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Il presente lavoro rappresenta un approfondimento monotematico (e un arricchimento di un lavoro pubblicato il 5 maggio 2012) di alcune parti dell’articolo Quell’emozione chiamata paura risultante da trattazioni in dibattiti televisivi consultabili nell’apposita sezione di questo Magazine. Non si sarebbe mai potuto scrivere senza il preziosissimo e indispensabile apporto degli studi del medico ricercatore Giovanni Russo, a cui va il mio profondo ringraziamento.

BUONA LETTURA.

È una notte in Italia che vedi, questo taglio di luna freddo come una lama qualunque e grande come la nostra fortuna… la fortuna di vivere adesso; questo tempo sbandato, questa notte che corre e il futuro che arriva: chissà se ha fiato. È una notte in Italia che vedi, questo darsi da fare; questa musica leggera, così leggera che ci fa sognare; questo vento che sa di lontano e che ci prende la testa, il vino bevuto e pagato da soli, alla nostra festa. È una notte in Italia anche questa, in un parcheggio in cima al mondo… io che cerco di copiare l’amore ma mi confondo. E mi confondono più i suoi seni puntati dritti sul mio cuore o saranno le mie mani che sanno così poco dell’amore. Ma tutto questo è già più di tanto: più delle terre sognate, più dei biglietti senza ritorno, dati sempre alle persone sbagliate; più delle idee che vanno a morire, senza farti un saluto… di una canzone popolare che in una notte come questa, ti lascia muto. È una notte in Italia se la vedi da così lontano; da quella gente così diversa, in quelle notti che non girano mai piano; io qui ho un pallone da toccare col piede nel vento che tocca il mare: è tutta musica leggera ma, come vedi, la dobbiamo cantare; è tutta musica leggera, ma la dobbiamo imparare.È una notte in Italia che vedi, questo taglio di luna, freddo come una lama qualunque e grande come la nostra fortuna che è, poi, la fortuna di chi vive adesso; questo tempo sbandato, questa notte che corre e il futuro che viene a darci fiato. (Ivano Fossati)

“Quel che temiamo più di ogni cosa ha una proterva tendenza a succedere realmente” (Theodor Wiesengrund Adorno)

La parola fobia (dal greco phobos, timore, paura) indica un sentimento di paura intensa, inquietante, devastante e invincibile provocata da oggetti o situazioni che normalmente non dovrebbero determinare tali emozioni così conflittualmente intense. In realtà, più che di paura, spesso si tratta di vere crisi di angoscia grave che si manifestano ogni volta che la persona fobica si trova nella situazione che innesca il meccanismo “critico”. Partendo dal principio più volte ribadito che la paura rientra nell’esperienza umana universale e che ognuno di noi cerca, in qualche modo, per il grado di sofferenza che essa provoca, di rapportarvisi nel modo più consono e adeguato, la fobia, appunto, non contraddistingue la risposta a un pericolo oggettivamente riconosciuto e identificato ma, semmai, una condizione di apprensione irrazionale che diventa ossessiva e inappropriata. Tale situazione ostacola l’individuo anche nelle sue attività più semplici, più elementari attraverso dei comportamenti di evitamento nei riguardi degli stimoli fobici. La paura del buio, della solitudine, di certi animali o delle persone sconosciute sono tutte paure dietro le quali si mascherano angosce interiori, magari derivanti da problematiche non risolte del nostro percorso di crescita maturativi. Quando le fobie si ingigantiscono e dominano gran parte della vita della persona, stanno a significare che l’insicurezza nel rapporto con se stessi, con l’ambiente e con le proprie azioni è fonte di tensione profonda, tale da costituire una gabbia dalla quale non si esce se non a prezzo di gravi sofferenze. Infatti, nei casi più seri questo malessere limita fortemente la propria libertà costringendo ad organizzare ogni aspetto della propria vita in modo da prevenire ogni occasione di problematica.

Le fobie in età evolutiva.

