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Dovevo andare a parlare ai giovanissimi di un oratorio, a causa del corona virus non è stato possibile farlo, ho deciso di buttare giù due righe per non disperdere quanto mi ero prefissato di raccontargli. Il carcere non è quello dei polpettoni a stelle e strisce, neppure quello delle stanze per vip come vanno inventando alcuni uomini politici a giorni alterni.

Il carcere c’è, esiste, non soltanto nelle play station, c’è in tutta la sua illegalità,  violenza, ingiustizia, ma ognuno preferisce non vedere, sapere, conoscere, tanto è una realtà che non sta nel mio Dna, una sorta di esorcizzazione affinché  non debba mai finirci dentro.

Eppure posso garantire ai tanti saggi e santi che non sono, che in quelle sezioni sgangherate, in quei cubicoli maleodoranti, in quegli spazi inesistenti, vi ho incontrato cittadini detenuti di ogni ceto; medici, operai, forze dell’ordine, giudici, studenti, pensionati, furbetti al latte e assassini professionali, miserabili e accattoni, irresponsabili al color del vino.

Insomma in galera non ci finisce unicamente il delinquente incallito, pure chi è convinto di esser diventato maledetto per vocazione, trascinandosi nel mare sommerso, galleggiando tra maschere e inganni.

Finchè la prigione sarà percepita come un ricettacolo di impossibili riparazioni, non ci sarà da stupirsi per i sempre più frequenti suicidi che coinvolgono uomini e donne, colpevoli e finanche innocenti, perfino con la  divisa ancora addosso. Questo agglomerato sub-urbano non compete soltanto chi ha sbagliato, ma anche chi dovrebbe esser lì per mandato, per missione, per volontaria espressione umana, Un contenitore che tempra potenziali devianti, non serve a nessuno, peggio, non fa sicurezza, al contrario un carcere che funziona rende la società’ più sicura, senza la necessità  di usare arbitrariamente parole destinate agli intestini.

Si muore in carcere, là, dove qualcuno si ostina a dire che è possibile esser liberi nel proprio cuore, si muore con la gola strozzata, con le vene spezzate, con l’anima strappata.

Muoiono giovani e meno giovani, nel silenzio di una cella, solitudinarizzati dall’indifferenza di quanti pensano che buttare via la chiave risolva tutti i problemi, dimenticando che una volta scontata la condanna, dal carcere si esce, proprio in quel preciso istante occorrerà domandarci cosa è legalmente ritornato in seno alla collettività. Sì, dalla galera si esce anche prima di avere scontato il dovuto, si esce con i piedi avanti, senza disturbare alcuno, nella disattenzione di chi pensa: meglio così. Sì, come ha detto qualcuno in malafede, in carcere non ci sono innocenti, non ci va nessuno, ma il sovraffollamento avanza feroce, dal carcere si esce subito, dentro c’è gente da 30 o quaranta anni. L’interpretazione creata a misura di tastiera, è che non ci sono persone detenute, ma cose, oggetti, numeri. Ecco a quei giovani volevo raccontare come il carcere non serve a scontare la propria pena con dignità, ma a seppellire speranze per diventare persone migliori, insieme, architetti di una Società  migliore.

Vincenzo Andraous

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