Pubblicato su Lo SciacquaLingua
Onestamente non ricordiamo (nel nostro “archivio” non c’è traccia) se l’argomento che stiamo per trattare è stato già… trattato; lo riproponiamo, eventualmente, perché abbiamo avuto modo di constatare (e constatiamo) che molte persone (con l’avallo di alcuni vocabolari?) adoperano in modo errato la locuzione «per cui», dando a questa un significato che propriamente non ha: “perciò”, “per la qualcosa”. Il cui, innanzi tutto, è un pronome relativo indeclinabile ed è riferibile a persona, animale e cosa. Non è corretto il suo uso in funzione di soggetto, si adopera esclusivamente con i complementi indiretti: ecco il libro di “cui” ti parlavo; tu sei la persona per “cui” ho molto sofferto. Quando è complemento di termine può essere o no preceduto dalla preposizione semplice o articolata “a”, dipende dal gusto di chi scrive o parla: la persona “cui” mi rivolsi o la persona “a cui” mi rivolsi. Fatta questa importante (e necessaria) precisazione, veniamo all’errore di “cui” parlavamo all’inizio di queste noterelle. Lo strafalcione, dunque, consiste nel dare al “cui” un significato neutro che molto spesso si dà al pronome “che”, vale a dire l’accezione di «la qual cosa» formando, cosí, il costrutto – errato, ripetiamo – “per cui” nel senso di «perciò», «per la qual cosa». Per essere estremamente chiari, insomma, non si può dire o scrivere, per esempio, «ieri pioveva “per cui” non sono potuto uscire». Si dirà correttamente – in buona lingua italiana – «pioveva “perciò” non sono uscito». Pedanteria? Fate l’analisi logica del “per cui” e giudicate. E a proposito di pedanteria (che brutta parola!) se proprio volessimo essere… pedanti dovremmo sostenere – a spada tratta – la tesi secondo la quale è errato scrivere i pronomi personali “glielo”, “gliela”, “gliene” ecc. in grafia unita. La forma corretta “sarebbe” quella staccata: “glie lo”, “glie ne”. Secondo il linguista Amerindo Camilli coloro che usano la grafia univerbata commetterebbero un “linguicidio”. Perché, dunque, questi pronomi (glielo, gliene ecc.) dovrebbero essere scritti in forma scissa? Perché, secondo il Camilli, la grafia staccata si conforma a quella di “me lo”, “te ne” ecc. La forma «errata», però, è proprio quella comunemente adoperata.
A cura di Fausto Raso
Giornalista pubblicista, laureato in “Scienze della comunicazione” e specializzato in “Editoria e giornalismo” L’argomento della tesi è stato: “Problemi e dubbi grammaticali in testi del giornalismo multimediale contemporaneo”). Titolare della rubrica di lingua del “Giornale d’Italia” dal 1990 al 2002. Collabora con varie testate tra cui il periodico romano “Città mese” di cui è anche garante del lettore. Ha scritto, con Carlo Picozza, giornalista di “Repubblica”, il libro “Errori e Orrori. Per non essere piantati in Nasso dall’italiano”, con la presentazione di Lorenzo Del Boca, già presidente dell’Ordine nazionale dei giornalisti, con la prefazione di Curzio Maltese, editorialista di “Repubblica” e con le illustrazioni di Massimo Bucchi, vignettista di “Repubblica”. Editore Gangemi – Roma.