Raccontata attraverso gli occhi e la memoria di un bambino.
Una qualsiasi biblioteca, una qualsiasi storia moderna, una qualsivoglia emeroteca, tutte, potrebbero narrare, con dovizia di particolari, le vicende del ventennio fascista; e, a seconda delle partigianerie ideologiche di storici e giornalisti, vi potremmo leggere anatemi e/o rimpianti di nostalgici, esaltazioni romantiche o il vilipendio dei vili, l’oltraggio di gnomi o la serena interpretazione di chi guarda la storia con l’occhio analitico dei Crociani.
Il contributo che voglio esprimere nei riguardi del Fascismo attiene, invece, a momenti della mia memoria, ai ricordi della prima fanciullezza, allorché il ventennio consumava il suo ultimo lustro.
Le prime immagini che mi sorgono nella mente si rifanno agli anni che vanno dal 1937, al 1943:
Frequentavo la prima elementare, ed ero convinto che l’Italia fosse la nazione più progredita nell’Europa perché avevamo il Duce; ero fiero della mia prima divisa di “Figlio della Lupa”, specialmente quando partecipavo alle adunanze che si svolgevano al pomeriggio di tutti i sabati coincidenti con la durata dell’anno scolastico; gli ufficiali della milizia fascista, i poveri maestri elementari, costretti nelle loro camicie nere, ed un gruppo di gerarchi, con a capo il responsabile politico della provincia che rispondeva all’altisonante titolo di “Federale”, assistevano alle estenuanti, inutili, condizionanti esercitazioni di marcia che si svolgevano nei pressi del palazzo della G.I.L. ( Gioventù italiana del Littorio ); alla conclusione di quelle esercitazioni, il Federale, impettito nella sua divisa di “Seniore della Milizia” ci arringava nell’amore di Patria, ci indicava come i prediletti del Duce, ci predestinava ad eroi di un’Italia capace di portare il sigillo della nostra civiltà sulle più impervie contrade del mondo, ci santificava come indomiti martiri pronti a dare la vita per il Duce.
Ed io mi sentivo gonfiare il petto di orgoglio e non mi accorgevo, né mi era possibile all’età di 6 anni, diversificare l’affetto verso i genitori da quello verso Mussolini.
Un altro ricordo, ancorché vago ( avevo appena 4 anni ), mi riporta ad una mattina di Giugno del 1937, quando, affacciatomi dal balcone di casa – prospiciente il fiume Busento – vidi un nugolo di variopinte divise, di reali carabinieri, di regi questurini e di ufficiali fascisti e gerarchi nazisti: scortavano, tutti, il n° 2 del Nazismo: il capo supremo delle S.S.: H. Himmler il quale, in visita a Cosenza, fermata l’auto al centro del ponte che scavalca il Busento, si fece indicare quel fiume che la leggenda indica come la tomba di Re Alarico; sceso dall’auto, mentre tutti erano impettiti nei rispettivi saluti, si volse verso il fiume e si irrigidì nel saluto nazista per onorare ” il gran morto di lor gente “.
Poi indossai la divisa di “Balilla”, riservata ai frequentanti la quinta elementare; e così, fino alla prima classe inferiore ( ancora non era stata varata la riforma Bottai con la quale si introdusse il triennio medio di primo grado, cui seguiva il quinquennio degli studi di secondo grado, ad eccezione dell’ Istituto Magistrale il cui corso si concludeva con la quarta classe superiore ed il conseguente esame di abilitazione all’insegnamento nelle scuole elementari ).
Ricordo, ancora, quando venne a Cosenza il Duce: era primavera inoltrata del 1939, se la memoria non mi inganna.
Quella visita era stata programmata dall’inizio dell’anno; bisognava che Cosenza fosse all’altezza di quell’onore!!! E la città fu pervasa da una frenesia operativa di pulitura che coinvolse tutti i ceti sociali, mentre sui muri imbiancati delle case venivano riportate le frasi celebri del Duce , come, ad esempio: “è l’aratro che traccia il solco, ma è la spada che lo difende” ; oppure : “Se avanzo seguitemi; se indietreggio, uccidetemi” ; oppure : “Credere, obbedire, combattere” ; oppure “Sui colli fatati di Roma ritorna l’Impero”; oppure “Libro e moschetto, fascista perfetto ” e giù di lì…
Noi, si andava, quasi tutti i pomeriggi, a corsi di esercitazioni, a lezioni di mistica fascista, e per ottenere il massimo del nostro impegno, ci veniva prospettato l’ambito premio di far parte della guardia d’onore ai piedi del palco da cui Mussolini avrebbe arringato il popolo festante:
Per noi ragazzi fu un periodo di festa continuata perché eravamo giustificati dalla frequenza delle lezioni e dallo studio pomeridiano.
Invece, fu abbastanza duro per tutti quei professionisti, avvocati, medici, professori, associazioni corporative ed operai ( non c’erano i sindacati ) donne piacenti e casalinghe sfiorite, festanti giovinette, gottosi anziani, imbacuccati nelle divise di panno nero su cui splendevano emblemi di lucente ottone, (quasi a farli somigliare ai poco augurabili serventi delle cerimonie funebri ) costretti a sgambettare con atteggiamenti che di marziale nulla avevano, e per i quali quella parata, quasi circense, ridicolizzava l’intima serietà del loro vivere quotidiano.
Naturalmente, quell’occasione ebbe anche alcuni risvolti positivi, perché tutti i muri, balconi e finestre dei palazzi e delle case che avrebbero fatto ala al percorso del Duce furono tinteggiati e verniciati a spese, ovviamente, del pubblico erario.
