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Caro Direttore, come sempre ti devo assai di più di ciò riesco a fare, ecco perché i maestri sono importanti, ci danno la misura della nostra incompletezza e fin’anche inadeguatezza, soprattutto quando pensiamo di essere in cima alla collina, dunque nella condizione di dettare tempi e spazi di azione, invece siamo ai piè della rupe, qualche volta rotolando, altre scivolando, in ogni caso siamo fermi ad attendere un segnale.

Ho letto con grande attenzione il tuo editoriale, poi ho riletto le mie righe

Ciò mi ha costretto a ritornare dove il male impera, dove il bene appare soccombente, dove l’uomo inciampa nelle proprie indicibili miserie.

Angelo non è un percorso di risalita in automatico, neppure un apporto supporto cui fare riferimento a proprio comodo; Angelo è una assenza dentro una presenza costante, non solamente per chi in lui cerca e trova un appiglio e una sosta a protezione del bene che ne deriva.

Angelo è pure altro: un monito e una strada maestra, dove non c’è possibilità di indossare altre maschere, altre vestizioni, altre inutili grammatiche d’accatto.

Angelo è quello che noi non siamo.

So perfettamente bene che il perdono è l’origine di tutto, ma altrettanto bene so che c’è un male e un dolore irraccontabili, talmente inebetenti, da risultare incomprensibili, dunque non conoscibili, non misurabili con la reazione che ne deriva.

Ho pensato molto a quei ragazzi sotto vuoto spinto, alla loro azione indegna e vile, ho pensato anche alle mie azioni, alle tante azioni che quotidianamente imperversano su questa terra, sempre più spesso terra di confine e non di frontiera.

Ci sono attimi così impregnati di sofferenza che c’è grande fatica a fare conti in equilibrio con la giustizia, con la dignità di ognuno e di ciascuno, con il rimettere i nostri debiti, c’è fatica perfino all’ indignazione, un franare inarrestabile sulle ginocchia nel tentativo di nascondere il viso tra le mani.

Perfino il Papa chiede nell’anno giubilare straordinario della Misericordia ( che è anche e soprattutto compassione checchè non se ne dica a sufficienza) invita a inginocchiarsi davanti a Dio per implorare il perdono per i peccati passati e presenti dei suoi figli. Perché tutti hanno peccato e nessuno può dirsi giusto.
Tutti peccano e tutti posseggono attenuanti prevalenti alle aggravanti, tutti hanno giustificazioni, tutti hanno modo di arretrare e di avanzare, tutti.

Forse nessuno.

Angelo è un nome che viene da lontano e significa: Colui che è mandato”. Perché ci vuole davvero coraggio per cambiare: per abbandonare i carichi inutili, le zavorre che ci fanno camminare sulle ginocchia e neppure ce ne accorgiamo, i deliri di onnipotenza, pensare che siamo i più furbi, che attraverso le nostre pratiche violente o truffaldine, raggiungere ogni traguardo, infischiandocene di chi davanti a noi arranca, inciampa, cade, no, noi non ci fermiamo a soccorrerlo, ci passiamo sopra, per arrivare alla meta.

Per tanto tempo ho fatto finta di rispettare gli altri, dunque senza mai rispettare davvero me stesso, di riconoscere il ruolo degli altri; l’ho fatto soltanto quando quel ruolo era subalterno, supino, al mio.

E così facendo non soltanto si perde contatto con la realtà, con la sostanza delle cose… peggio, molto peggio: la stessa vita umana perde il suo valore.

La vita di Angelo ha perso il suo inestimabile valore.

Rieducare, perdonare, ritornare… c’è fatica ad accorciare le distanze, quelle lontananze che non sono spiegabili e quindi rendono reiterabile la caduta nell’ignominia. Perdonare, dove l’ultima volontà di un perdono viene meno.

Fino a sette volte? Non ti dico fino a sette, ma fino a settanta volte sette”.

Gesù ci dice che è possibile perdonare, ma io sono un peccatore, non ho la sua forza né il suo coraggio. Mi convinco, per esperienza, che gli eventuali passaggi di riparazione e quindi di risalita, debbono partire, iniziare, confluire dentro la consapevolezza che occorre ri-partire dal riconoscimento dell’esigenza di giustizia che sale alta dalla sofferenza di chi è vittima, di chi è stato messo da parte con la violenza, quella violenza ancor più indegna, perché non spinta da alcun scopo utilitaristico, nel sangue degli innocenti, di quelli che spesso sempre più spesso rimangono privati di una giustizia giusta.

Con l’esperienza ho compreso che soltanto da questo riconoscimento possono nascere e svilupparsi nuove opportunità di riscatto e riconciliazione da parte di chi il male l’ha commesso, da questo riconoscimento potrà nascere una possibilità di riparare al male fatto, in ogni conversione c’è necessità di riparazione, di sollievo e conforto e giustizia per chi ingiustamente ha ricevuto il dolore della sofferenza e della tragedia.

Riparazione, anche là, dove l’unica forma di riparazione possibile, è il perdono.

Mi viene in mente il discorso della montagna e con l’esempio che Gesù stesso ci ha dato dall’alto della croce quando ha chiesto perdono per i suoi crocifissori. Come ha detto il Cardinal Martini, questo “esprime un’istanza evangelica fondamentale e irrinunciabile, pur se ardua, difficile, al limite eroica”. Il perdono non è “un atteggiamento ovvio, che basta stimolare, ma di un dono gratuito dello Spirito Santo, che è caratteristico del cristianesimo, della grazia”.

Il Cardinal Martini che ho avuto la fortuna di conoscere e con cui ho svolto alcuni colloqui, mi ha insegnato che intercedere non vuol dire semplicemente “pregare per qualcuno”, come spesso pensiamo.
Etimologicamente significa “fare un passo in mezzo”, fare un passo in modo da mettersi nel mezzo di una situazione.
Intercessione vuol dire allora mettersi là dove il conflitto ha luogo, mettersi tra le due parti in conflitto. Non si tratta quindi solo di articolare un bisogno davanti a Dio stando al riparo, in un comodo riparo.

Si tratta di mettersi in mezzo.

Là, dove il male ha messo domicilio, a volte residenza; là, dove occorre articolare il castigo della responsabilità infranta, peggio, presa a scaracchi; là, dove ha cittadinanza, il sentirsi parte di una ritrovata dignità.

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