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Eccomi di nuovo seduto qui davanti al mare. Percorro tutti i giorni questo molo come se aspettassi il giungere di una strana forza che possa condurmi dove io non oso andare… Mi siedo su questa panchina fredda e resto immobile a fissare il faro che indica la via a chi parte, ritorna, ma non sosta mai. Scorgo all’orizzonte una terra non troppo lontana da questa che è, invece, troppo lontana dalla mia. Ho tentato numerose volte di comandare alle mie gambe di alzarsi e salire sul traghetto che ogni venti minuti attracca colmo di persone sorridenti, pensierose, che s’affrettano a giungere o attendono frementi l’ora di ritornare a casa da un paio di occhi, da un paio di braccia.

Ormai tutti mi conoscono. Mi guardano con compassione e pietà. All’inizio venivo deriso per il mio stravagante atteggiamento, ma i miei occhi con dentro la voglia di andare per mare li hanno convinti che sono solo un uomo triste giunto alla fine di un viaggio e che, ormai, sa bene che morirà proprio in questo paesino sperduto, con l’odore delle cipolle e della salsedine a coltivare nel mio orto qualcosa riuscito meglio della mia vita. Com’è diversa quella mia città più volte abbandonata… Fredda e nebbiosa in cui speravo di non essere riconosciuto e a cui un senso di non appartenenza mi ha legato per sempre a lei. E allo stesso modo al padre mio a cui, a quanto pare, sono indissolubilmente unito, pur non cercandolo nella tomba, bensì nel tempo in cui era per me mito e poesia. E poi corsi lontano dalle scene e dai riflettori. Ad oggi mi scopro a pensare, al pari di Flaiano, che la parola successo non è che un participio passato…

Sono fuggito senza neanche sapere dove andare. Ho percorso questa terra distrutta fino a quando il mare s’è posto dinanzi alla mia strada sbarrandomi il cammino. Così, solo per questo futile motivo, decisi di restare dove il destino mi aveva condotto. Osservo le gonne mosse dal vento caldo del sud e le teste rivolte verso l’orizzonte che attendono frementi. I capelli di una giovane svolazzano e le coprono il viso e lei con la mano li sposta dolcemente, forse, pensando al suo innamorato che rivedrà tra molto tempo e ancora sente il suo profumo e sembra che le sue braccia la stringano e le mani l’accarezzano. Malinconica si lascia avvolgere dalla brezza marina ed io sono incapace di sorriderle. Abbracci e baci e feste attendono altri e lacrime e saluti altri ancora. Resto qui e li scruto come per leggere su ogni volto, attraverso ogni movimento del corpo, le loro storie. Ormai non penso più alla mia da molto tempo, in quanto tutto s’è compiuto.

La stessa giovane si è soffermata a guardarmi e da come parla con l’addetto ai biglietti pare stia chiedendo di me. Non capisco perché le persone sole sono sempre degne di una tale attenzione e destino una tale curiosità. Vorrei scegliere un luogo isolato, più consono al fluire dei miei pensieri e al mio stato, ma è qui che ogni giorno si gioca la mia personale sfida col mare. Sarei di certo al sicuro da sguardi indiscreti e non disturberei la quiete delle persone che sono solite allarmarsi o impietosirsi guardando persone come me. Provoco un dolore che non gli appartiene, ma che è solo il mio. Eppure tale è l’uomo, troppo sensibile o, al contrario, troppo impaurito dallo spettro di un medesimo destino.

