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…che si chiama film.


Approfondimenti

Un po’ di tempo fa parlando con un’amica la quale aveva letto un mio articolo su un film uscito nelle sale, mi sottolineò che era rimasta un po’ perplessa leggendolo perché non si capiva se il film mi fosse piaciuto o meno.

Io ho sorriso a questa osservazione, correttissima a dire il vero, ma nonostante la sua perplessità devo dire che mi sono compiaciuta di quello che stava dicendo perché scrivendo quell’articolo io non intendevo esprimere una mia opinione riguardo l’opera cinematografica e questo almeno per due ordini di fattori.

Il primo perché ritengo che non sia il mio compito, il secondo perché realmente non mi sono mai vista nelle vesti di critico cinematografico, quanto meno non come è comunemente inteso. Niente di personale contro i recensori di film, ma ritengo che esprimere la propria opinione (perché di questo si tratta, anche con le dovute competenze) e sancirla con due, tre, quattro pallini secondo il gradimento e rinchiudere il tutto in una sintesi di giudizio che può andare dal discreto all’ottimo, perdonatemi, ma mi pare alquanto riduttivo, il tutto si riduce, ribadisco, ad un’opinione personale (ed è uno dei motivi per cui attorno ad un film spesso i pareri dei critici sono discordanti).

Anche se il pubblico prima di andare al cinema spesso si affretta a cercare le recensioni e a volte su queste basa la propria scelta. Tutto questo agli amanti del cinema un po’ dispiace, va benissimo scegliere un film secondo i propri gusti o secondo una distinzione di generi, ma sarebbe meglio entrare in sala e godersi la visione del film senza pregiudizi o preconcetti che inevitabilmente (fosse solo a livello inconsapevole) finiscono per condizionarci.

Solo per questo non esprimo quasi mai il mio giudizio personale quando parlo di un film? No.

In realtà mi piace definirmi osservatrice e studiosa del fenomeno cinematografico.

L’osservatore è un comune spettatore che cerca di andare oltre il semplice giudizio buono-cattivo (fermo restando che se un film è brutto resta brutto ed in quel caso spesso si evita anche di parlarne), l’osservazione serve per capire, per comprendere i meccanismi che a volte più o meno celatamente l’apparato cinematografico svela. Osservare e capire cosa si nasconde dietro un primo piano o un movimento di macchina o la scelta stilistica di un certo tipo di regia, perché ovviamente i punti d’osservazione possono essere diversi.

Ma lo scopo è sempre lo stesso, innanzitutto godere del piacere della visione di un buon film, poi attraverso l’osservazione minuziosa e critica (in senso analitico) imparare a prendere le distanze dall’immagine per meglio comprendere i meccanismi di produzione del senso, ma ben consapevoli che proprio la distanza da cui questa immagine proviene e la distanza, rispetto alla nostra esperienza quotidiana, dell’universo in cui ci mette, che ci affascina e ci seduce. Tutto questo è ciò che Roland Barthes definisce distanza amorosa, indicando con questo termine la relazione tra il piacere di vedere un film unito alla capacità di discernere, distinguere, scegliere.

Per Antonio Costa “saper vedere il cinema” vuol dire proprio questo, saper vedere la complessità del fenomeno che ha come risultato “quel festival delle emozioni che si chiama film” (Barthes)

Ma a questo punto un giudizio personale fatemelo esprimere. A mio parere l’invenzione della macchina cinema è stata l’invenzione più geniale del secolo scorso o giù di lì.

Breve cronistoria: era il 28 dicembre 1895, quando Louis Lumière diede inizio a regolari rappresentazioni presso il Grand Café sul Boulevard des Capucines a Parigi. Con un apparecchio estremamente semplice, azionato da una manovella che egli stesso definì un ” dispositivo che serve per ottenere la visione di spettacoli cinematografici” e che chiamò cinematografo, (che significa “scrittura, impressione del movimento) attirò le folle che si accalcavano all’ingresso del locale per vedere quella che sarebbe stata definita come “la meraviglia del secolo”.

I primi film si limitavano a riprodurre la realtà fenomenica, luoghi e ambienti della vita quotidiana: l’uscita degli operai dalle officine lionesi dei Lumière o l’arrivo di un treno in stazione, ma “ciò che attirò le prime folle non fu un’uscita dalla fabbrica, un treno che entra in stazione (sarebbe stato sufficiente andare alla stazione o alla fabbrica) ma un’immagine del treno, un’immagine dell’uscita dalla fabbrica. Non era per il reale, ma per l’immagine del reale che si faceva ressa alle porte del Salon Indien“. (Edgar Morin)

Lumiére ebbe la geniale intuizione di filmare e proiettare come spettacolo ciò che spettacolo non era: la “realtà quotidiana”. Aveva capito che la curiosità primaria si rivolgeva al rispecchiamento della realtà; aveva sentito e sfruttato il fascino dell’immagine cinematografica.

