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Tre situazioni. Tre condizioni differenti. Tre di numero. Diverse ma concatenate: come lo sono i fatti della vita. 

“Caro dottore, riflettevo su come sia strana, a volte, la nostra esistenza. A distanza di un anno, la relazione con mio marito è priva di quegli scontri che ci avevano condotto sull’orlo della separazione!” – “Bene, dovremmo esserne contenti?” – “Al tempo, dottore. Agli occhi degli altri, siamo tornati ad essere la coppia affiatata di sempre… in realtà, ci evitiamo affettuosamente” – “Può precisarmi meglio il senso?” – “Dialoghiamo ma non comunichiamo; valutiamo ma non decidiamo nulla che riguardi la nostra relazione; si discute di ciò che ci sta intorno, ignorando quello che ci viene da dentro. In altre parole, abbiamo scelto, senza dircelo, di non incrociare punti di interesse comuni. Così non ha senso litigare e, pur volendoci bene, ci illudiamo di star bene!”. 

Per distrarmi, guardo un po’ quello schermo su cui, virtualmente, vengono mandati in onda avvenimenti che costituiscono il mondo della televisione e, in un programma di intrattenimento raffinato nonostante la (ormai) solita carrellata di virologi e politici, riesco ad ascoltare la lucida analisi di un acuto economista circa ciò che accade nel nostro bel paese e ricavo che, se costui avesse potuto essere più esplicito, avrebbe invitato, “sic et simpliciter”, la classe imprenditoriale e industriale a fissare la propria sede legale e fiscale lontano dall’italico stivale, caratterizzato, ormai, da uno stato di decadenza irrefrenabile pari all’andazzo dell’ultimo periodo dell’Impero romano d’Occidente.

Con la costante aggravante della necessità di evitare il baratro finale, assorbendo risorse (portandoli al collasso) da coloro che, paradossalmente, bisognerebbe tutelare: i cittadini laboriosi.

Che strano, ricordo di avere apprezzato ho apprezzato l’intervista di un pilota di Formula uno che, dopo aver recuperato i punti di svantaggio in classifica mondiale, ha dichiarato: “Il mondo delle piste, è assai particolare. Spesso ci siamo trovati in fondo al gruppo e, poi, per una serie di circostanze favorevoli siamo riusciti ad arrivare in testa a guardare gli altri dall’alto in basso ma siamo consapevoli che la situazione cambia velocemente e che tutto, nelle corse può, sempre, succedere. Comunque vada, l’importante è divertirsi. Siamo un team in perfetta armonia e completa sintonia. Siamo abituati a lottare, come sempre, fino all’ultima curva”.

Rifletto.

Prendendo spunto dalla suggestiva immagine di copertina, potremmo immaginare che, la “messa in onda” della Vita avvenga all’interno di un circo dove si esibiscono due tipologie di artisti: gli equilibristi e i trapezisti.

I primi rappresentano il rapporto che ciascuno ha con se stesso. Su una corda, in equilibrio fra ciò che vorremmo (una vita tranquilla e sensata) e quello che, da noi, si aspettano gli altri (apparenza e consistenza in ottica speculativa, in ossequio al principio del “quanto mi servi, quanto mi costi e cosa posso trovare di meglio”), col risultato di renderci frenetici e sfiniti…

I secondi, costituiscono l’emblema di quell’indispensabile armonia di coppia, senza la quale il rischio di precipitare è talmente elevato dal dissuadere a continuare. 

In effetti, quanto è ipotizzabile riuscire a realizzare un percorso insieme (sia sul piano affettivo che lavorativo) senza allenarsi a sincronizzarsi anche ad occhi chiusi?

Qualche anno fa mi è capitato di leggere i risultati di una ricerca, pubblicata sul Journal of Sexual Medicine e condotta dalla dottoressa Stephanie Ortigue dell’University of Syracuse, che “indagava” il colpo di fulmine.

