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A bocce ferme, “controdeduzioni”.


Le abbiamo celebrate tutti, chi per semplice curiosità, chi con competenza, chi solo per chiacchierare del costumino delle ginnaste o delle gambe delle pallavoliste, fatto sta che per tutto il mese di Agosto si è parlato poco d’altro.

Una volta, tantissimi anni fa, la cosa era d’obbligo, visto che per tutta la durata delle Olimpiadi non c’era altro, i regnanti in terra cessavano le guerre e quelli in cielo malattie e calamità .

Ma oggi?

Le guerre sembrano diminuite per il solo fatto che una medaglia d’oro viene annunciata prima di una battaglia ed allora il popolo del telegiornale, che solo dalla scaletta di quell’unica fonte di informazione ritrae ogni suo convincimento, crede e si comunica l’impressione che sia tutto per effetto dello Spirito…olimpico, che non scende sotto forma di colomba, bensì diffuso per irradiazione dalle foglie di quel serto d’olivo posto in testa agli atleti vincenti, come forse avveniva migliaia di anni fa, sperando che almeno quei serti fossero confezionati su misura e non dessero quegli effetti collana/zucchetto che oggi dobbiamo vedere nelle premiazioni di atleti troppo giovani o dalla circonferenza cranica non propriamente ellenica.

Atene è magica e stranamente, o forse no, ma sempre per via dei serti, il pensiero non vola immediatamente al 1896, anno della prima edizione dei giochi moderni, ma a quelle migliaia di anni di cui si e’ cominciato a dire. Si cercano affinità e le si trovano per forza, anche a dover trascurare alcuni aspetti, che poi dettagli non sono: il doping, ad esempio, perché ci vorrebbe davvero una gran fantasia a vedere affini il testosterone e l’olio col quale si ungevano i lottatori prima dei combattimenti; oppure il ruolo dei giudici, che nell’antichità potevano disporre anche dell’atleta, oltre che del verdetto, mentre oggi manca poco che il pugile sconfitto faccia un’appendice dell’incontro anche con l’arbitro o che un terzo arrivato voglia decidere chi deve stargli accanto sul gradino più alto del podio, magari solo per sue personali esigenze di pareggiarne l’altezza ed apparire meglio nelle fotografie.

Comunque le affinità si trovano, gli anni trascorsi sono tanti ed il tempo, si sa, e’ galantuomo; nel senso che sa dimenticare. Quello col 1896 è un paragone non del tutto proponibile, perché la memoria è fresca e di ogni affermazione può trovarsi riscontro in cronache, reportages, fotografie, perfino in qualche prima, stentata ripresa cinematografica. Ma soprattutto nei resoconti ufficiali di tempi, misure, classifiche, squalifiche…..proprio quelle, immediate o a posteriori, come nei casi dell’atleta vincitore di un prosciutto ad un concorso amatoriale, privato della medaglia per smaccato professionismo o dell’altro raddrizzato da terra a cento metri dalla conclusione di una maratona, privato della medaglia per qualcosa che all’epoca dovette essere considerata ricorso ad energia dopante.

Del doping si è accennato e basterebbe la consapevolezza che c’è ed avvelena tutti i nostri entusiasmi, perché si spegnesse ogni contatto con queste inutili olimpiadi e con esso si chiudesse il rubinetto per tutti coloro che a quella grande fontana attingono, siano essi, oltre ai protagonisti in campo, anche giornalisti e predicatori dell’anti-doping, che pure sono sempre lì, magari vestono anche la tuta di una federazione od arrivano a singhiozzare nella telecronaca in cui avviene una performance straordinaria, salvo poi professare sconcerto, indignazione e stupore, quando quella prestazione si rileva truccata, come il fesso del sottoscritto, che segue assiduamente le olimpiadi da Mexico ’68, ma non per questo gli daranno pensione e buonuscita, nel 2008 (anno olimpico anch’esso, ma e’ solo un caso).

Povero De Coubertin!

E più di lui povero Jim Thorpe, forse l’atleta più grande di tutti i tempi, classici e moderni, pentatleta e decatleta dalle prestazioni che, rapportate ai tempi di oggi, sarebbero tutti record mondiali in ogni disciplina, e che, appena novant’anni fa, venne privato delle medaglie per professionismo: pochi spiccioli, più o meno corrispondenti al valore di quel prosciutto cui abbiamo accennato, che dannarono quel colosso per tutta la vita, conclusa invocando fino allo stremo la restituzione dei titoli.

Possibile che dopo solo novantadue anni il mercantilismo, come lo chiamavano, non solo non è più infamia, ma è diventato addirittura regola, e che tutto è una presa per i fondelli, dal bacio della pista alle lacrime sul podio, dalle interviste tutte uguali al sudore dell’ultimo arrivato mentre il primo è asciutto e fresco come una rosa?

Oggi esiste un tariffario per le medaglie, che ogni nazione onora, poi uno per i record, che stavolta onora il comitato internazionale, poi gli sponsors, che onorano tutti, anche le schiappe (ma da schiappa a campione la distanza può essere minima, quanto il diametro di una compressa): come in ogni meeting, come in centinaia di occasioni ogni anno.

E allora le Olimpiadi, ancora una volta, sono inutili, queste più delle precedenti e forse meno delle prossime, Pechino, 2008, quando una nazione darà sfoggio di un benessere apparente come l’oro delle sue medaglie, sempre più patacche, e non solo perché di oro sono solo laccate.

Il mercantilismo correrà sempre più veloce e il doping, ne stiano certi quei soloni predicatori, saprà stargli accanto.

A. Z.