Dopo i fratelli Lumiére, Georges Méliès fu il primo a dedicarsi con passione e precisione alla “messinscena”, cioè alla confezione dello spettacolo cinematografico secondo principi estetici e tecnici e così il cinematografo diventa “cinema”.

Ma per capire pienamente cosa sia il cinema è necessario innanzi tutto comprendere, almeno a grandi linee, come funziona tecnicamente. Se il cinema è illusione, più esattamente è illusione del movimento. Le immagini che vediamo sullo schermo sembrano muoversi, ma in realtà sono sequenze d’immagini statiche: per la precisione ogni secondo vediamo 24 fotogrammi, cioè 24 fotografie, che, giustapposte, rendono l’illusione del movimento. La macchina da presa non è altro che una macchina fotografica, che riprendendo un’azione, scatta 24 fotografie al secondo, impressionandole su una pellicola fotosensibile, che in inglese si chiama film – termine che noi italiani abbiamo mutato per indicare un’opera cinematografica che, invece, in inglese si chiama movie, dal verbo to move, “muoversi”.

Il movimento introdusse la dimensione del tempo: il film ha uno svolgimento, una durata. Nello stesso tempo le cose in movimento realizzano lo spazio che esse percorrono e attraversano, e soprattutto si realizzano nello spazio… il movimento è la potenza decisiva di realtà; in esso per mezzo di esso tempo e spazio sono reali…il movimento restituisce la corporeità e la vita che la fotografia aveva immobilizzato. Apporta un’irresistibile sensazione di realtà“. (Edgar Morin)

E’ inconfutabile che il cinema abbia da sempre, fin dal suo esordio alimentato la fantasia e aiutato a sognare e a sperare. Ma secondo quali meccanismi avviene tutto ciò?

Perché uno spettatore può sentirsi coinvolto e attuare (molto spesso a livello del proprio mondo inconsapevole) meccanismi quali l’identificazione, la partecipazione, insomma avvertire a livello emozionale un coinvolgimento che tende ad integrare lo spettatore nel flusso del film e il flusso del film nel flusso psichico dello spettatore?

Edgar Morin identifica nel cinema la macchina che integra la verità oggettiva dell’immagine con la partecipazione soggettiva dello spettatore: “Il fenomeno da investigare è esattamente quel fenomeno sorprendente per cui l’illusione di realtà è inseparabile dalla coscienza che essa è realmente un’illusione, senza però che questa coscienza uccida il senso di realtà.

Sempre il filosofo francese sottolinea l’evidente analogia tra cinema e psiche : non è un puro caso che il linguaggio della psicologia e del cinema coincidano spesso nei termini di proiezione, rappresentazione, campo, immagine. Il film si è costruito a somiglianza del nostro psichismo totale.

A questo punto, vale la pena ricordare che per convenzione si usa datare la nascita della psicoanalisi con la prima interpretazione esaustiva di un sogno scritta da Sigmund Freud, l’anno in questione è ancora una volta il 1895 qualche mese prima della proiezione a Parigi dei fratelli Lumière. Quindi cinema e psicoanalisi sono coevi ma la storia dei rapporti tra cinema e psicanalisi è stata sempre segnata da un certo squilibrio. Mentre il cinema fu da subito affascinato dalla psicanalisi, quest’ultima ha quasi sempre mostrato una certa diffidenza nei confronti della neonata forma d’espressione.

Ma quando Morin afferma che il cinema è fatto della stessa sostanza della psiche, su quali basi fonda questo tipo di affermazione? Intanto perché la nostra psiche è fatta di immagini dove le esperienze e gli apprendimenti s’imprimono e a volte si distorcono in quell’affascinante macchina costituita da ricordi che è la nostra memoria e quindi l’immagine è il nostro più antico ed autentico linguaggio: il linguaggio del nostro mondo interno.

In realtà non stiamo dicendo niente di nuovo, il grande osservatore Hugo Münsterberg, psicologo, nel lontano 1916 in alcuni suoi scritti sul cinema spiega bene come quell’immagine in movimento in realtà fosse in grado di riprodurre il funzionamento effettivo della mente in un modo molto più intenso rispetto ad altre forme narrative: il film racconta la storia umana superando le forme della realtà, cioè lo spazio, il tempo e la casualità, adattando quindi gli avvenimenti alle forme della sua realtà, cioè l’attenzione, la memoria, la fantasia e l’emozione.

