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…o della “giustizia negata”.


I sospetti sono solo l’inizio degli accertamenti che dovrebbero coinvolgere solo chi accerta.

Nel nostro sistema invece il primo sospetto viene strombazzato in opulente conferenze stampe, sempre ricche di inutili e succulenti particolari non detti. E questo provoca un doppio negativo risultato:

  1. Se il sospettato successivamente sarà riconosciuto colpevole, avrà il tempo, intanto, di tamponare qualche falla;
  2. Se il sospettato è innocente è comunque investito dal sospetto e, se col tempo riuscirà a scrollarsene di dosso la puzza, dovrà comunque subirne l’ansia della prima ondata di disperazione al quale naturalmente sarà sottoposto. E poi comunque subire l’iter processuale sotto gli occhi sospettosi di tutti, fino alla fine, fino all’accertamento totale dell’innocenza, come bolla papale a sancire il diritto naturale (e magistrale) ad essere considerato innocente alla fine di un processo, non dall’inizio, come uno stato garantista dovrebbe fare. Si è passati infatti dalla presunzione di colpevolezza, alla presunzione di innocenza.

E’ questo secondo caso che mi sconvolge sempre. Ed è di questo che voglio, scriver, pensando.

Chi ripagherà il sospettato dalla metodica autodistruzione al quale si sottoporrà perché comunque perseguitato dal sospetto? E se questo essere vivente e sociale non è supportato da un contesto collettivo fiducioso (perché a volte è così), nonché della possibilità economica di difendersi dignitosamente (e ripeto dignitosamente, le difese di ufficio spesso peccano di tale garanzia), come farà da solo ad affrontare il sistema e ad uscirne integro? Non ne uscirà. Men che meno integro.

Anche se mai avesse la capacità utopica, per qualsiasi motivazione contingente o fausto aiuto del destino, di riprendere in mano le redini della sua vita, sarebbe sempre uomo monco del tempo produttivo che gli è stato sottratto.

La fame di giustizia che oggi imperversa è diventata ormai ansia bulimica di giustizialismo trionfalistico, che con la giustizia giusta ha ormai poco a che spartire.

La giustizia non lascia mai soli i sospettati, perché fra questi esiste la possibilità che ci siano anche degli innocenti.

La società non lasci mai soli i sospettati, e non li giudichi prima del corso della giustizia, chè non è il compito che le compete.

Quando il lecito percorso di giustizia sarà concluso, nel caso in cui si attesti positivo (nel senso che si scopre un “innocente” – e che cosa brutta è lo “scoprire” un innocente…) cosa o chi ripagherà il giusto che avrà subito tale supplizio? Avrà dato anni di vita preziosi che poteva dedicare a sé stesso, alla famiglia, alla società, diventando per quest’ultima un ulteriore costo, perché sicuramente non sarà stato produttivo, anzi in questo ambito deficitario.

E magari avrà trascurato lavoro, affetti, vita sociale, salute con il solo risultato di diventare un ulteriore aggravio di costi per il sistema in cui vive.

Se ne vogliamo fare un discorso solo ed esclusivamente economico quindi, un sospettato giusto diventa un costo sociale che deve essere evitato.

E la prima modalità per evitare questo è tutelare il sospetto come strumento essenziale di indagine a tutela del sospetto e del sospettato.

Ripeto, se il sospettato sa di essere tale e alla fine risulterà colpevole, sicuramente si metterà sulla difensiva, complicando così le indagini stesse.

La informazione (sempre accessibile, altrimenti diventa censura, ma pubblica solo alla fine) deve essere fatta a percorso concluso, quando c’è la certezza della pena o della non pena. Se fatta prima ha solo funzioni propagandistiche che non sono funzionali alla giustizia. Chi fa, lo deve far sapere quando ha fatto, non quando sta facendo, perché questo potrebbe far cambiare le regole del gioco durante il torneo, facendo modificare i risultati del gioco stesso.

Ma il mio primo pensiero torna sempre alla necessità della tutela pubblica del sospettato, che per la nostra legge è innocente finché non viene definitivamente dichiarato colpevole. Concetto quest’ultimo che pare essere dimenticato da chi propaganda giustizia. Allora io mi chiedo il perché di questo. E l’unica risposta che le mie conoscenze limitate in termini di giurisprudenza sanno darmi, è che il sistema “giustizia” è così affogato dalla sua incapacità gestionale, che ogni mezzo è buono per far ricominciare il lentissimo cammino dei processi e arrivare a qualsivoglia sentenza.

Se chi fa giustizia avesse la possibilità di farla con mezzi idonei e certi, non cercherebbe altri canali per fare le proprie pratiche, e potendosi in questo modo occupare solo di giustizia, avrebbe la possibilità di farlo, e farlo meglio. Allora diamo mezzi, strumenti, uomini, strutture, conoscenze agli uomini di giustizia, e questi, nella maggioranza dei casi, non cercheranno che di fare il loro dovere.

Non avranno bisogno di divulgare il loro fare, perché questo si divulgherà da sè, tramite i beneficiari del fare che si sentiranno dei tutelati e non dei perseguitati della giustizia (se innocenti) e dei puniti da un sistema sano (se colpevoli).

E in sistema sano c’é anche la possibilità di recupero e di reintegrazione di chi ha sbagliato e paga il proprio debito con la società. Ed ecco perché nella nostra realtà è così complicato (se non impossibile) il reinserimento sociale di chi esce da un percorso che lo ha visto protagonista colpevole della “giustizia”. Il reinserimento è possibile solo in un contesto sano, non in una realtà contorta come la nostra, dove è sempre più facile delinquere che non.

E tutto torna alla giustizia giusta.

Inizio, cardine e fine di una società dove non c’è sicurezza di pena, ma c’è certezza di subire, nel malaugurato caso di innocenza, il supplizio di Tantalo che il percorso di giustizia nostrano impone.

E per finire un sillogismo.

Gli uomini sbagliano – chi sbaglia deve pagare – i giudici (i giornalisti) sono uomini – i giudici (i giornalisti) sbagliano – i giudici (i giornalisti)che sbagliano devono pagare.

Allora dov’è oggi la giustizia giusta?

Giacomina Durante