Secondo tali studi, per innamorarsi basterebbe un quinto di secondo durante il quale si attivano 12 aree cerebrali che lavorano insieme per liberare sostanze euforizzanti: dopamina, ossitocina, adrenalina, con risultati simili a quelli dati dall’assunzione di cocaina. 

Bene. 

In un lampo possiamo provare interesse verso qualcosa o qualcuno, in base a rispondenze peculiari e personali. Però, siccome esiste il meccanismo dell’assuefazione, se non ci si continua ad impegnare per stupirsi vicendevolmente, dopo un po’… “tutto il resto è noia!”. Non migliorare l’intesa (fra partner affettivi, lavorativi, relazionali) porta ad ossidare il punto di contatto fra le parti riducendo, di fatto, il passaggio di quegli impulsi che rendono possibile il mantenere in vita il rapporto.

Esistere significa “poter scegliere”; anzi, essere possibilità. Ma ciò non costituisce la ricchezza, bensì la miseria dell’uomo. La sua libertà di scelta non rappresenta la sua grandezza, ma il suo permanente dramma. Infatti egli si trova sempre di fronte all’alternativa di una “possibilità che sì” e di una “possibilità che no” senza possedere alcun criterio di scelta. E brancola nel buio, in una posizione instabile, nella permanente indecisione, senza riuscire ad orientare la propria vita, intenzionalmente, in un senso o nell’altro. (Soren Kierkegaard)

Cari Lettori, qualcuno ha detto che non basta aver dato, un giorno, ai figli, la vita perché bisogna riportarla ogni giorno a loro, ripetendo, su un altro piano, la donazione.

Mi sovviene quanto affermato da Massimo Recalcati, a proposito della figura materna: “Quel che resta insostituibile della madre è la testimonianza che può esistere ancora, nel nostro tempo, una cura che non sia anonima, una cura che ami il particolare più particolare del soggetto, una cura capace di accogliere la rugiada che viene alla luce del giorno… Ed è proprio questo amore che la maternità, nonostante tutte le trasformazioni ipermoderne che ne hanno modificato la fenomenologia, ha il compito di custodire”.

E, in merito all’idea di Padre, mi colpisce ancora il ricordo proveniente dagli studi liceali della particolare figura di Ettore Re di Troia che, prima di andare incontro alla morte (certa) nel combattimento con Achille, salutando il figlio per l’ultima volta si leva l’elmo per farsi riconoscere come uomo più che come eroe e, sollevandolo da terra, verso gli Dei, gli augura di diventare più forte e più giusto di lui

Cari Lettori, per esperienza diretta so che il “genuino” orgoglio di un padre (e di una madre) è una forma di “sano” narcisismo perché si è felici per gli obiettivi che, si spera, il figlio raggiungerà. Immaginando ogni suo successo come il risultato di insegnamenti, principi, regole e punti di vista, dispensati per una vita. Dopo essere stati incamerati, da una vita, nel proprio ruolo di figlio.

Obiettivi comuni, apprendimenti convergenti, impegno continuativo.

Tre premesse fondamentali, per poter scegliere fra tre diverse soluzioni al problema, ricordando l’inizio di questo editoriale: ignorare il problema, abbandonare la partita, lottare fino all’ultimo.

La scelta è difficile?

Allora proviamo ad “ascoltare” (con la voce della nostra coscienza) questa antica parabola irlandese: “Due topolini cadono in un secchio di panna. Il primo si lascia andare subito e muore affogato. Il secondo non ci sta ad arrendersi così facilmente; e allora si agita e nuota fino al punto che la panna si trasforma in burro. A quel punto, avendo un solido appoggio, balza fuori dal secchio”.

Ho letto che, tra coloro che viaggiano, c’è chi ha una meta e chi si è perso. Io credo che la sfida sia quella di provare a perdersi per, poi, ritrovarsi. Ogni giorno.

“Il talento, la memoria, il viaggio. Eccola, la vita che lascia le orme, papà” (Walter Veltroni – Ciao)

Giorgio Marchese -Direttore La Strad@

Un ringraziamento ad Amedeo Occhiuto per gli aforismi proposti

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