Anche in questa età, come per l’adulto, la fobia è una particolare forma di paura immotivata e sproporzionata alla situazione reale, che non può essere tenuta sotto controllo attraverso un’analisi razionale, tanto meno controllata con l’applicazione consapevole della volontà. In questo particolare periodo della vita, essa produce un persistente evitamento della situazione temuta (maggiore che nell’età adulta). La risposta fobica generalmente si esprime sia sul piano fisiologico, creando modifiche neurovegetative (sbalzi pressori, tachicardia, sudorazione, conati di vomito, etc.), emotive (con disturbi del tono dell’umore), cognitivo (difficoltà di concentrazione, etc.) e comportamentale (stati di agitazione psicomotoria). Nel bambino piccolo alcune paure devono essere considerate parte integrante del normale processo evolutivo in quanto hanno, in genere, un carattere transitorio e non interferiscono significativamente con lo sviluppo psicoaffettivo (della vita di relazione e del rapporto con se stesso). Sono comunque avvenimenti che si verificano nel suo ambiente naturale. Più tardi esse si riscontreranno (anziché nella realtà) nell’attività immaginativa e, soprattutto, di fantasia: paura di fantasmi e di ipotetiche persone cattive. Anche la paura di fallimenti scolastici o di una adeguata gestione dei rapporti di amicizia si osserva, in genere, non prima della preadolescenza. A seconda dell’età, dunque, si ha la prevalenza di una paura piuttosto di un’altra. Di solito si tratta di qualche disagio senza importanza che non intralcia la vita quotidiana. Diventa, invece, importante prenderle in considerazione quando la loro comparsa interferisce significativamente con la vita del ragazzo, come nel caso di paure immaginarie che gli limitano il normale svolgimento delle varie attività scolastiche e relazionali (fobia sociale, fobia scolastica, etc.).

Come ci si relaziona con esse, per migliorarne la soluzione?

Dal momento che il quadro appena descritto consegue a difficoltà relative ad un corretto sviluppo equilibrato e maturo, è necessario aiutare il ragazzo a “crescere” nella maniera più adeguata. Cosa significa crescere?

“Padre: uno che riesce a guardarti negli occhi, indipendentemente da quanto sei diventato alto” (anonimo).

“Crescere”, dal latino, significa, in sostanza, andare formandosi e creare evoluzione; diventare migliore secondo un processo educativo fisiologico e naturale, risolvendo eventuali conflitti su meccanismi di attaccamento e di relazione che gettano le basi per un essere umano ansioso e angosciato. In pratica, diventare adulto equivale ad essere capace di capire la differenza fra il pretendere e il “pagare” per ottenere anche quello che, legittimamente, ti spetta considerando, inoltre i limiti raggiungibili in base al tempo storico e al contesto geografico; conoscere, sviluppare e saper usare le potenzialità a propria disposizione; imparare a trarre tesoro da ogni esperienza, trasformando le frustrazioni in opportunità per diventare migliori; costruire la stima di sé senza troppi condizionamenti; riuscire a raccordare ruoli e competenze: In quattro parole… diventare maturi e saggi.

Le fobie più conosciute.

È chiaro che le manifestazioni fobiche, in quanto proiezione di problematiche interiori, costituiscono rappresentazioni problematiche molto personalizzate. Ciononostante, si possono elencare alcune tra le caratterizzazioni più comuni e diffuse: Claustrofobia (paura luoghi chiusi), agorafobia (paura dei luoghi aperti), misofobia (paura dello sporco), zoofobia (paura degli animali), siderodromofobia (paura degli oggetti di ferro in movimento), ereutofobia (paura di arrossire in pubblico), patofobia (paura di contrarre malattie dal contatto con gli altri), fotofobia (paura della luce), acrofobia (paura dei luoghi alti), aracnofobia (paura dei ragni), xenofobia (paura degli stranieri), aerofobia (paura delle correnti d’aria), ailurofobia (paura dei gatti), ginecofobia (paura delle donne), androfobia (paura degli uomini), cinofobia (paura dei cani), demofobia (paura della folla), ecofobia (paura di rimanere da soli in casa), idrofobia (paura dell’acqua), necrofobia (paura dei cadaveri), nictofobia (paura dell’oscurità), tafofobia (paura di essere sepolto vivo), pirofobia (paura del fuoco).