Quindi stiamo parlando di meccanismi mentali, se Barthes definisce un film festival delle emozioni, è perché il film parla direttamente con il nostro mondo interno sia che noi ne siamo consapevoli o meno, e questo accade perché utilizza gli stessi strumenti che adopera la nostra mente facendo leva sui ricordi della memoria, suscitando delle emozioni che producono idee e alimentando la nostra fantasia e la nostra immaginazione. E se ci riesce così bene è perché comunica con l’immaginario attraverso l’immaginario (che è il racconto filmico). Per citare ancora Edgar Morin l’immaginario è ciò che gioca sulla duplicità e sull’unità insieme e si propone come “il punto di coincidenza di immagine e di immaginazione”.

Lo spettatore di un film è sempre pienamente consapevole di assistere su una poltrona ad uno “spettacolo” cinematografico quindi ad uno spettacolo immaginario, ad una “illusione” di realtà, ma il fenomeno sorprendente (su cui ci si dovrebbe soffermare) è che l’ “illusione” di realtà è sì inseparabile dalla coscienza che essa è realmente un’illusione ma questa coscienza non intacca il senso di realtà.

E’ la stesso meccanismo cinematografico a disporsi come una trappola pronta a catturare chiunque entri nel suo raggio d’azione, l’esibizione di un mondo, che sia fantastico o ancor meglio realistico, fa leva sulla pulsione scopica, ovvero sulla brama con cui dirigiamo il nostro sguardo ma siamo anche diretti, questo perché la riproposta di un “frammento di vita”, che sia archetipico o stereotipato, risponde a dei bisogni profondi.

Ad ogni istante il film pone davanti a sé un punto a cui raccordare le proprie mosse e in cui cercare una replica; in ogni momento spinge le occhiate e le voci che lo popolano oltre i margini della scena – verso chi si presume, o meglio verso chi si pretende, debba raccoglierli – in attesa di un cenno di risposta. Il film insomma si dà a vedere; istituisce la propria destinazione – il proprio destino- come meta da raggiungere e come sponda su cui rimbalzare. (Francesco Casetti)

Ma soffermiamoci sui comportamenti dello spettatore dal momento in cui entra in una sala per assistere ad una visione cinematografica. All’ingresso c’è attesa rilassata, ci si scambia occhiate e quasi sempre c’è un chiacchierare diffuso e costante.

Ma cosa accade quando in sala si spengono le luci e le immagini sullo schermo focalizzano la nostra attenzione? Accade che, soprattutto in alcune particolari scene del film, tutti i canali sensoriali sono polarizzati su quanto avviene sullo schermo con ridotta sensibilità per ogni altro stimolo esterno, la motilità è temporaneamente inibita, ogni attività ideativa è temporaneamente bloccata, l’attivazione della parola è soppressa. Quello che si verifica è una più o meno intensa attività emozionale, in funzione di ciò che viene più o meno raccontato sullo schermo. Durante la proiezione filmica si accede ad una terza condizione “fisiologica” di stato di coscienza (non è veglia non è sogno) che viene definita “veglia sognante” per via delle analogie con il sonno sognante che viviamo durante la notte. Il cinema è un potentissimo mezzo per indurre un’alterazione temporanea dello stato di coscienza che ha strane analogie con le fasi REM di sonno sognante: la polarizzazione dell’attenzione su di un tema dominante (la storia), la scarsa possibilità di interferenza da parte di stimoli esterni, l’identificazione carica di emozioni con il personaggio e la passività sembrano essere le caratteristiche soggettive dell’esperienza cinematografica che accomunano questi stati di coscienza.

Adesso vediamo qual è lo scenario alla fine della proiezione e all’uscita dalla sala. Se il film è stato abbastanza coinvolgente a livello emotivo, tutti appaiono pensosi a volte un po’ sbalorditi, alcuni tendono a rimanere seduti nella poltroncina della sala fissando i titoli di coda, altri procedono verso l’uscita tendendo ad abbassare gli occhi, non vi è più festiva conversazione e a volte il silenzio è spezzato solo da uno scambio di banali e sintetici commenti.

Ogni spettatore appare un po’ più solo, come colpito da un’esperienza unica ed insolita che ha innescato emozioni e fantasie sopite e dimenticate. Naturalmente questa fase dura un tempo limitato e i richiami della realtà esterna riacquistano la loro preponderanza proprio come avviene dopo un brusco risveglio durante la fase sognante del sonno e solo progressivamente riacquistiamo la piena consapevolezza della realtà.