Assorto nei miei pensieri non mi sono reso conto che un giovane ragazzo si è seduto accanto a me. Non più giovane come un ragazzo, ma neanche così adulto da ritenersi un uomo. Non mi sembra affatto turbato dalla mia presenza. Lo osservo con la coda dell’occhio così da non fargli percepire che, invece, io lo sono. Raramente le persone vengono a sedersi accanto a me con tale spontaneità, silenziosamente, e con tale cura da non disturbare i pensieri da cui sono afflitto. Guarda fisso l’orizzonte anche lui; sembra incantato e rapito dal paesaggio senza essere in attesa di nulla se non dello spettacolo che fra breve gli s’aprirà davanti. Ha un accenno di sorriso, ma credo sia un’espressione che il volto ha naturalmente fatta sua negli anni. Seduto comodamente, ma non abbandonato, accende una sigaretta con disinvoltura sfila la sciarpa. Mi dà appena un’occhiata e capisco che ha ben compreso che mi sono soffermato a guardarlo da subito. Il suo viso è davvero giovane anche se coperto da una fitta barba ancora tanto morbida da poterla accarezzare mentre si trova assorto nei suoi pensieri. Alla sua età non amavo farmi crescere la barba, se non quando avevo necessità di dimenticare qualcosa. Il mio volto m’appariva diverso e mi convincevo che ormai di tempo ne era trascorso dall’ultimo sguardo di tristezza che si rifletteva sul mio specchio, senza barba.

Continua a fumare consapevole che sto già immaginando la sua storia e lui la mia. Sono certo che i suoi pensieri sono confusi ed è qui seduto per dar pace alla sua mente, placare la tempesta che lo inquieta attraverso il lento allontanarsi dei traghetti e l’orizzonte è così vicino da non spaventare.

– Posso offrirle una sigaretta?

– No, grazie… Sto cercando di smettere…

Non disse una parola. Si limitò a sorridere e a rivolgere di nuovo il suo sguardo verso il mare.

– Aspetta qualcuno? – dissi.

– No, in realtà non aspetto nessuno.

– E… Nel suo immaginare, invece, aspetta qualcuno?

Sorrise di nuovo come se non aspettasse altro che questa mia stravagante domanda. Prese un’altra sigaretta e l’accese con più lentezza della prima. Abbassando la testa rispose:

– Nel mio immaginare da sempre io cerco qualcosa che non ha forma, né tanto meno una precisa definizione. Cercando e ricercando, però, ho esteso i limiti del mio pensare a tal punto che un giorno, sa, mi sono perduto. Forse è possibile che dall’altra parte della sponda ci sia un non più giovane ragazzo simile in tutto a me, che ha già attraversato il mare e, magari, ora mi sta guardando indugiare, trattenuto. Ma se mi concentro bene riesco a vederlo e non mi pare che sia arrabbiato, ma solo in attesa che io riesca a fare il passo che già sa compirò a breve.

– Vorrei poter scorgere anch’io qualcuno che possa guardare me con le stesse intenzioni, con la stessa speranza, ma ahimè ho compreso da tempo che oltre questo me non esiste nessun’altro.

– M’appresto a compiere un passo, signore, che è lungo una vita. Sono certo che lei può capirmi. La paura è stata mia assidua frequentatrice. Insinuando dubbi e interrogativi senza apparente risposta affliggeva le mie notti e il giorno era, se possibile, ancora più gravoso costretto com’ero ad un’immobilità opposta al mio vero sentire, vittima di voci contrastanti che logoravano le mie membra. Essere o Apparire, quando la scelta dell’apparire si rivelava ai miei occhi tutela dal mondo in cui da sempre mi sono sentito gettato come dai più crudeli dei paradisi.

Tacque dopo aver riferito con tanta chiarezza un così amaro pensiero. Pensai immediatamente che l’avrebbe atteso un cammino tortuoso, afflitto com’era da interrogativi che gli avevano già strappato dalle mani gli anni migliori. Così com’io percepivo, spesso invidioso, una tale spensieratezza nei cuori dei miei coetanei; nel mio, al contrario, dimorava rabbia e timore e mi colpevolizzavo d’essere troppo greve nei miei ragionamenti, troppo leggero in altri e la via di mezzo non m’appariva che un vigliacco compromesso con la vita. Ogni scelta poteva essere quella sbagliata, ogni tentativo di vita si rivelava fallimentare ai miei occhi così esigenti, troppo esigenti per essere solo un uomo.

