rigore della logica; sono, questi, i momenti più fragili nei quali le energie organiche aprono una falla pericolosa alla nostra vita quotidiana.

Avrei voluto dirti tante cose, confortarti con esempi di uomini forti, che sanno che la propria vita è un bene enorme che bisogna bene amministrare e tu, mio affettuoso amico, non hai mai dissipato un solo attimo del tuo vivere; avrei voluto spronarti affinché tu raccogliessi quella tua energia nascosta, quella che ti ha fatto superare affanni e travagli, che ti ha sostenuto nel tumulto della tua vita lavorativa, e che il tempo che ti restava non solo era lungo ma che dovevi usarlo con la generosità e il coraggio che ti ha sempre distinto.

Avrei voluto scuoterti dai torpidi pensieri della sofferenza; avrei voluto incitarti a puntare di nuovo i gomiti e sollevarti dalla dura tavola del dolore, perché la tua scrivania, il tuo telefono, la tua dimora, la tua Rosa e la tua Gioia aspettavano, ancora, la tua parola risolutiva e gratificante; per non permettere ad altri di porre piede nella loro vita, né consentire ad estranei di dividersi la tua opera.

Perché, se appena avessi posto mente alle tue fatiche, ti saresti accorto quanta strada ancora ti restasse da percorrere; né, io, avere la forza di richiamare alla tua mente la saldezza delle tue intenzioni, la disponibilità verso quanti a te si sono rivolti, e come il tuo sguardo si sia immedesimato, allorché hai fugato un dolore, in chi ha rivolto al tuo cuore la preghiera di solidarietà.

Ma, soprattutto, avrei voluto convincerti che non hai sciupato il tuo vivere; che per te non era ancora giunto il momento dell’ozio, né potevi congedarti dal tuo impegno civile, sociale e familiare.

E se la sofferenza ti aveva ferito nel corpo, ti rimaneva, pur sempre, il tuo diritto alla vita, il tuo diritto alla libertà perché nessuno è al di sopra di chi è al di sopra della propria fortuna.

Ti avrei aspettato con ansia sulla soglia della tua azienda per poter irridere, ambedue, all’avversità della sorte. Ma l’antica signora aveva fretta, né pietà di amici, né amore di figlia, né dolore inconsolabile di moglie hanno potuto frenare la cruda determinazione del destino.

E con il mio cuore affranto, ora e per il tempo che mi rimane, ti invio l’abbraccio che il tuo affetto, la tua simpatia ed il tuo stile di vita meritano.

Ciao.

Il tuo amico Peppino.

Giuseppe Chiaia – 7 dicembre 2003