E Lui arrivò, impettito nella divisa bianca, eretto sul sedile posteriore di una 1500 FIAT decappottata dell’epoca, col viso imbronciato da un prognatismo latineggiante, scimmiottando una romanità che avrebbe fatto storcere il muso agli antichi Quiriti.
Salì per il vecchio corso Telesio che si snoda, con le sue sinuosità, per l’antico quartiere medievale di Cosenza, tra due ali fitte di cittadini festanti e, tenuta una riunione con i gerarchi locali presso la locale prefettura, ridiscese nella parte nuova della città, e, salito sul palco, presenziò alla parata militare aperta di figli della Lupa ” e conclusa da un reparto della Milizia ; ai lati del palco montavano, come guardia d’onore, una squadra di Balilla ed una di Figli della Lupa: io ero tra questi ultimi e non osavo muovere né un muscolo facciale, né un ciglio, tutto compreso dell’alto onore che mi era stato assegnato, ma sentivo su di me una sensazione indicibile di timore reverenziale.
Non sapevo che, l’anno precedente, il tragico 1938, erano state emanate le leggi razziali, leggi che avrebbero fatto retrocedere di secoli la civiltà latina, fino a confonderci con gli odi tribali che caratterizzarono le comunità dei cavernicoli.
Poi scoppiò la guerra, ed un popolo di esaltati si sgolò, quel 10 giugno del 1940, sotto il balcone di Palazzo Venezia a Roma, al grido di ” Vincere e Vinceremo ! ” E ci credevo anche io; fino a quando, il 12 Aprile del 1942, un violento bombardamento riportò un’intera città allo strazio delle distruzioni e delle morti, a centinaia, fra noi civili, sbigottiti ed inebetiti dalla paura.
E cercammo rifugio nei Casali che fanno corona intorno a Cosenz ; chi ospite di parenti, chi sobbarcandosi una locazione, chi, costretto a restare nella città, a vedersi piovere bombe e mitragliamenti dal cielo, in una serie di incursioni aeree che si prolungarono per tutta quell’estate.
Ricordo che si viveva stentatamente; mancavano i generi alimentari di prima necessità, come pane, pasta, olio, zucchero e latte ; eppure, fu tanta la paura dei bombardamenti, annunciati dal rombo tambureggiante dei “Liberators”, che ti facevano vibrare persino le viscere, per cui, pur digiuno da oltre 24 ore, non riuscii a trangugiare una sola cucchiaiata da un piatto di pasta e fagioli che una famiglia di contadini mi aveva offerto, in un pomeriggio di fuggi fuggi, per quel senso di solidarietà che sorge spontaneo fra i perseguitati dal destino e dalla storia.
Ormai la guerra aveva scoperchiato e sconvolto quell’apparato di cartapesta su cui si reggeva un sistema politico che sarebbe stato ridicolo se non fosse per le macerie, la disperazione, il terrore delle bombe e delle rappresaglie tedesche, specialmente dopo l’8 settembre del 1943, allorché un altro uomo di paglia, il Maresciallo d’Italia, Badoglio, non ritenne opportuno concludere un armistizio con resa incondizionata agli anglo americani. E’ opportuno ricordare che il 25 luglio del 1944 il Re “sciaboletta”, in puro stile Savoia, aveva convocato al Quirinale, con una meschina scusa protocollare, il Duce, il quale, ignaro del complotto, fu arrestato in tutta fretta e, caricato su di un’ambulanza, venne tradotto al Gran Sasso, a Campo Imperatore.
All’annuncio dell’arresto del Duce – che, per l’occasione, venne indicato nelle comunicazioni radiofoniche come il ” Cavalier Benito Mussolini ” – tutti gli italiani si scoprirono antifascisti, mentre uno sbandamento generale, diffusosi per tutta la Nazione, trasformava l’Italia in un territorio ove era cessata, improvvisamente, ogni aspetto della statualità, con uno sconvolgimento caotico di tutte le funzioni pubbliche, mentre il prode Vittorio Emanuele III -sempre lo sciaboletta di prima -, con tutta la sua famiglia, con gran parte della Corte, con bagagli caricati su un lugubre corteo di macchine nere come la sua coscienza, lasciava, di notte, a guisa di un disertore, la capitale e si rifugiava a Brindisi sotto la protezione anglo americana, abbandonando Roma, l’Italia, gli italiani, il suo esercito, mentre, a Porta San Paolo, già avveniva il primo scontro tra brandelli del nostro esercito, armati più di coraggio che di fucili, contro agguerriti reggimenti tedeschi; era l’inizio di una riscossa che avrebbe preteso, per un biennio ancora, morte, distruzioni, deportazioni e che avrebbe sconvolto le coscienze di tutti in un orgia di sangue che, ancora oggi, tinge di rosso i nostri ricordi, mentre a Milano, in piazzale Loreto si consumava un’inutile ed orrenda vendetta di una folla inebriata, come le baccanti, da un furore che superava il lezzo dei cadaveri miseramente esposti al ludibrio della storia.-
Giuseppe Chiaia (preside )
Fine Letterato, Docente e Dirigente scolastico, ha incantato generazioni di discenti col suo vasto Sapere. Ci ha lasciato (solo fisicamente) il 25 settembre 2019 all’età di 86 anni. Resta, nella mente di chi lo ha conosciuto e di chi lo “leggerà”, il sapore della Cultura come via maestra nei marosi della Vita