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Difendersi
dal mobbing (2). Lo straining.

Come
si fornisce la prova del mobbing?

Il
mobbing si manifesta attraverso comportamenti riconducibili a norme
giuridiche vigenti (ad es. la dequalificazione professionale del
lavoratore che trova specifica tutela nell’art. 2103 del codice
civile; le ingiurie, punite dall’art. 594 del codice penale),
ma anche attraverso comportamenti atipici, non riconducibili di per
sé ad alcuna specifica norma giuridica (ad es. il silenzio dei
colleghi al momento dell’entrata nella stanza del lavoratore
discriminato o per risposta alle sue domande, l’esclusione
della vittima da attività sociali).

Il
lavoratore mobbizzato deve ricostruire la vicenda in modo completo
per far comprendere al giudice l’esistenza di un disegno persecutorio
diretto ad eliminarlo o, comunque, a lederne la personalità e
la dignità. A tal fine può utilizzare come strumenti di
prova: documenti scritti; registrazioni ambientali (mediante
riproduzioni fotografiche, cinematografiche, fonografiche, ed ogni
altra riproduzione maccanografica delle situazioni ambientali);
testimonianze; prova per presunzioni; consulenza tecnica; mezzi
istruttori che il giudice ha il potere di disporre d’ufficio sui
fatti allegati dalle parti.

Ove
l’accusa di mobbing non risulti provata in giudizio, sussiste il
rischio di ricevere possibili querele per diffamazione o di essere
licenziati. In proposito, la Corte di Cassazione ha ritenuto
giustificato il licenziamento per il “venir meno del rapporto
fiduciario fra le parti”. Ecco perchè, prima di
instaurare un giudizio, occorre valutare con molta attenzione la
reale possibilità di un buon esito della causa in base agli
elementi di cui si dispone a sostegno delle proprie pretese.

Il
mobbing è reato?

Nel
nostro ordinamento non vi sono norme penali che sanzionino
atteggiamenti di vessazione morale o di dequalificazione
professionale in quanto tali.

Stante
la difficoltà di stabilire con precisione le fattispecie
concrete degli atti e dei comportamenti attraverso i quali si
verificherebbero la violenza e la persecuzione psicologica ai danni
dei lavoratori, bisogna valutare il singolo caso accertando la
sussistenza degli elementi di altre fattispecie previste dalla legge
penale.

Diverse,
infatti, sono le fattispecie incriminatici cui si è cercato di
ricondurre l’aggressione psicologica subita nell’ambiente
lavorativo, principalmente le seguenti:

  • abuso
    d’ufficio ex art. 323 cod. pen., ove le vessazioni, compiute
    nell’ambito di un ufficio pubblico, rientrino nel delitto di
    abuso d’ufficio;

  • lesioni
    ex art 582-583 cod. pen., se dal mobbing sono derivate lesioni;

  • ingiurie
    ex art. 594 cod. pen., se l’aggressione si è
    sostanziata anche in una lesione dell’onore;

  • violenza
    sessuale ex art. 609 bis cod. pen.


In
proposito, la scorsa estate, è stata molto pubblicizzata dai
mezzi di comunicazione la sentenza n.33624/2007 della Corte di
Cassazione, V sez. penale, sull’assunto che essa abbia inteso
escludere in senso assoluto la rilevanza penale dei comportamenti
mobbizzanti, mentre, in realtà, si è limitata a
precisare che, proprio perchè non esiste, nel nostro
ordinamento, una norma che contempli il reato di “mobbing”,
la tutela penale può intervenire solo nei casi in cui
risultino integrati gli elementi oggettivi e soggettivi di altre
fattispecie . Nella vicenda esaminata, un’insegnante di sostegno,
dopo reiterate vessazioni, aveva denunciato il dirigente scolastico
dell’Istituto presso il quale prestava servizio. A fronte
dell’accusa formulata dal pubblico ministero “
di
lesioni personali volontarie gravi in ragione dell’indebolimento
permanente dell’organo della funzione psichica, in sostanza di
un comportamento riconducibile nella condotta di mobbing
”,
la Cassazione ha confermato la sentenza del gup del Tribunale di
Santa Maria Capua Vetere, ritenendo non sussistenti gli elementi del
delitto di lesioni personali, per carenza di prova sia in ordine ai
fatti assunti come lesivi dell’integrità psicofisica
dell’insegnante interessata, sia in ordine al nesso di causalità,
stante la difficoltà di individuare atti a cui collegare la
lesione dell’organo della funzione psichica lamentata. Inoltre, la
Corte ha precisato che il reato più vicino alla fattispecie
conosciuta come “mobbing” è l’illecito
previsto dalla disposizione dell’art.572 cod. pen. (maltrattamenti)
commesso da persona dotata di autorità per l’esercizio
di una professione, non riscontrato, però, in quel caso
specifico.

Lo
straining.

Il
termine straining deriva dal verbo inglese
to strain (tendere, sforzare, distorcere stringere, mettere
sotto pressione), ed è stato recentemente impiegato dallo
psicologo Ege per individuare “una situazione di stress
forzato sul posto di lavoro, in cui la vittima subisce almeno una
azione che ha come conseguenza un effetto negativo nell’ambiente
lavorativo, azione che oltre ad essere stressante, è
caratterizzata da una durata costante”. Si tratta di forma di
persecuzione attuata “contro una o più persone, ma
sempre in maniera discriminante”, da cui der
iva per la
vittima una condizione particolare di stress con effetti a lungo
termine.

La
differenza sostanziale rispetto al mobbing è che non si
richiede una data frequenza delle azioni ostative, ma è
sufficiente anche ad una sola
azione discriminante -come il demansionamento – che produca un
effetto duraturo.

Questa
fattispecie è stata riconosciuta per la prima volta dal
Tribunale di Bergamo che, con la sentenza del 20 giugno 2005, ha
riconosciuto il diritto al risarcimento del danno ad una lavoratrice
che era stata dequalificata, in considerazione della “gravità
del comportamento posto in essere … desumibile dalla completa
privazione delle mansioni, dalla durata della dequalificazione,
dall’anzianità aziendale della lavoratrice e dalle modalità
con cui è stato attuato, in maniera plateale quasi a
rappresentare un monito per gli altri dipendenti che intendessero
esprimere le proprie opinioni riguardo alle decisioni aziendali”
con quantificazione del danno nella misura di euro 500,00 per ogni
mese di dequalificazione subita -pari a circa l’80% della
retribuzione netta della lavoratrice – e di euro 10.655,26 a titolo
di risarcimento del danno biologico.

Erminia
Acri-Avvocato