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Odio Stirare. Meglio “pensare”.


Racconti, riflessioni ed emozioni

Odio stirare.

Perché costringere, in un tale gesto, i miei muscoli silenti?

Sarà calda, certo, ma il celeste-disney, dalle spregevoli sfumature viola-neon-effettolucedaufficio, non mi attrae per niente.

Però Vale è già arrivata e poi.. l’acqua è calda.

Entro.

Consapevole dei sessanta minuti di lotta che mi attendono.

Lotta per conquistare e difendere lo spazio dei miei pensieri.

Lotta che tutti, all’incirca, si apprestano a combattere in un campo di battaglia dalla pulizia antistoica, esteso trecentododici metri quadrati, profondo quanto basta a sprofondare se si fosse di pietra, denso poco più di mille chilogrammi su metro cubo e, al tatto, gradevolmente temperato.

Prima bracciata.

Penso a te la durata di un picosecondo. Quindi non penso propriamente a te perché il pensiero ha una ragionevole estensione in durata. Piuttosto capto, di te, un sentire impreciso, sfumato ma essente, spoglio di inutili, datate croste emotive. E continuerò a volerti bene, in silenzio. Consapevole di un altrove senza ritorno, che è la tua vita.

Il primo compleanno del nostro niente interrotto, poi trucidato da lame di ghiaccio, giungerà tra non molto a ricordarmi un volto che, puntualmente, seppellirò fra i solchi della mia corteccia provata.

Valuto, incosciente, la piezometria dei miei pensieri liquidi e deduco che non posso lasciarli andare perchè Archimede ha deciso che galleggerebbero.

Non posso effondere pericolose riflessioni in superficie. Si estenderebbero incautamente, rendendo torbida l’acqua.

Così le ricaccio giù, osservandone, sul fondo, l’ombra rifratta.

Sesta bracciata.

Nonna, non mollarmi proprio ora che ho imparato a pulire, con cura meticolosa e illimitata affezione, il tuo grosso sederone sporco.

Proprio adesso che, nel farlo, guardo e contemplo, assuefatta, i tuoi sorrisi opacizzati da una malattia che ha troppa fretta di vivere.

In quei momenti chissà chi, fra te e me, è più comoda nel suo stare. Più ad agio nella propria sfumata esistenza.

Ogni tanto disegno i tuoi limiti sulla mia agenda per ricordarmi di non odiarti.

Trentunesima bracciata.

Quanti drammi fanno il bagno, oggi?

Quante le gioie?

Smuovo l’acqua e osservo il braccio farsi strada, lentamente, fra bollicine infinite che, incuranti, s’infrangono contro inutili lenti appannate.

Con una vista testardamente anemica, seguo sott’acqua l’andamento delle strisce celesti plastificate che, alternate a larghe bande bianche ad esse contigue, rivestono il pavimento, permettendo, a chi vi fluttua sopra, di non perdere l’orientamento direzionale.

Strisce celesti, in un’acqua non certo bordò.

Cinquantanovesima.

Penso a te, papà, quando, riferendoti alla velocità con cui il tempo passa, amaramente quasi sussurri, fra te e me, che la vita è una “fumata di sigaretta”.

Ma io non fumo, papà.

Impedisco, così, che la cosa mi riguardi.

Immergendo completamente la testa in acqua, ti accorgeresti, invece, di come tutto, qui, sia beatamente in ritardo. In questo posto la vita amplia e immobilizza la sua corsa e, per un istante soltanto, puoi addirittura superarla, sublimandoti in un’estatica sensazione di dominio.

Sott’acqua, sai, fumare è impossibile e gli orologi, quelli veri, non funzionano.

Ogni volta, fra radio, scafoide e semilunare, il mio polso destro si regala, puntuale, un fendente trasversale al metamerico cordone in plastica dura che si ripete, uguale e aguzzino, a delineare ingannevolmente corsie inesistenti, seriamente impegnate a settorizzare un elemento indivisibile come l’acqua.

Disattenta gestione visiva dello spazio, la mia?

Sarà per questo che, a volte, dondolo mentre cammino.

E tu, maledetto intruso, va via dalla mia corsia. Che vuoi? Non vedi che la tua mole arrogante inquina il mio territorio?

Hai la faccia di uno che piscerebbe in acqua senza scrupoli.

Non ardono le tue carni, orrendamente dilaniate da rabbiose, isteriche cariche elettriche?

Non io in continuità con esse?

Rubi il mio tempo.

Sono qui, forse, per contemplare la tua idiozia?