– Posso chiederle cosa l’ha portata qui, in riva al mare…

– Sia concessa ad ognuno la sua quiete e che la si cerchi dove si pensa abbia dimora. Pertanto, caro ragazzo, qualche tempo fa decisi d’incamminarmi e di andare verso il paese dove alzando una mano si colgono gli aranci che traboccano dai giardini. Così era mio padre. Camminava nell’alba pei sentieri del mio paese e alzava la mano verso i rami che sorpassavano i muri e coglieva aranci con un gesto che aveva della magnificenza ai miei occhi di fanciullo. Ora io non ho paese, né luogo al mondo, ho solo i racconti dettati dalla memoria. Solo questa è la terra alla quale, in qualche modo, posso appartenere.

– L’isola degli aranci, però, sta dall’altra parte celeste e gialla e un poco verde nella sua breve lontananza. Vede nel mezzo c’è un piccolo tratto di mare…proprio piccolo…

Il tono della sua voce si fece più malinconico. Ma continuava a guardare l’orizzonte appoggiando le dita congiunte alla bocca. Le premeva su di essa lentamente come se stesse riflettendo a qualcuna delle mie parole. Poi riprese:

– Certo può immaginare con quanto ardore io mi domando dove abbia dimora la mia quiete e per un attimo ho goduto della sua e con una mano ho sfiorato la pelle rugosa e liscia del frutto all’ombra di un arancio. Dopo tanto narrare lei è, dunque, giunto alla sua. Io non vorrei giungervi, però, dopo tanto correre. Vivrei nel timore che qualcosa continui ad inseguirmi e, di certo, non potrei ritrarmi alle sue richieste. Vorrei che niente e nessuno mi trattenesse in una condizione che mi porterebbe al soffocamento. In numerosi modi io cerco e ho cercato la mia quiete. Essa ha avuto molte sembianze, ma rarissime volte la mia. So di certo che quando apparirò sufficiente ai miei occhi potrò godere appieno di ciò che non riuscivo a vedere nella sua interezza. Confini e barriere s’innalzavano al mio proseguire appena convinto di stare godendo di un qualche momento di felicità. Ho abbandonato la nostalgia e ho sfidato ciò che m’attendeva minaccioso. Del resto non tutti coloro che desideravano la terra promessa poterono giungervi, non tutti furono degni della sua stabile perfezione…

– E così io, – risposi. – Verso sera cerco un posto da dove si possa vedere la Sicilia, di notte l’altra costa è una lunghissima distesa di lampadine con segnali rossi e bianchi che si spengono e si riaccendono e penso, in conclusione, che questo potrebbe andar bene come luogo della mia vita e anche della mia morte se per caso non potessi andare di là. Porto davanti alla Sicilia la valigia e la macchina da scrivere e una busta con dentro le fotografie del padre morto ed, un giorno, se ne avrò il coraggio aprirò la busta e vedrò a qual buon punto sia giunta la rassomiglianza fisica, poiché quella spirituale o identificazione, cos’essa sia, è pressoché compiuta.

Come se leggesse sul libro delle mie memorie, senza neanche una breve esitazione, aggiunse:

– Spesso ho creduto che la soluzione si trovasse in quella via che s’allontana dal mondo e dagli uomini e dal male che è in loro potere farci. Lontano, da solo a vedermi spettatore della fine del mio conflitto, o unico pagante d’uno spettacolo eterno, per poi giungere in un mondo di cui sono certo non potrei più sopportare le contraddizioni che, a mala pena adesso, riesco a tenere a bada giocandoci e danzandoci attorno, costantemente guardingo affinché esse mi governino a mio piacimento. M’illudo, forse, d’ avere questo potere. In verità mi trovo a scegliere un tipo d’esistenza che ho troppo timore m’appartenga e calzi a pennello la mia figura. Intendiamoci non che io rinneghi questo tempo, poiché non è l’epoca che disdegno, ma il fatto di non avere più tempo a disposizione così da cercare in ogni direzione e sperimentare i piaceri e i dolori che sono capaci di colpire l’uomo e percepirne appieno ogni sfumatura. Studiare a fondo ogni fibra del mio essere cosicché non si lagni di notte d’averlo lasciato a bocca asciutta.

