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Alla scoperta di nuovi sapori per sensazioni e piaceri sconosciuti al palato e non solo…in compagnia di un Cicerone d’eccezione, Chef Kumalè, giornalista free lance e “gastronomade insaziabile”.


Vittorio Castellani, alias chef Kumalè, si è formato alle cucine ed alle culture del mondo in occasione dei numerosi viaggi effettuati all around the wordl. Esperto di cucine etniche, collabora con svariati Enti e Istituzioni sui temi delle culture materiali nei paesi extraeuropei e nelle metropoli dell’Europa meticcia. E’ consulente di Slow Food sulle tematiche del world food e membro del Conservatoires des Cuisines Mediterraneennes come esperto di cucine arabo-medio orientali. Ha pubblicato numerosi libri, tra cui “Le cucine del mondo”, “Pappamondo:guida ai prodotti esotici” , “Cucine africane”, “Ratatuia: un mare di uomini, migrazioni e pietanze”, inoltre cura, su Venerdì di Repubblica, insieme a Gianfranco Vissani, la rubrica ‘Week End a Tavola il piatto etnico’, e per l’inserto “Torino Sette” edito da La Stampa, le rubriche “Mappamondo” e “Pappamondo”.

La passione, unita alla curiosità per le cucine dei vari popoli, lo ha portato ad essere un convinto assertore della “foodlosophy” che unisce il piacere della scoperta di luoghi, tradizioni e culture diverse con il gusto per la buona tavola. A tal proposito, si è fatto promotore di food adventures around the wordl come “Paris Metisse” (itinerario tra i quartieri multietnici delle Villa Lumiere), “Food Lovers London” (street food e asian ethno shopping a Londra), inoltre, ha collaborato a Grandi Eventi, quali “Hong Kong: l’isola dei nove draghi” (Ente per il turismo di Hong Kong), “Festival des Arts Culinaires de Fès” (Ente per il Turismo del Marocco).

D: La prima domanda che mi viene di porle, visto che lei si interessa di cucina mediterranea e viste le mie origini, è quella sulla cucina calabrese…

R: la cucina calabrese è gustosa, con le vostre soppressate, i capocollo…

D: secondo lei qual è il piatto tipico?

R: Io mi occupo delle cucine dell’altra sponda, non ho una conoscenza approfondita della cucina calabrese, ma quello che mi colpisce e che distingue la cucina calabrese dalle altre è sicuramente l’uso massiccio del peperoncino. I calabresi sono quelli che hanno saputo apprezzare ed integrare al meglio il prodotto degli spagnoli nel Mediterraneo, nel loro ambiente. Apprezzo le pietanze e non solo quelle piccanti, ma ciò che adoro sono gli insaccati della tradizione calabrese, il capocollo, le soppressate che ormai non si fanno più, quelle sott’olio, nel lardo…

D: …Si fanno, Si fanno…

R: ci sono ancora?

D: Come no!

R: magari le trovate voi giù ma su al Nord arrivano dei prodotti industriali di basso livello.

D: Se vuole, gliele faccio avere io quelli buoni..

R: davvero?! Sono disposto pure a pagare…Per ritornare alla cucina calabrese e rimanendo nell’ambito dei salumi, è evidente lo stretto legame con la Spagna, voi avete la soppressata, lì usano una versione un pò diversa, molto più cremosa che si scioglie, la “soprassada”, in più il “maiorchino” che i Catalani spalmano sul pane e che fanno fondere nel forno…

D: Noi invece abbiamo la ‘nduja…che si spalma…

R: che è un po’ più piccante della “soprassada” catalana. Beh, poi avete i primi che sono sicuramente molto buoni come per esempio “a sagna”…ricordo di aver mangiato questa pasta con le polpettine, il formaggio, l’uovo bollito…Poi ci sono le “mulingiane”, (melenzane fritte..)

D: Vedo che ha avuto modo di apprezzare a fondo la nostra cucina..

R: io le cose buone le so riconoscere, le apprezzo ovunque, quindi apprezzo la Calabria che sicuramente insieme alla Puglia, alla Sicilia è uno dei posti dove si mangia bene.