Interventi terapeutici

Le persone che hanno vissuto in un’atmosfera di paura, di rimprovero o di violenza in genere, sono molto spesso quelle che adottano il meccanismo del “controllo autorepressivo” per sopravvivere o, comunque, ridurre l’impatto con le frustrazioni. Quando, però, una situazione sfugge loro di mano, perché si sentono minacciate per qualche motivo ( salute, relazioni affettive o sicurezza materiale) o perché sono semplicemente un po’ stanche di questa vita troppo “sotto tono”, generano, via via, una situazione di difficoltà “gestionale” legata a stress continuativo e, nel tempo, producono quadri di ansia acuta generalizzata che tendono a “razionalizzare” mediante la produzione di fobie. Questo perché, in tal modo, ci si concentra su falsi bersagli, restando molto lontani dalle vere motivazioni che, a livello inconsapevole, si ritiene di non poter risolvere. Abbiamo, allora una “folla” di manifestazioni disturbanti: tachicardia, pressione alta, crampi, nodo in gola o allo stomaco, vampate di calore, abbondante sudorazione o sensazioni di freddo, etc.

Partendo dal principio che la fobia è una manifestazione di sofferenza strettamente personalizzata, motivata dalla necessità inconsapevole di attirare l’interesse di qualcuno che ci aiuti (familiari, ma non solo), nell’intento di ottenere quello che, tecnicamente, viene definito “vantaggio secondario” (cioè, nella fattispecie, protezione, sostegno, accettazione, comprensione, giustificazione, etc. ), possiamo concludere che la persona fobica “vive” la sensazione di “penzolare” nel vuoto, con la percezione di precipitare.

Questo dipende da due fattori:

– il primo deriva da una sorta di “insaturazione” (perdita di qualche elemento sostanziale) della struttura delle idee in merito agli argomenti che andranno a generare la fobia;

– il secondo dipende da conflitti interiori conseguenti a incapacità nel saper prendere decisioni.

Per essere d’aiuto non si può affrontare la problematica con aggressività, magari sollecitando “incisivamente” il sofferente a non “lasciarsi andare”. Si finirebbe per creare, nella persona, una paura della propria aggressività e con conseguente maggiore “chiusura” fobica. Chi soffre di fobia non è certamente un individuo violento ma può reagire male se si sente costretto a dover “forzare” la propria fobia. Per lo più, se lasciato in pace, cerca un luogo dove nascondersi per sentirsi protetto.

Allora, non essendo un lavoro che si può fare da soli, si agisce in due modi, con il coinvolgimento di uno psicoterapeuta o di un counselor (a seconda della complessità del problema):

– anzitutto è necessario trasmettere (mediante spiegazioni rassicuranti e realistiche) la propria solidità interiore; in questo modo, a livello inconsapevole, nella psiche della persona fobica si genera un meccanismo di stabilizzazione che “satura” gli elementi delle idee che oscillano nel vuoto e inizia un barlume di sicurezza e solidità;

– successivamente, mediante l’applicazione di un percorso terapeutico concordato tra professionista e sofferente, si lavorerà per raggiungere l’obiettivo di imparare a costruire quell’autostima necessaria a dare il giusto valore alle proprie capacità, onde imparare come risolvere le indecisioni che generano quei conflitti responsabili delle fobie

Le basi fondamentali di tale lavoro sono quelle che producono l’equilibrio nel professionista. Tale equilibrio, determinerà stabilità, coerenza, la serenità, calma, saggezza e solidità.

Questi elementi generano la sicurezza, la quale determina la resistenza (che serve per sostenere il proprio equilibrio raggiunto e preservarlo dagli attacchi delle nevrosi del mondo esterno) che, a sua volta, produrrà forza intensità.

Tutto ciò rappresenta ciò che deve intendersi per appagamento dei bisogni primari necessari allo sviluppo di un’identità corretta e matura (autostima, autoaffermazione, integrazione sociale nel rispetto della tutela della propria identità, autorevolezza, sicurezza ed autoconservazione, appagamento sessuale all’interno di un valido rapporto d’amore, programmazione ed autorganizzazione, riservatezza, garbo e cortesia, etc.) e costituisce le fondamenta su cui si deve poggiare la capacità di un individuo ad affrontare le incombenze del quotidiano, senza crollare sotto i colpi delle avversità.