Non ostentare vuote, impensate movenze. L’inesattezza con cui indossi un insipido sorriso senza importanza grida che sei un empio dilettante: lasceresti a briglia sciolta le tue sciocche idee. Raccoglile e vattene.

Vite contuse precipitano verso l’alto.

Nei polmoni, piombo fuso. Leggero come una rotta sbagliata.

Sai, Jasper, un giorno anch’io proverò a “scrivere un ritratto”.

Forse, un giorno, lo farò.

Ma è difficile trovare qualcuno che non sia troppo, né troppo poco.

Qualcuno che sia “esatto”.

Quale pacata giustezza si denuderebbe al cospetto di un’atavica, seppur corretta, puntuale follia, educata negli anni a non straripare dai margini?

Un’altra bracciata.

Mi accorgo, però, che ho smesso di contarle. Solitamente, invece, computare le cose è una nenia che viaggia parallela al pensiero. Due binari circolari, questi, accomunati da una reciproca, vitale propedeuticità. Simbionti intrecciati in un efficientistico meccanismo a feedback positivo.

Ma il flusso si è spaccato. Qualcosa precede e ostacola il mio sentire.

Qualcosa lo acceca.

Ah, ecco.

Shhh, silenzio. E’ qui.

Bussa, sadico, il dolore.

Mi convinco sia solo la proiezione mentale di un angoscioso anteposto alla realtà. Dev’essere così.

Non lo è.

Una fitta indecente conferma generosamente l’erroneo equivoco, così che la prossima volta io non sbagli. Un’altra, più intensa, spazza via l’ombra impercettibile di un dubbio residuo, carico di speranza.

Sono io la tua interlocutrice. Io la tua nemica.. protervo, triviale farabutto. Non la sede in cui, divertito, ti annidi.

Parla con me, non con un osso malridotto, una cartilagine lesa o un gruppo di tendini stanchi.

Loro possono subirti, soltanto io sfidarti.

Ancora una bracciata, poi un’altra.

Il picosecondo esiziale è tornato.

Forse scriverò il tuo ritratto, un giorno.. perché, fra le pieghe di una memoria destinata a finire con l’uomo, non dimentichi mai il tuo nome, né i miei gesti sul tuo viso.

Perché molte persone credono che un trauma sia una cosa negativa?

Anch’io, un tempo, lo sostenevo.

In realtà si tratta di un’interruzione da cui, poi, origina qualcosa di nuovo, di inaspettato. Nasce un cambiamento, che è in rima con la vita che continua.

Tu hai rotto la mia in vari punti. E, di questo, ti ringrazio.

Ora che non ho più niente, forse, troverò ciò di cui ho bisogno.

Ora che ho perso tutto dovrò, necessariamente, cercare qualcosa.

E, tuttavia, ti salverai perché lo desidero pazzamente.

Tu, ti salverai.

Io lo so.

Galleggio, sospesa e immobile.

Lo sguardo fisso fra le travi del tetto in legno.

Penso che, se una di queste dovesse staccarsi e minacciare di cadere in vasca, il tipo indigesto avrebbe, finalmente, un serio motivo per pisciarsi addosso.

In quel caso nessuno obietterebbe alcunché.

Un giorno, nonna, andremo a San Cristòbal de la Habana. Mangeremo la pulainta antartiflà e una fetta di torta d’pumes. Berremo il primo, originale mix di menta e alcol, battezzato dai pirati dei Caraibi e fumeremo il nostro vergine sigaro cubano in riva alla Playa Tropicoco.

Ma lo terrò per me, perché “a dirle, le cose belle non succedono“.

Vale è andata via mezz’ora fa. Senza di lei questo posto non ha senso.

L’asprezza della lotta è mitigata dalla sua presenza complice.

Lei milita nel mio esercito. E, spesso, dubito sia io a comandarlo.

In mezzo a tutti gli altri fluttuano, potenti, i suoi pensieri.

La fretta elettrizza di bellezza il suo sorriso.

Le ore la scuotono di passione.

La mente le conferisce un passo marcato.

Siamo da sempre “vicine di quartiere” e non lo sappiamo, Vale e io.

Ogni istante, sul suo viso, trova una giusta collocazione.

Una perfezione incoerente, la sua, che combacia con le vite accanto.

Esco e medito che fa terribilmente freddo.

Poi, assorta, contemplo la tasca, appena un po’scucita, dell’accappatoio.

Perché accorgermene proprio adesso?

Chissà da quanto tempo è.. che giace “col capo chino”..

Una volta a casa, la rammenderò.

Sempre meglio che stirare.