D: Ma cambiamo discorso, altrimenti qualcuno penserà che sono troppo di parte…a proposito della “prova del cuoco” su Rai Uno, lei ha dato alla trasmissione un tocco particolare…

R: ma non è facile, l’Italia è un paese ancora molto chiuso da certi punti di vista, comunque resta il fatto che esiste un pubblico giovanile molto interessato a questi nuovi sapori; oggi la gente viaggia ed ha voglia di conoscere, quindi penso che sarà inevitabile e di fatto sta già accadendo che anche i giornali, le riviste, le televisioni pian piano si aprano in modo intelligente. Purtroppo è ancora diffusa la cultura della ricetta; cioè quello che mi chiedono di fare sono le ricette che tutto sommato è la cosa che mi interessa di meno. Però attraverso la ricetta poi si riesce a fare un discorso più vasto. Io uso sempre i piatti un pò per descrivere un popolo, perchè dall’analisi dei piatti si può parlare di prodotti tipici…delle tradizioni, degli usi e dei costumi, della precettistica religiosa e quant’altro, quindi probabilmente siamo a questo primo passo..

D: Quali sono, secondo lei, i rapporti tra la cucina italiana e le tradizioni culinarie dei paesi a sud del bacino del Mediterraneo?

R: Il rapporto sta nella storia, basta pensare alle contaminazioni turche della cucina pugliese, i “gliumared” o “torciniel” che fanno in Puglia li ritroviamo in Turchia e in Grecia, anche se con nomi diversi, “cocoresc” o “cocorezi”. I dolci, “le cartellate”, “e carteddate” come li chiamano i pugliesi, sfoglie imbevute nel vino cotto, sono identiche alla “sciabachia” marocchina che è un dolce tipico del mese di Ramadam. Quindi, in alcuni piatti della nostra cucina regionale è evidente lo scambio con queste regioni. Naturalmente, i piatti non li ritroviamo mai importati e adottati in modo fedele e identico all’originale, e questo per due motivi, che valgono universalmente per tutte le cucine del mondo. Ogni volta che un popolo adotta un piatto di un altro paese lo trasforma secondo due principi: la reperibilità del prodotto, per esempio, il torrone se non ci sono le mandorle lo si fa con le noci, come in Francia, noi piemontesi lo facciamo con le nocciole, altri lo fanno con i pistacchi.

D: Non per essere ripetitiva ma in Calabria, a Bagnara si fa con le mandorle..

R: Con le mandorle, con le “blues” come dicono gli arabi che è la ricetta tipica, quella tradizionale, oppure, ed è questo il secondo principio, con l’adattamento al gusto, cioè non piacciono alcuni ingredienti e vengono eliminati e/o sostituiti. Il “cumino”, altro esempio, si usa moltissimo in Medioriente, ma in Italia non è molto diffuso, come il coriandolo, quindi c’è una selezione rispetto a quelli che sono i gusti o anche la texture stessa dei cibi. Sempre in Medioriente, piacciono molto alcuni dolci al cucchiaio come il “salef” che è fatto con il tubero di un’orchidea, un fiore aromatico che ha un profumo incredibile, peccato però che abbia una consistenza vischiosa che lo rende disgustoso, cioè noi non riusciamo a gustarlo, oppure “l’abamia”, la “belmoscu” usato dai calabresi albanesi che hanno una cucina antica, cristiano-ortodossa e proprio in Calabria, tante sono state le contaminazioni e non solo con gli arabi, anche con gli ortodossi. Le “cuzzupe” sono i dolci della tradizione greco-ortodossa

D: Le “cuzzupe” sono i dolci della Pasqua con l’uovo al centro..

R: è un dolce tipico che si mangia ancora oggi e che si usa per la celebrazione eucaristica nella Pasqua greca-ortodossa. Quindi, per ritornare alla domanda di prima, il legame sta nel fatto che alcuni piatti ricalcano fedelmente o meno fedelmente altri piatti di altri paesi. Rispetto alle contaminazioni future, io credo che, poichè nel nostro paese, sono sempre più presenti persone di altre nazionalità, ciò faciliterà lo scambio reciproco, e quindi sicuramente noi prenderemo ingredienti, usi, costumi, tecniche, piatti e prodotti e li assimileremo, perché la storia dell’alimentazione è il risultato di stratificazioni storiche che si sono succedute, è come un terreno sedimentato. Si parlava prima della cucina siciliana, ma non abbiamo citato, ad esempio, l’influsso spagnolo, che c’è stato ed è stato molto importante, attraverso gli spagnoli è arrivata l’America latina nel Mediterraneo; in Sicilia c’è una pasticceria che fa i dolcetti con il cioccolato, sono dei calzoncini ripieni di carne e cioccolato…carne di maiale saltata con cipolla, uvetta e cioccolato, e farciti dentro ad una pastella di pasta sfoglia. Questa è una ricetta che esiste ancora oggi in Messico ed è un piatto dalla cultura pre-colombiana, si mangiava già in Messico prima dell’arrivo di Cristoforo Colombo nel 1500, poi gli spagnoli l’hanno portata qui, insieme a tutto il filone della cucina al cioccolato. Le civiltà azteche usavano il cioccolato come ingrediente non come dolce, come componente delle salse; nel Mediterraneo sono circolate non solo le culture mediterranee, come quelle degli arabi, fenici ed egiziani, ma anche culture più lontane, come quelle dell’America latina di cui gli spagnoli ci hanno introdotto i sapori e le tradizioni.