Come si affronta una paura irreale, definita anche complesso di paura?

Trovando le motivazioni e affrontandole nella giusta maniera. Ci sono tanti elementi in grado di determinare la produzione di una fobia o (complesso di paura), tutti personali, quindi difficilmente chiarificabili su base oggettiva; per cui, sulla base della personalità del sofferente in questione, si attua una metodica che porta ad eliminare le motivazioni, smontandole. La fobia è un “falso problema! Rappresenta, infatti, un meccanismo sintomatico che si instaura molte volte come “sistema di protezione” che ci impedisce di fare delle cose (che non riusciamo a visualizzare) che, inconsapevolmente, non siamo disponibili a realizzare. Eliminando le motivazioni che hanno reso necessario il sistema di protezione, svanisce la fobia. Contrariamente all’approccio psichiatrico, in psicoterapia le fobie si affrontano valutando “ad hoc” le disarmonie della personalità del sofferente: non c’è un sistema unico, basato su una cerchia farmacologica che, a tentativi, viene somministrata a tutti, più o meno allo stesso modo. Nel counseling, invece, si individua una strada (in armonia con le proprie attitudini), che consenta il recupero della propria dignità personale, al fine di ottenere una migliore considerazione di sé e, di conseguenza, una minore preoccupazione verso l’imponderabile.

Una persona può avere una paura, senza riconoscerne la causa?“Ogni linguaggio è un alfabeto di simboli il cui uso presuppone un passato che gli interlocutori condividono” (Jorge Luis Borges).

Spesso accade proprio questo. Ecco perché, all’interno di un trattamento di psicoterapia o di counseling (con differente “approfondimento”, ovviamente), si mette in atto un procedimento sequenziale che prevede quattro momenti differenti:

1. Scoperta, in cui il professionista si rende conto che esiste una problematica che sfugge al sofferente;

2. Consapevolizzazione, in cui il professionista rende chiara la dinamica della problematica e ne fa prendere coscienza;

3. Accettazione, in cui il sofferente non si protegge più da quel problema, accettando l’idea di avere delle limitazioni (questo è possibile, perché si impara a non considerare la necessità di doversi per forza rassegnare ma, al contrario, si apprezza il piacere di combattere per ottenere);

4. Cambiamento, in cui si lavora per eliminare quelle limitazioni che sono state accettate e, conseguentemente, incamminarsi verso la liberazione di “catene”, “lacci” e “laccetti”.

È come se non esistessero paure reali…

Perché è quello che tu non vedi rispetto a ciò che hai di fronte (e di conseguenza ti fa paura) perché è tutto quello nei confronti del quale hai delle aspettative, quasi per evitare di restarne deluso. Te lo aspetti negativo o conflittuale così da prepararti all’impatto e non creare illusioni che poi si infrangerebbero contro il muro della propria incapacità. Imparando a diventare migliori e più capaci, tutto ciò non ha più senso e, di conseguenza, riusciremo a guardare davanti a noi, senza la paura del sole che ci abbagli.

Non dimentichiamo, infatti, che la paura è quell’emozione che noi determiniamo quando ci troviamo di fronte a qualcosa che riteniamo essere un pericolo, cioè un elemento che non riusciamo a fronteggiare con “tranquilla competenza”.

Quando il rapporto con se stessi migliora le paure diminuiscono. Questo è uno degli indicatori della nostra identità ma come accorgersi se, nonostante l’assenza di fobie,il rapporto con noi stessi funziona bene?

Da qualcosa che si chiama umore. Se siamo di buon umore, in quel momento, la nostra identità è equilibrata, altrimenti, qualcosa non va.

Perché?

Perché tutto quello che viene elaborato a livello di corteccia cerebrale (e che produce le idee e i concetti) viene trasmesso in una zona di “abbigliamento emotivo”, dove viene vestito delle emozioni più adatte. Questo determinerà il tono dell’umore.

Allora, ogni volta che sentiamo di avere un cattivo umore dovremmo fermarci ad individuarne le cause per evitare problemi più seri?