– Questo conflitto l’ho riconosco, mi è familiare come queste due mani. Me ne sbarazzai molto tardi, purtroppo, a discapito della parte in cui risiedono gli istinti e immagino che il mio Io si sia in un certo qual modo arreso al triste destino che gli ho inflitto ordinandogli più e più volte d’identificarsi con quella parte che, mio malgrado, m’appariva la più giusta. Posso solo dirle che ho trascorso tutta la mia vita a cercare di lavarmela di dosso, senza comprendere che ubbidivo a degli ordini che non erano i miei e che, nonostante questo sacrificio, non mi sono piaciuto, né tanto meno sono piaciuto al prossimo. È doloroso pensare d’aver perduto, preda di quest’agonia, i dieci anni più fecondi della mia vita. Sono, quindi, ancora malato e credo che non guarirò mai e, a pensarci bene, questi anni mi hanno insegnato a sentire e a riflettere come forse non sarei mai riuscito a fare se fossi stato sempre in buona salute. Lei appartiene, però, ad un’epoca che fa bene a non disdegnare. Ciò vuol dire che ne riesce ad intravedere le sue possibilità in modo da non essere né padrone, né schiavo. Un bel lavoro, questo è certo!”

Certo l’ultima causa dell’essere non è la felicità; perocché niuna cosa è felice.”

Dopo queste parole di leopardiana memoria si alzò e stette un poco in piedi. Era giunta appena la sera e distinguevo i contorni di questo ragazzo che s’era già troppo inoltrato nella vita. Lo guardai cercando di sperare ardentemente per lui un destino più clemente del mio, mentre lo vedevo riavvolgersi la sciarpa si voltò e scoprì che il suo viso aveva dipinta una disperazione dimessa che, come dicono i poeti, ha sempre in bocca un sorriso…

– Ora, a malincuore, devo lasciarla, poiché questa panchina e questo luogo mi allettano più di ciò che m’attende e fin troppo ho indugiato. Non bruci il suo capolavoro.

Mi raggiunse e mi strinse la mano. Gli rivolsi un sorriso sorpreso e lo vidi andare, senza fretta, verso il traghetto. Cercai di seguirlo con lo sguardo, lo persi per qualche minuto, ma poi rividi l’ombra della sua sciarpa e lui rivolto verso quell’orizzonte vicino, sempre più vicino.

Lo guardai andare col cuore stretto e col favore della sera accesi un fuoco e presi i tre capitoli del mio “capolavoro”. Li bruciai, nonostante quelle premurose parole, poiché capii che ormai era tempo di far spazio ad altre storie, ad un altro tipo di narrare. Bruciai anche le fotografie del padre morto senza guardarle, si capisce, e anzi voltando la testa quando vidi la busta accartocciarsi piegata dal calore, e intanto sulla costa della Sicilia s’era accesa la luce bianca di Punta Faro e si vedevano quelle più basse del porto.

“A breve per me verrà il tempo di dire Nunc dimittis servum tuum Domine o, forse, è già tempo. Prima, però, potrei provare a portare i due bidoni pieni d’acqua come faceva mio padre… Può darsi che ce la faccia senza versare l’acqua, né cadere”.

Non dovete pensare che io non compatisca all’infelicità umana. Ma non potendovi riparare con nessuna forza, nessuna arte, nessuna industria, nessun patto; stimo assai più degno dell’uomo, e di una disperazione magnanima, il ridere dei mali comuni; che il mettermene a sospirare, lagrimare e stridere insieme cogli altri […]. […] io desidero quanto voi, e quanto qualunque altro, il bene della mia specie in universale; ma non lo spero in nessun modo.

(Dialogo di Timandro e di Eleandro)

S.G.

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