D: Quindi è lo scambio e l’incontro tra i popoli che determina la cucina?

R: la cucina è la risultanza dello scambio e secondo me, può essere portata come esempio di una disciplina che ha saputo armonizzare e valorizzare gusti e sapori, creando patrimoni endemici, locali, tipici, frutto dell’incontro e dello scambio trasversale tra i popoli; in un piatto noi ritroviamo la storia di un popolo, ritroviamo tutto quello che abbiamo preso dagli altri. Noi oggi pensiamo al peperoncino come a qualcosa di nostro, però è da 500 anni che ci facciamo i conti, lo stesso con le patate.

D: Lei sa che a Diamante, in Calabria c’è l’Accademia Nazionale del peperoncino?

R: io collaboro con il Presidente, con il professore Enzo Monaco, ho cominciato a scrivere per la loro rivista,”Pic mondo peperoncino”…Recentemente ho fatto un servizio sul peperoncino senegalese, poi, dopo la cucina senegalese, sono stato in India, dove ho fatto un reportage sulla cucina del Rajasthan che è la più piccante, e qui ho fotografato il peperoncino in tutte le salse, iniziando sulla rivista dell’Accademia una rubrica, intitolata “chili wordl”.

D: Allora la prossima estate dovrebbe venire a Diamante per il Festival del Peperoncino, è un evento ormai internazionale…

R: non ci sono mai stato, però è un’idea..

D: L’arte culinaria è importante perché come lei sostiene è anche un modo per dirimere le controversie, cioè vivere il convivio come incontro per accorciare le distanze, per discutere con calma dei problemi..

R: io considero la cucina come metafora dell’incontro, perché il problema non è mantenere le distanze, le differenze, ma amalgamarle e saperle integrare, come in un piatto, dove gli ingredienti più strani se usati in modo armonico e utilizzati con intelligenza, possono generare piacere e innovazione. Il segreto della cucina è questo, ed i fenomeni legati allo scambio saranno sempre in continua evoluzione, come anche quelli legati all’emigrazione di uomini, pietanze e merci, cioè tutte le volte che noi entriamo in contatto con un’altra abitudine e incontriamo qualcosa che ci piace l’assimiliamo; questo è un fenomeno normale, nel momento in cui noi assimiliamo rimescoliamo il nostro patrimonio originario. La cucina è una palestra di vita, io spero che col tempo saremo in grado di farlo non solo con il cibo, riuscendo ad armonizzare e valorizzare gli apporti delle altre culture; mentre, devo purtroppo constatare che si sottolineano soprattutto le differenze e le difficoltà. Sicuramente l’incontro è fatto anche di esperienze dolorose, dure, pesanti, e non è tutto semplice, tutto facile, però credo che, come diceva Nitzsche “se vuoi vedere brillare una stella devi sopportare un po’ di dolore”…

D: Mia nonna diceva: “se ti piace ‘u duce t’ha di piacia puri l’amaro”…

R: certo…

D: Ha capito?

R: certo, se ti piace il dolce ti deve piacere anche l’amaro…certo…

D: Quindi la cucina anche come accettazione dell’altro?

R: assolutamente si.

D: Per prendere dall’altro?