In linea di massima si, perché trascurare quello che il nostro mondo interno ci manda a dire significa mancare di rispetto a qualcuno di molto importante, quel qualcuno che ci accompagna ventiquattrore al giorno tutti i giorni della nostra vita, che ci sta accanto nei momenti tristi, nei momenti belli, che ci è stato vicino quando siamo nati e sarà accanto a noi quando moriremo. Per cui è opportuno mostrare il massimo rispetto e la massima considerazione nei confronti di chi assiste da una posizione privilegiata alle nostre attività quotidiane e può porsi in accordo o in disaccordo.

“…Non credere a quanto ti viene annunciato come verità dottrinale solo per la forza carismatica di chi lo fa; né devi credere per un fatto di religione, di cultura, di casta, o di razza; né per un’imposizione qualunque, sia pure manifestata in buona fede. Credi solo se quanto ti viene indicato trova corrispondenza nella tua anima e nel sano giudizio che alberga in te. Solo così sarai un uomo libero e capace di promulgare, a tua volta, la Verità agli altri” (Gotama Siddartha – il Buddha)

Si può avere un buon umore ed un complesso di paura?

Non contemporaneamente. Io posso sviluppare una fobia in presenza di un elemento che può essere veramente una cosa qualunque: un soprammobile, un insetto, un aereo ma, in assenza di questa stimolazione posso recuperare quell’equilibrio necessario a godermi una situazione limitante, limitata ma priva di sofferenza evidente. È un po’ come la persona che è afflitta da dolori organici: nel momento in cui assume un analgesico si gode, non tanto il proprio benessere quanto l’assenza di quel malessere, che non significa viver bene; significa semmai la riduzione di disturbo quindi, è necessario riuscire ad avere le idee chiare in tal senso.

Le persone sensibili hanno più paure?

Le persone sensibili attivano un’attenzione maggiore rispetto agli eventi, di conseguenza determinano condizioni di allarme più frequente rispetto agli individui con un grado di sensibilità meno sviluppata. Allora, per intanto, le prime consumano più energia mentale delle altre, poi, se a queste aggiungiamo che non sempre si ha una adeguata capacità di gestione delle informazioni che riceviamo, ci ritroviamo in una situazione un po’ gravosa sul piano del controllo razionale: da qui la maggiore “esposizione” ai problemi.

Verrà un tempo, quando l’evoluzione dell’essere umano sarà maggiormente progredita, in cui le paure non esisteranno più?

Anche in questo caso, se per paure intendiamo ciò che ci porta a ridurre la nostra capacità di azione è chiaro che si andranno a ridurre; se invece intendiamo la capacità di stare in allerta, allora c’è da augurarsi che questo non si determini perché, comunque, nei confronti di eventi dal mondo esterno è sempre meglio restare sufficientemente “in ascolto” per prevenirli o gestirli adeguatamente.

“Ciao ciao. Andarsene è un peccato però ciao ciao. Bella donna alla porta che mi saluti e baci abbracci e sputi e io che sputo amore io che non sputo mai, Ciao ciao… andarsene era scritto perciò ciao ciao. Bella ragazza che non m’hai capito mai già parte il treno, sventola il fazzoletto, amore mio però piangi di meno! Ciao ciao, ciao amore ciao… guarda che belli i fiori in quella città, ciao amore ciao, amore come va? ciao amore, amore ciao… Ciao ciao… guarda che belli i fiori in quella città, che mai mi ha visto e mai nemmeno mi vedrà; guarda che mare guarda che barche piccole che vanno a navigare (Ciao ciao – Francesco de Gregori)”Se acquisire informazioni fa soffrire, come bisogna comportarsi?

È necessario mettersi in condizioni di capire come mai soffriamo nell’attivare un canale naturale che ci consente di “vivere” sul piano mentale, così come è possibile mandare avanti il nostro organismo attraverso il cibo. Non esiste un cervello capace di lavorare senza informazioni che provengano dal mondo esterno perché, un meccanismo che la Fisica studia e che si chiama “entropia” ci dice che un sistema che tende a chiudersi aumenta il grado di disordine interno. In altre parole, il problema non deriva tanto da quello che “entra” nel cervello, ma da come viene elaborato e affrontato. E questo si impara.

Quanto c’è di vero nell’affermazione “io non ho paura di nulla “? Cosa si nasconde dietro ciò?

