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La Malattia di Alzheimer.


Viene fuori da un invito. In realtà ci sono dentro da tempo ormai, è il mio pane quotidiano. E anche se attivamente nel futuro poca sarà la mia partecipazione, seguirò per sempre con interesse. E poi… non si sa mai.

La malattia di Alzheimer (MA). Tanto temuta, una delle cose più gravi che può succedere nella vita di un uomo: si dimentica. Poco a poco si perde il passato, il bagaglio delle proprie esperienze, il ricordo ma non l’emozione ad essa legata e con essi la paura.

Perché si dimentica?

Aggiorno velocemente la letteratura e sintetizzata in una bellissima review (C. Reitz, C. Brayne & R. Mayeux. Epidemiology of Alzheimer disease. Nature Reviews Neurology 7, 137-152 March 2011) tutti i meccanismi biologici, i criteri diagnostici, i fattori di rischio e protettivi, quelli genetici, i markers di accertamento della malattia. La assorbo velocemente, complimenti agli autori.

La demenza è caratterizzata da un deterioramento delle funzioni cognitive e di comportamento. Una delle più frequenti cause di demenza è rappresentata dall’Alzheimer. I cambiamenti patologici chiave osservati nel tessuto cerebrale di questi pazienti sono rappresentati da un incremento nei livelli di peptide β-amiloide (Aβ) che si deposita nello spazio extracellulare e un aumento della forma iperfosforilata della proteina tau (p-tau), una proteina di assemblaggio dei microtubuli che si accumula all’interno delle cellule, come tangles neuro fibrillari (NFTs). Inoltre, si osserva una diffusa perdita di neuroni e sinapsi.

I meccanismi che conducono a questo quadro patologico non sono del tutto chiari, ma, quando presenti, queste caratteristiche neuropatologiche conferiscono una diagnosi definita di MA, insieme ai criteri diagnostici correnti. I criteri diagnostici associano i pattern clinici alla neuropatologia: ai cambiamenti patologici, come le modificazioni cerebrovascolari, alle caratteristiche patologiche, come le placche amiloidi e i tangles neuro fibrillari.

Studi osservazionali e sperimentali hanno portato all’identificazione di fattori di rischio e fattori protettivi associati alla demenza e alla MA. Molti fattori di rischio vascolari per l’ischemia cardiaca e/o lo stroke sono anche fattori di rischio per la demenza: il diabete, l’ipertensione, il fumo di sigaretta e l’obesità incrementano il rischio di demenza. Però, mentre i fattori di rischio vascolari e le malattie cerebrovascolari conducono chiaramente alla demenza vascolare, un ruolo eziologico per i cambiamenti vascolari dei depositi di Aβ, e, quindi, di MA rimane poco chiaro.