R: Certo… prendere ciò che piace…per esempio molti dicono che in Europa non si mangia la vera cucina cinese. Io ho voluto fare un viaggio, anzi due, prima al Sud a Hongkong e poi a Pechino, per trovare una risposta a questa domanda: “ma cosa mangiano i cinesi, qual è la vera cucina cinese?”. E ho identificato lo scenario delle cucine cinesi delle diverse regioni, dove le tradizioni sono diverse e dove esistono stili di cucina diversi, la cucina popolare di strada e la cucina della tradizione imperiale, cioè quello che mangiava l’imperatore a palazzo; esistono quindi delle varietà e anche delle abitudini che noi non abbiamo, per esempio, il filone della cucina che loro considerano terapeutica o preventiva taoista, cioè loro mangiano i cavallucci marini, gli scorpioni, cose che a noi fanno rizzare i capelli, in realtà fanno parte del loro sistema di credenza, di abitudini, ma anche di una medicina alternativa. Il fatto che i cinesi non mangino i latticini e i derivati del latte provoca loro problemi di assimilazione del calcio, per cui il calcio lo assimilano mangiando gli insetti, infatti, la chitina, sostanza di cui sono ricchi gli insetti, viene trasformata e metabolizzata nell’organismo e diventa calcio, fissandosi nelle ossa. Riportare in Occidente queste abitudini, come anche la zampa d’orso, le pinne di pescecane, i nidi di rondine, è difficile, anzi impossibile. A me le hanno fatte mangiare, ora so che cosa mangiano i cinesi e capisco perché in Occidente queste cose non si mangiano, magari potremmo sperare in una cucina fatta un pò meglio. Come migliore potrebbe essere la cucina italiana all’estero, negli Stati Uniti, per esempio, fino ad un certo periodo erano diffusi gli spaghetti, la pizza e il mandolino. Gli stessi francesi negano l’esistenza di una cucina italiana e la riducono molto, la gente comune, però, non gli esperti. Ciò accade perchè in Francia se si va nei ristoranti di cucina italiana ci si rende conto che spesso sono delle bettole.

D: La cucina può essere espressione di libertà?

R: la cucina come libertà dei popoli e delle persone. Una delle cose sulle quali insisto di più è liberarsi dalla schiavitù della grammatura, la cucina deve essere un’esperienza liberatoria, viviamo già in una società piena di limiti, divieti, condizionamenti….si fa così…questo è il vero piatto, la vera ricetta è questa…non se ne può più. Esprimiamoci! Per me il cuoco, se parliamo del professionista, è un artista, è qualcuno a cui invece di consegnare una tavolozza di colori gli vengono consegnati degli ingredienti e lui crea; ogni volta che un cuoco creativo fa un piatto si fa un autoritratto, cioè ci mette del suo. La cucina non è semplice e non è il semplice assemblamento e trasformazione di ingredienti e prodotti ma è l’espressione di un’interiorità, di una spiritualità, di un modo di essere. Nei miei corsi di cucina, di solito in aula ci sono 15 postazioni diverse, tutte gli stessi ingredienti, ma quando assaggiamo le cose, ognuno di noi, con gli stessi ingredienti, ha dato un suo tocco personale. Gli indiani lo chiamano karma, un qualcosa che va al di là degli ingredienti che noi trasformiamo in energia… io credo in questo aspetto…

D: Io pure moltissimo…

R: dobbiamo tenere presente ciò ogni volta che ci mettiamo ai fornelli, io quando sono arrabbiato o non sto bene, non cucino bene, i piatti non mi vengono bene, altre volte faccio cose divine e ciò coincide con momenti in cui sono felice oppure, quando vivo una situazione positiva.

D: E’ la sua energia positiva che si trasferisce nella pietanza…

R: io credo in queste cose e devo dire che in questo gli orientali ci possono insegnare molto. Agli orientali si devono i primi trattati di cucina; erano dei trattati medici, cioè i medici di Baghdad scrivevano dei ricettari; anche in Cina, ancora oggi, esiste la figura del medico cuoco; nella ayurvedica quando si vuole prevenire o curare una malattia che è considerata come un disequilibrio, si ricorre all’utilizzo mirato, secondo le personalità, di alcuni prodotti.

C’è una grande spiritualità in Oriente, gli indiani dicono che gli Dei si nutrono dei profumi della cucina degli uomini, pregano prima di cucinare, hanno un rispetto della stagionalità e della territorialità del prodotto che li costringe, in qualche modo, ad avere un atteggiamento sacrale rispetto a questo, e soprattutto credono che l’uomo nutrendosi non ha una responsabilità solo nei confronti di se stesso, ma anche nei confronti delle generazioni future, per ciò gli induisti, i bramini, soprattutto quelli di casta alta usano tutta una serie di accorgimenti e sono strettamente vincolati alla lprecettistica religiosa come senso di responsabilità verso se stessi, verso gli altri e verso l’ambiente.