Potrebbe esserci una duplice interpretazione. La prima è che in realtà non si dia un corretto valore alle parole perché, magari, si vuole intende “io riesco ad affrontare qualunque circostanza”. Questo non significa non aver paura ma, semmai, non fermarsi di fronte alla paura.

La seconda considerazione da fare è che forse queste persone sono poco sincere, magari anche con se stesse, per cui tentano di darsi coraggio dichiarando qualcosa di non sostenibile e cioè, l’assenza di paura; non è possibile che, di fronte ad una condizione di effettivo pericolo l’ipotalamo non stimoli la produzione di ormoni da stress, tipici in condizioni di paura.

Come possiamo liberarci dalle paure intendendo per questo, non tanto dalla reazione fisiologica quanto, piuttosto, da quella sensazione di scomodità che è generata dall’emozione paura?

Intanto è bene razionalizzare quello che accade e cioè, renderci conto se ciò che stiamo provando, cioè, se questi pericoli che noi avvertiamo e nei confronti dei quali generiamo la reazione d’allarme sono, ad esempio, eventi ineluttabili oppure sono fobie oppure si generano per un mancato raggiungimento di una corretta maturazione interiore. A queste condizioni, cui ci può far paura il futuro, ci può far paura il nostro lavoro, ci può far paura l’idea di legarci ad una persona in maniera stabile, l’idea di fare famiglia: insomma una serie di problemi che potrebbero essere proprio legati al non sentirci ancora pronti “alla vita da adulti”.

In che modo si può canalizzare l’energia che si usa per produrre fobia?

La risposta più adeguata ha a che fare con l’elemento “neutrergia”, cioè la razionalizzazione dei motivi per cui si genera questa reazione incongrua di fronte a situazioni che, oggettivamente, non rappresentano per tutti lo stesso pericolo. Quindi bisognerebbe rifletterci, ragionare insieme a chi se ne intende per riuscire a venirne fuori, il che significa non generarle più.

Ma dove si va a sistemare, nella nostra mente, la “memoria della paura”?

Un gruppo di ricercatori dell’Istituto Nazionale di Neuroscienze ha individuato un meccanismo fisiologico alla base della formazione dei ricordi spiacevoli, quelli che vanno a costituire la cosiddetta memoria della paura. Questi neuroscienziati italiani, hanno localizzato la “centrale” delle brutte esperienze immagazzinate, nella corteccia del cervelletto. Da lì, le informazioni pervaderanno le zone del sistema limbico.

Il processo individuato, coinvolge le sinapsi inibitorie che regolano l’attività delle cellule di Purkinje. Queste sinapsi si modificano nel tempo affinché solo gli stimoli effettivamente legati tra loro, come per esempio un suono associato a una lieve scossa elettrica, diventino parte di uno stesso, spiacevole ricordo. Autori dell’importante scoperta sono Bibiana Scelfo, Benedetto Sacchetti e Piergiorgio Strata del dipartimento di Neuroscienze dell’Università di Torino.

Studi recenti condotti su topi dimostrano che il cervelletto è coinvolto nella memorizzazione delle condizioni che preannunciano un pericolo. In particolare, esiste un’area del cervelletto legata all’espressione della paura: si tratta del V e del VI lobo del verme, in cui convergono stimoli sensoriali acustici e dolorifici. Nel cervello dei topi (spiegano gli scienziati italiani dell’Inn), tale area cerebrale si attiva dopo un periodo di condizionamento nel quale l’animale impara ad associare uno stimolo innocuo ad uno doloroso e, conseguentemente, ad averne paura.

Non mi ricordo se c’era luna e né che occhi aveva il ragazzo ma mi ricordo quel sapore in gola e l’odore del mare come uno schiaffo. A Pa’. E c’era Roma così lontana e c’era Roma così vicina e c’era quella luce che ti chiama come una stella mattutina, A Pa’… tutto passa, il resto va. E voglio vivere come i gigli nei campi come gli uccelli nel cielo campare e voglio vivere come i gigli nei campi e sopra i gigli dei campi volare” (A pa’ – Francesco de Gregori)
“Quell’agente patogeno mille volte più virulento di tutti i microbi: l’idea di essere malati” (Marcel Proust)
 Bibliografia

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