Fattori di rischio

  • Malattie cerebrovascolari. Vari sono i meccanismi proposti mediante cui lo stroke può condurre a danneggiamento cognitivo e MA. Primo fra tutti il danneggiamento può direttamente interessare quelle regioni del cervello importanti nella funzione della memoria, come il talamo e le proiezioni talamo corticali. Secondo, lo stroke può incrementare i depositi di Aβ che conducono a declino cognitivo. Infine, l’insorgenza dello stroke puς indurre una risposta infiammatoria che danneggia le funzioni cognitive. Inoltre, l’ipoperfusione può portare ad una overespressione di una chinasi (CDK5) che svolge un ruolo critico nella formazione delle sinapsi e nella plasticità, e quindi nell’apprendimento e nella memoria. È stato dimostrato che aberrante attivazione di CDK5 è associata con la morte neuronale e l’apoptosi e inoltre può contribuire alla formazione dei NFTs.
  • Pressione sanguigna. L’ipertensione incrementa il rischio danneggiando l’integrità vascolare della barriera ematoencefalica, che si traduce in un travaso proteico nel tessuto cerebrale. Questo travaso provoca un danneggiamento cellulare, una riduzione della funzione sinaptica o neuronale, apoptosi ed un incremento di Aβ, che conduce a declino cognitivo. Con l’aumentare dell’etΰ gli effetti dell’ipertensione sul rischio di MA non solo diminuiscono, ma addirittura si invertono a mostrare un effetto protettivo. Questa osservazione può essere spiegata dal fatto che in seguito all’insorgenza della malattia la pressione sanguigna inizia a decrementare probabilmente come risultato della perdita di peso e cambiamenti nella regolazione della pressione del sangue.
  • Diabete tipo 2. Da alcuni studi è emerso che il diabete di tipo 2 raddoppia il rischio di sviluppare la MA. Nell’iperinsulinemia che accompagna il diabete, l’insulina può competere con l’Aβ per l’enzima degradante l’insulina (IDE), ostacolando la clearance dell’Aβ dal cervello. Inoltre da uno studio istopatologico di tessuto ippocampale di pazienti con MA e di soggetti di controllo, θ stata mostrata nel cervello dei pazienti una riduzione relativa nell’espressione di IDE e nei suoi livelli di RNA messaggero.
  • Peso corporeo. Entrambi il basso e l’alto peso corporeo sembrano essere fattori di rischio per la demenza, dipendente però dall’età. In ogni caso l’obesità aumenta il rischio di sviluppare la malattia del 59%.
  • Livelli di lipidi plasmatici. La proteina precursore dell’amiloide (APP) è sottoposta all’azione enzimatica delle secretasi, attraverso due vie, quella nonamiloidogenica e quella amiloidogenica. Nella seconda via l’APP è proteoliticamente tagliata dalle β-secretasi e successivamente dalle γ-secretasi a generare l’Aβ, le cui isoforme piω comuni comprendono gli aminoacidi 40(Aβ1-40) e 42 (Aβ1-42), quest’ultimo la forma più fibrogenica. La deplezione del colesterolo di membrana inibisce il taglio dell’APP da parte delle secretasi, abbassando i livelli di Aβ1-40 e Aβ1-42.
  • Fumo di sigaretta. La relazione tra fumo di sigaretta e declino cognitivo non è del tutto chiara: alcuni studi caso-controllo suggeriscono che nei fumatori basso è il rischio di MA, mentre altri dimostrano il contrario, cioè un incremento del rischio oppure nessun effetto. I meccanismi mediante cui il fumo agisce sul rischio di sviluppare la malattia sono vari: la generazione di radicali liberi che conduce allo stress ossidativo, oppure l’influenza sul sistema immunitario infiammatorio che porta all’attivazione dei fagociti e al successivo danneggiamento ossidativo, oppure la promozione delle malattie cerebrovascolari. L’effetto protettivo invece potrebbe spiegarsi in quanto la nicotina induce un incremento nel livello dei recettori nicotinici dell’acetilcolina, in tal modo controbilanciando la perdita di questi recettori con conseguente deficit colinergico, che si osserva nella MA.
  • Sintomi depressivi. Si manifestano nel 40-50% dei pazienti con MA. Anche in questo caso come per il fumo di sigaretta gli studi sono contrastanti: alcuni trovano un incremento di rischio di malattia in pazienti con una storia di depressione mentre altri non trovano alcuna associazione. Il potenziale meccanismo che unisce queste due condizioni potrebbe coinvolgere le vie vascolari e gli effetti di depressione sull’ippocampo o sull’asse-ipotalamico-pituitario-adrenalinico.
  • Stress psicologico. Studi sperimentali condotti sui topi dimostrano che l’esposizione allo stress cronico psicologico può alterare la morfologia del cervello, come la struttura ippocampale, e produrre un effetto deleterio sulle funzioni del cervello stesso, incluse la memoria, incrementare quindi il rischio di MA.
  • Lesioni traumatiche del cervello. Studi retrospettivi suggeriscono che individui con lesioni traumatiche cerebrali hanno un più alto rischio di demenza. A prova di ciò l’evidenza che dopo il trauma si ha un incremento di patologia Aβ e tau, elevati sono i livelli di Aβ nel fluido cerebrospinale e l’APP viene prodotta in grande quantitΰ.

