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Silenzi che non aiutano alcun esame di coscienza, distrazioni che non leniscono alcun dolore, guardare dove non è consentito farlo davvero, e fare chiacchiere da mercato sulla morte e l’abbandono di ogni pietà. Non è facile descrivere il carcere, approfittandone, con riflessioni di taglio storico, nonostante i tanti articoli, libri, dossier, mentre un altro detenuto si è lasciato morire (un numero tra i tanti), ha deciso di mollare gli ormeggi da una condanna ulteriore e non scritta oltre quella erogata dal giudice in nome del popolo italiano. Del carcere si parla per levarci di torno un fastidio, per non rendere giustizia a chi è stato offeso né a chi l’offesa l’ha recata. Se ne parla per rendere nebulosa e poco chiara ogni analisi, un messaggio annichilente che impedisce di intervenire. Il detenuto non è un numero, invece la realtà che deborda da una prigione è riconducibile all’umiliazione che produce il delitto, ogni delitto nella sua inaccettabilità. Un ragazzo ha deciso di ammazzarsi per stanchezza e per follia, per l’insopportabile sofferenza a scegliere di sopravvivere. Quando un essere umano è posto nelle condizioni non solo della privazione della libertà personale, ma anche di quell’altra meno onorevole e legale, dove neppure più esiste la convergenza di altre scelte per un possibile cambiamento… PER CONTINUARE LA LETTURA, CLICCARE SUL TITOLO.
…una reale emancipazioneebbene quella persona non ha alcuna possibilità di avvicinarsi ad una dimensione di riparazione, di speranza, di perdono.Risocializzare, reinserire, non sono solamente termini e concetti trattamentali da seguire e svolgere, essi purtroppo stanno a sottolineare l’inadeguatezza al dettato Costituzionale, per l’impossibilità di rendere fattivo l’intervento rieducativo, non usare questi strumenti e di contro incancrenire la convivenza, equivale a dichiarare fallito l’ideale della promozione umana.Quando c’è di mezzo una cella, una galera, la richiesta di una pena da scontare con dignità e progettualità, diventa tutto così banale, scontato, che è meglio non parlarne, anzi parliamone pure, ma per non fare nulla o quasi: persino la fatica che deve accompagnare il pensare e conseguentemente il fare, perde contatto con la sostanza delle cose.Basterebbe osservare volti e mani di detenuti in qualche carcere, per rendersi conto del livello di abbrutimento raggiunto, di quanto questa situazione di indifferenza e solitudine imposte, di mancata applicazione di quella famosa declinazione a nome rieducazione, risulti deleteria per la persona ristretta.Un carcere che non ha più al suo interno spinta a rinnovarsi, un carcere popolato di uomini vestiti di paura e stanchezza, con la sola aspettativa di scontare in fretta la propria condanna, e ciò senza alcuna consapevolezza del presente, senza vista prospettica, senza figura del futuro.In una sola parola senza speranza.Chi conosce poco del carcere, di questa condizione inumana, dove è vietato persino sentirsi utili, responsabili, con delle prospettive, ebbene a costui sfugge il senso di questo arbitrio.Forse qualcuno pensa che inchiodare il detenuto in uno stato di inazione e alienazione, comporti la fatica minore.Nuovamente è un inganno, perché quel detenuto non è in una situazione di attesa, dove il tempo serve a ricostruire e rigenerare, è l’esatto contrario: quel detenuto non attende domani, egli è fermo a ieri, a un passato riprodotto e mascherato, a tal punto, che tutto rincula a ieri, come se fosse possibile bloccare il tempo, come se delirare fosse identico a ben sperare.Se riconosco il diritto alle regole da rispettare, quel diritto a sua volta disciplina i rapporti con l’altro, e implica il riconoscimento di tutte le persone, finanche del detenuto.Ho l’impressione che il carcere italiano sia un involucro premeditatamente chiuso alle idee, ai cambiamenti, a tutt’oggi non lo si riesce a piegare a nessuna utilità sociale, anzi rimane il maggior riproduttore di sub-cultura: entrano uomini ed escono bambini, pacchi bomba senza fissa dimora.Se non sarà inteso come ripristino di un senso di giustizia e di possibilità a riconquistare la propria dignità, esso sfibrerà gli uomini ristretti rendendoli insensibili alla necessità di ricucire quello strappo dolente causato con il proprio comportamento.La giustizia è maltrattata, è mantenuta a debita distanza in un perimetro sempre più out rispetto a quei percorsi veramente condivisi, quasi che il carcere fosse diventato un luogo defenestrato da cittadinanza e quindi negato a essere parte attiva di qualcosa.Forse sul carcere si gioca una partita sporca, una specie di esperimento per verificare la capacità di sopportazione di un pezzo di società costretta a sopravvivere, a barcamenarsi in un passato che non intende farsi da parte, un presente mascherato da passato impenitente, un futuro assassinato da un passato che non ha insegnato niente.Un futuro affidato alla nostra incapacità di rivedere i nostri vissuti, a rispettare lo spirito costituzionale degli sguardi nuovi e ulteriori auspicati, nella volontà negata di una alternativa, non avendo un’alternativa, non ricercando un’alternativa alla pena, allora rimane l’incapacità a immaginare una vita nuova e diversa, più consona al vivere civile, tentativo consapevole di cambiare le sorti proprie e altrui.

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