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…continua il trionfo dello SPORT.



“Heri dicebamus”.


Nel precedente articolo sui giochi olimpici abbiamo formulato un pronostico pessimistico circa il futuro della manifestazione più alta dello sport mondiale: ebbene, ci siamo sbagliati! Dopo aver ammirato sui teleschermi le varie discipline sportive nelle quali si è cimentata la più esaltante rappresentativa agonistica dei cinque continenti, non possiamo non esprimere commozione e partecipazione ad uno dei momenti più felici dell’intera umanità.

Ogni prova sportiva, dalla più statica alla più dinamica, dalla più aerea alla più possente, è significazione di una sublimazione della corporeità che spesso irride alle leggi della fisica, ma è, pure, conferma dell’unità inscindibile della psicofisicità.


Abbiamo visto atleti, sia maschi che donne, sfidare persino l’eleganza del delfino nelle gare di nuoto; pallavolisti e cestisti dimostrare come le valutazioni della logica si siano espresse in atteggiamenti così subitanei da concretizzarsi in millesimi di secondo, arcieri e tiratori di carabina assumere posizioni statuarie e manifestare la concentrazione del pensiero, quasi a sospendere per un attimo persino le grandi funzioni del corpo, e così via in tutti gli altri sport come equitazione e scherma, salti e lanci, evoluzioni ai vari attrezzi dove l’atleta sfida le leggi inesorabili della gravità !

Or dunque, lo sport, nella sua spettacolarità olimpica, continua a scandire il progresso della civiltà umana, la fratellanza dei popoli, il rifiuto della barbarie e l’inno alla pace ed alla gioia che il grande Beethoven ha reso nelle note sublimi della sua nona sinfonia.

E mentre lo spettacolo si chiude nel fasto della cerimonia finale, ci piace rendere un significativo omaggio alle due gare più simboliche ( almeno per chi scrive ) che caratterizzano questa festa universale: la corsa più breve e la corsa più lunga ; i Cento Metri Piani e la Maratona.



La prima viene classificata come corsa di scatto, la cui distanza si svolge in un tempo dove al centometrista è consentita una sola inspirazione, ma quando ancora è accovacciato sui blocchi di partenza; poi, non può disturbarsi nemmeno con il respiro; e corre nello spasimo supremo di un confronto che dura appena una manciata di secondi. C’è, in questa gara, una sacralità tibetana, un preambolo di predisposizione che, come un crescendo sinfonico rossiniano, inizia dal posizionarsi sui rispettivi blocchi di partenza, quasi a scrollarsi ogni superflua materialità, con quello scalciare delle gambe e con le braccia che sembrano muoversi come ipotetiche bracciate di nuotatori; poi, l’invito secco dello starter a “rannicchiarsi” sui rispettivi posti, ed ognuno si contrae sui blocchi in una posizione innaturale, che comprime, il più possibile, gambe, braccia, addome torace e testa, mentre le orecchie sono tese a percepire l’indice dello starter che accarezza il grilletto della pistola nel momento dello sparo liberatorio; lo stadio tace, anche il pubblico trattiene il respiro – si sono verificati casi di centometristi che sono schizzati fuori dai blocchi al semplice colpo di tosse di uno spettatore – ed ognuno degli atleti aspetta il colpo che lo libererà dall’angoscia dell’attesa, resa ancora più sofferente dall’innaturale posizione; perché questo tipo di partenza non è stato intuito solo come molla compressa per una migliore accelerazione progressiva, ma per rendere psicologicamente più disagevole i secondi che precedono lo scatto; e…via! alla conquista di un traguardo che, per la sua prossimità, sembra lontano, confuso nella rarefazione dell’aria surriscaldata, mentre il cuore, in tumulto nel petto, è chiamato ad uno dei massimi sforzi di pompaggio; i moderni mezzi di ripresa televisiva ci mostrano gli atleti il cui volto, contraffatto dallo spasimo, cede alla gioia del primo ed alla mestizia di tutti gli altri, perché questa gara, più di ogni altra, considera solo il primo:..tutti gli altri sono secondi..!



La Maratona, invece, ha una solennità che si origina dall’eroismo di pochi, in un tempo remotissimo, circa il 490 a. C., perché, da quell’evento, abbiamo appreso l’amore di patria ed il morire per essa e per la sua libertà.

Parlo della vittoria dei 9000 ateniesi e dei 1000 plateesi che sacrificarono la loro vita per la libertà della Grecia contro la cupidigia degli orientali, la barbarie della prepotenza e di chi considera il numero come potenza. Al termine della battaglia, sul campo a cantare il peana della vittoria, rimasero circa duecento superstiti, e fra questi, l’oplita Filippide che, senza frapporre indugi, armato com’era di corazza, scudo e lancia percorse i 40 chilometri che separano, ancora oggi, Maratona da Atene, per sollevare, dal terrore della conquista persiana, l’angoscia dei vecchi, delle donne e dei bambini che, con animo trepidante, scrutavano l’orizzonte, dall’alto dell’Acropoli, più certi di vedere comparire i Persiani che non i propri eroi; e Filippide, stremato dalla battaglia e dalla corsa, giunto sulla piazza di Atene ebbe ancora la forza di gridare, con l’ultimo briciolo di respiro: “NIKE”(VITTORIA), prima di stramazzare, morto, tra i suoi concittadini.

Ecco perché la Maratona chiude, sempre, tutte le manifestazioni olimpiche, a questa alta significazione di vitalità è dato l’onore di continuare a lanciare l’urlo della vittoria sulla tirannide, nel simbolismo della fiaccola della fratellanza affidata ai futuri organizzatori e che preannuncia la successiva Olimpiade.

All’impresa di questo eroe, al suo coraggio, al suo amor di patria è dedicata la corsa atletica più lunga del mondo; Atene ha consacrato, in un unico tumulo, quegli eroi, nella piana di Maratona, mentre lo Sport – quello alieno da ogni mistificazione chimica, quello che non si vende né per denaro, né per prebende, né per lauti ingaggi – continua ad eternare, nei propri agoni, questo l’inno della giovinezza, del coraggio e della solidarietà.

Un’ultima notazione: simpaticamente commovente è il rito della premiazione in questa 28.ma Olimpiade: quello di incoronare i vincitori con una corona di ulivo; al tempo delle Olimpiadi antiche, i vincitori erano cinti con una corona d’alloro, simbolo della divinità delfica, Apollo, perché l’alloro incoronava eroi e poeti, ed il loro capo veniva cinto dalle mani di un fanciullo, puro ed innocente, figlio di genitori greci viventi; oggi, è più giusto cingere il capo dei vincitori con il serto di ulivo che sta a simboleggiare non solo la fratellanza tra i popoli, ma a significare che vincere ad Olimpia è vincere la superbia.

Ah!…dimenticavo.

L’ultima medaglia d’oro, la più prestigiosa, quella che viene assegnata al vincitore della Maratona, in questa 28.ma Olimpiade è stata vinta dal nostro Stefano “Filippide” Baldini; e che gioia risentire il nostro inno nazionale! Che, poi, è un peana di vittoria; altro che il “Va pensiero …”, mesto coro di schiavi che si addice ai vinti e…ai Padani.

Giuseppe Chiaia (preside)