Fattori protettivi

  • Alimentazione. Diete in cui predominano frutta, verdura e pesce sono ricche di antiossidanti e acidi grassi polinsaturi. In alcuni studi su popolazioni viene riportato che un’elevata assunzione di vitamine E e C, entrambe antiossidanti, è associata ad un basso declino cognitivo e conseguentemente ad un minore rischio di sviluppare MA rispetto agli individui dove poca è l’introduzione di queste vitamine. D’altro canto altri studi prospettivi non trovano associazione tra MA e gli effetti di queste vitamine. I meccanismi attraverso cui un tale regime alimentare protegge dal declino cognitivo vengono fuori da studi in vitro che indicano che la vitamina E riduce la perossidazione lipidica dell’Aβ e la morte cellulare; la vitamina C, d’altro canto, riduce la formazione delle nitrosoamine e puς influenzare la sintesi delle catecolamine. Altri lavori indicano che gli antiossidanti riducono il rischio di sviluppare la malattia attraverso la riduzione del rischio delle malattie cerebrovascolari.

  • Attività fisica. Molti dati sperimentali ed epidemiologici esaminano la relazione esistente fra l’esercizio fisico e il declino cognitivo. I risultati sono conflittuali: mentre alcuni indicano benefici effetti per la salute del cervello, altri non mostrano alcuna associazione fra queste variabili. Certo è che un miglioramento dell’attività aerobica potrebbe incrementare la circolazione cerebrale, l’estrazione dell’ossigeno e l’utilizzazione del glucosio e attivare i fattori di crescita che promuovono i cambiamenti strutturali cerebrali. Inoltre studi in vivo sui topi dimostrano che l’attività fisica diminuisce la formazione delle placche amiloidi.
  • Attività mentale. La stimolazione delle attività cognitive, come l’apprendimento, la lettura possono migliorare la memoria, il ragionamento, la velocità di processamento mentale. Molti sono comunque gli studi in corso sugli effetti dell’attività intellettuale sul rischio di demenza in entrambe le fasce di età, anziana e giovane.

Una pausa… dagli studi, dalle analisi e meta-analisi, dai dati statistici e dai meccanismi biochimici che sottendono. Non vorrei dimenticare, prima di arrivare alla genetica e quindi a quello che più mi appartiene, il paziente. Forse torna un po’ indietro nel tempo, perde tanto della sua storia, il suo trascorso, ingabbiato e senza più memoria del passato, le gioie, i dolori. La sua vita. Come ci si rapporta con lui? Saranno varie la fasi della malattia e diversi i momenti da dedicargli. Non so fino a che punto si può programmare e organizzare come stargli accanto. Sicuramente valorizzare il suo sentire. Lo so che non è facile, ma questa è la strada.

La MA viene classificata in base all’età di insorgenza: il 95% dei pazienti che la manifesta ha un’età superiore ai 65 anni, la cosiddetta late-onset; 1-5% dei casi mostra una precoce insorgenza, tipicamente alla fine della quarta decade di età o nei primi 50 anni, la early-onset. Le due forme sono clinicamente indistinguibili, la late-onset è generalmente più severa e associata ad una più veloce progressione. Esistono inoltre due distinti pattern di epidemiologia genetica per le due forme.


Early-onset. 3 sono i geni implicati nella patofisiologia di questa forma: il gene APP e quelli della presenilina 1 e 2, PSEN1 e PSNE2, che codificano per proteine coinvolte nella scissione enzimatica dell’APP e nella generazione del Aβ. Mutazioni identificate in questi 3 geni associate alla MA possono essere considerati come biomarkers diagnostici: infatti le mutazioni identificate mostrano una penetranza elevata, una modalitΰ di trasmissione autosomica dominante e conducono con certezza all’aggregazione del Aβ e alla forma early-onset della malattia. Le mutazioni nel gene APP sono responsabili dello 0.1% dei casi di malattia. Molte sono ereditate in maniera autosomica dominante, sono mutazioni missenso e ricadono nella regione codificante del gene, influenzando quindi il prodotto proteico. Oltre a queste sono state descritte due mutazioni ereditate in modalità recessiva e anche delle duplicazioni, sottolineando l’importanza del dosaggio nel gene. Più numerose le mutazioni identificate in PSEN1 e PSNE2, sostituzioni nucleotidiche, ma anche piccole inserzioni e delezioni. Le preseniline sono coinvolte nel taglio proteolitico mediato dalle γ-secretasi dell’APP. La presenza delle mutazioni danneggia l’attivitΰ enzimatica, creando un incremento nel rapporto fra Aβ1-40 e Aβ1-42.