Ma la realtà, la vera realtà, la realtà che rassicura e che consola, la realtà che emoziona e che ci fa pensare, la realtà che ci aiuta a vivere e a non soffrire e a viaggiare senza limiti nello spazio e nel tempo, è sempre è comunque nell’immaginario. E l’immaginario è forse l’unica attività della nostra mente dove ancora ci è concesso un margine di libertà dalla ferrea schiavitù dei meccanismi funzionali del nostro cervello. (Glen O. Gabbard – Krin Gabbard)

Ma se abbiamo detto che cinema e psiche sono fatti della stessa sostanza, per comprendere ancora meglio questo concetto, proviamo ad immaginare la nostra attività mentale utilizzando la metafora che più vi si adatta : la realizzazione e la proiezione di un film.

Il cervello è la macchina da cui nasce il film della coscienza di cui noi siamo ad ogni istante spettatori più o meno consapevoli. Le informazioni che giungono continuamente al cervello attraverso i canali sensoriali vengono integrate con le informazioni immagazzinate nella memoria per costruire una storia proiettata in modo continuo sullo schermo della nostra mente. La macchina-cervello lavora continuamente sia in modo seriale che in modo parallelo, proprio come nella preparazione e nella lavorazione di un film. Ma così come il montaggio serve ad ordinare le sequenze per ottenere la versione finale del film, di fatto noi viviamo istante per istante una sequenza di scene, coordinate e legate da un filo logico che sono la rappresentazione integrata del funzionamento “seriale” del nostro cervello.

Per cui la coscienza è rappresentata da una serie di “immagini del presente” ognuna delle quali è collegata funzionalmente a quella precedente ed è la risultante di stimoli attuali e di esperienze passate. La storia è raccontata istante per istante dal pensiero il quale, da abile regista, crea le scene, chiama gli attori davanti la macchina da presa, scrive i dialoghi ed organizza in modo funzionale la sequenza dei fotogrammi. Come l’obiettivo di una macchina da presa anche il campo della coscienza può restringersi, allargarsi e focalizzarsi su dettagli o su insiemi, interni od esterni a seconda l’attività della funzione attentiva. L’attenzione è guidata a sua volta da stimoli interni o esterni elaborati dalla macchina- cervello.

A questo punto non si può negare che il sogno di molti sarebbe quello di poter effettuare un accurato montaggio del film della propria vita, tagliando le scene venute male, potendole magari girare di nuovo con nuovi personaggi ed attori, cancellando le parti dolorose e fastidiose o ancora meglio riscrivendole mantenendo soltanto gli elementi importanti, significativi ed interessanti.

Qualora il personaggio principale decidesse di diventare attore e non spettatore della propria vita non è detto che non ci si riesca.

Ma torniamo un attimo allo spettatore del film cinematografico il quale è sì passivo ma allo stesso tempo attivo in un alternarsi di proiezioni-identificazioni che Morin definisce “partecipazione emotiva” questo perché, come abbiamo già detto, il cinema risponde in pieno ai nostri bisogni.

Ma di quali bisogni stiamo parlando? Quelli del nostro immaginario, delle nostre fantasticherie, dei nostri desideri più reconditi.

Bisogno di sfuggire a se stessi, e cioè di perdersi nel mondo esterno, di dimenticare il proprio limite, di meglio partecipare al mondo…e cioè in fin dei conti di sfuggire a se stessi per rirovarsi.

Bisogno di ritrovarsi, di essere maggiormente se stessi, di elevarsi all’immagine di questo doppio che l’immaginario riflette in mille vite meravigliose. (Edgar Morin)

Il cinema e la psicoanalisi in qualche modo sono cresciuti insieme, quasi fratelli della stessa mamma.

Entrambi si sono concentrati principalmente sul pensiero, sulle emozioni, sul comportamento dell’essere umano e soprattutto sulla sua motivazione e spesso si sono incrociati tentando di penetrare il contenuto apparentemente casuale della vita quotidiana e di rivelare i segreti del carattere umano.

Come in una vera storia d’amore si sono rincorsi e allontanati, a volte la loro relazione è stata complementare a volte ostile.

(Sarebbe quasi impossibile conoscere tutti i libri e gli articoli che psicologi, psichiatri, psicanalisti hanno dedicato all’argomento cinema e lo stesso vale per i film che hanno trattato temi legati alla psiche e alla psicanalisi)

Sarà per tutti questi motivi che negli ultimi anni proliferano studi e ricerche su un modo nuovo di mettere l’uno al servizio dell’altra e che forse, chissà, potrà mettere d’accordo tutti : la cineterapia.

Ma questa è un’altra storia…….