Si dovrebbe, poi, per esempio, riflettere sull’uso delle spezie aromatiche, in occidente si utilizzano semplicemente per aspetti gusto-olfattivi. È uno sminuire quello che in ayurvedica si chiama “la proprietà”. Le essenze aromatiche, le spezie contengono dei principi attivi, la naturopatia e le altre medicine alternative si basano sulla somministrazione di prodotti naturali che contengono tali principi . Gli psichiatri del ‘600 curavano alcune malattie come la schizofrenia somministrando, ad esempio, lo zafferano, che ha un alto potere ipnotico e sedativo. Nelle spezie e nelle essenze aromatiche risiedono delle sostanze che hanno delle funzioni che vanno al di là della aromatizzazione, noi questo lo abbiamo completamente perso, in Oriente invece c’è ancora.

Credo che occuparci, oggi, delle cucine di questi paesi ci possa anche permettere di recuperare usi, costumi e tradizioni che si sono persi quando i prodotti durante l’epoca coloniale sono giunti in Occidente, dove si è persa la cultura nativa, d’origine. Soprattutto non sappiamo, ad esempio, come mai il cumino veniva usato in tutti i paesi che facevano una dieta ricca di legumi, tipo Messico, Egitto, mondo arabo e mediorientale. In questi luoghi c’è un alto consumo di fagioli, lenticchie, ceci e fave, che, come si sa producono una quantità di gas intestinali notevoli che il cumino invece neutralizza.

D: Esiste una cucina “seduttiva”?

R: io non credo nella cucina afrodisiaca, non credo che cucinando qualcosa piuttosto che altro si possa conquistare una donna. Credo che la cucina sia sesso puro cioè certa cucina può essere un modo per conquistare una donna. Cucinare è sicuramente uno dei tanti modi per sedurre le persone e credo che in una società dove tutto è dominato dalla fretta e dalla frenesia, il fatto di ritornare a dei ritmi che sono più adatti alle persone costringa in qualche modo a ritrovare il senso, il gusto, il piacere per le cose. La cucina è un esercizio, una pratica zen, non a caso esiste tutto un filone nell’oriente anche nel kamasutra di cui noi occidentali non sappiamo niente. Sono stato adesso in India e ho avuto una bellissima esperienza, ho capito che l’amore è l’applicazione di principi di benessere, non è la cultura della performance, ma è la liberazione e il piacere di concedersi, a sé e all’altro, tutto ciò che la natura ci ha dato di buono per poterci esprimere…

D: Lì non conoscono l’ansia da prestazione…

R: assolutamente no. E soprattutto non conoscono i tabù introdotti dal Cristianesimo; in queste culture, sia nell’Islam ma ancora di più nell’India, l’uomo, ma ancora di più la donna, varca una porta che ad un certo punto si apre e quando si supera cadono i pregiudizi e tutto è lecito e lo si vive con piacere, senza peccato, perché facendo del bene a se stessi si fa del bene agli altri. Si vive serenamente il benessere, i piaceri in senso lato, e quindi anche il sesso che è uno dei piaceri della vita. Noi occidentali abbiamo un modo un pò distorto di approcciare, quando viaggio in questi paesi sento che c’è un modo diverso di stare con se stessi innanzitutto e di stare con gli altri che è liberatorio e la cucina sicuramente è un’espressione…Nella pratica dello zen, in Giappone, prima di diventare maestro della gerarchia, si deve essere diventati cuochi. Cioè il cuoco esegue tutta una serie di passi, è una pratica come il tiro con l’arco, l’ikebana, la concentrazione. Proprio per questo è necessaio praticare tutto ciò che ci può aiutare a vivere l’attimo ed a gustare fino in fondo l’essenza delle cose, in questo gli orientali, i giapponesi in modo particolare sono maestri. Il trattamento stesso del prodotto, fresco di stagione deve essere lavorato con arte, sfilettato, tagliato e non deve essere coperto da null’altro, in Giappone non si usano le spezie; l’alimento deve essere in sé buono e lavorato bene, e ciò è sufficiente.

Penso che questo riportare alla natura umana e al prodotto il gusto delle cose sia un grande insegnamento nella cucina ma credo utile anche nella vita.

Infatti, lo credo molto anch’io, bisogna ritrovare il gusto vero della vita, solo così l’uomo potrà essere felice, la ringrazio per l’intervista Chef Kumalè, a presto.