Late-onset. I geni coinvolti in questa forma non vengono ereditati in maniera mendeliana, ma incrementano il rischio di sviluppare la malattia. Il più importante gene di suscettibilità è rappresentato dall’APOE, che codifica per una proteina che trasporta i lipidi; nell’uomo è espressa in una delle tre isoforme, codificate ognuna da tre alleli denominati: APOE Ɛ2, APOE Ɛ3, APOE Ɛ4. I portatori di un singolo allele APOE Ɛ4 hanno un rischio di MA di due o tre volte superiore, mentre la presenza di due copie è associata con un incremento di rischio di malattia di ben cinque volte. Ogni allele APOE Ɛ4 abbassa l’età di insorgenza di 6-7 anni. Nonostante i vari studi di associazione positivi fra allele APOE Ɛ4 e MA, lo stato di portatore di questo allele è condizione necessaria ma non sufficiente per lo sviluppo della malattia. A tal proposito, vari studi familiari di analisi di segregazione supportano l’ipotesi di almeno 4-6 geni di rischio addizionali.

Dopo l’identificazione dell’APOE, sono stati trovati altri geni associati alla MA (SORL1, TOMM40, CLU, PICALM, CR1), soprattutto attraverso studi di genome-wide, ma le associazioni genetiche rimangono poco chiare e necessitano di ulteriori conferme e di studi anche funzionali.

In Italia e ovunque nel mondo, data l’incidenza della patologia, sono tantissimi i lavori scientifici condotti per meglio comprendere i meccanismi biochimici legati ad essa, le proteine coinvolte, etc., il tutto finalizzato ad una migliore conoscenza della patofisiologia, quindi della malattia per offrire un sostegno migliore e adeguato. Adeguato… già, perché molto spesso l’interazione col paziente diventa difficile, i familiari si ritrovano soli a dover fronteggiare delle situazioni cui spesso risultano impreparati. Innumerevoli i problemi che vengono posti quotidianamente a chi assiste e, talvolta, pur avendo la possibilità di stare accanto, si finisce per dover ricorrere alle varie strutture, sanitarie, residenziali, i luoghi di riposo. Perché si resta soli.

La bugia terapeutica. Mi gira in testa da qualche settimana, ne cerco il significato per capire di cosa stiamo parlando: una menzogna a scopo terapeutico. Detto così potrebbe sembrare un inganno, ma nulla a che vedere con questo, però… Non si potrebbe puntare di più sulla considerazione dell’essere umano come persona che ha perso una grossa parte della sua identità, della sua storia, che giorno dopo giorno avanza portandosi appresso qualcosa in meno? Il coinvolgimento, cercare il giusto canale per attivare il paziente ponendolo al centro della cura, e non considerarlo oggetto della cura, analizzando il suo comportamento al fine di trovare la sintonia. La mano che, tesa, trova l’altra.

Sono solo domande queste che mi pongo, non ho le soluzioni né tantomeno vuole essere una critica a quello che già esiste e che spesso funziona, ma altre no. Ancora una volta la capacità, se così si può chiamare, che si dovrebbe anche affinare è l’empatia, bellissima parola densa di significati, ma riconducibili tutti ad uno. Insieme, partecipando allo stato d’animo, provando a capire, assecondando senza ingannare, sfondare quel muro dietro il quale rimane ancora viva l’emozione pur avendone perso il ricordo. Garantiamo ancora la carezza! La guancia sfiorata dalla mano dell’affetto scuoterà stimolando e regalerà un altro istante che, in quel giorno, avrà deciso di non abbandonare.

 


Ferdinanda Annesi – Biologa C.N.R.