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Un racconto, dei rimpianti, le speranze…dal pianeta Poggi Longostrevi


 

Una vita difficile – 17° puntata. ©

il mio rapporto col prof. Giuseppe Poggi Longostrevi è, come credo sia già emerso nelle puntate precedenti, sempre stato caratterizzato da una grande, incolmabile distanza psicologica, umana e culturale: diciamo in sintesi che più che un padre (nella corrente accezione del termine) è sempre stato per me una specie di zio o di fratello maggiore.

Io e mia sorella siamo cresciuti e abbiamo sempre vissuto con mia madre (che si separò da mio padre quando io avevo si e no 7 anni) che veniva da una famiglia di mentalità perbenista e borghese ove si viveva rispettando rigidissime regole comportamentali discendenti da precetti etici e morali che assurgevano al rango di veri e propri dogmi, non suscettibili quindi della benché minima possibilità di critica; si trattava di una famiglia all’antica, di stampo ottocentesco, una vera famiglia patriarcale dove mio nonno (il padre di mia madre) era, voleva e doveva essere fin dal primo istante in cui metteva piede in casa non rispettato ma ossequiato, riverito, temuto e fin quasi adulato come una sorta di capotribù, di semidio, di somme, suprema e indiscutibile autorità: ogni sua parola era legge e bastava un suo sguardo, una sua occhiata per produrre in chi ne era oggetto uno sconvolgimento profondo che spesso sconfinava anche in vero e proprio panico…

Mia madre, tanto per offrire un esempio assai emblematico, mi raccontò di come abbia dovuto per un certo periodo per imparare, duranti i pranzi e le cene che rappresentavano l’unico vero e irrinunciabile momento di aggregazione della numerosa famiglia, a non cadere più nella “volgarissima”, sgarbata e abitudine di appoggiare i gomiti sul tavolo, consumare i pasti con un bel paio di uova fresche e intere adagiate sotto le ascelle….

Tutto in quell’enorme appartamento nel centro di Milano ove mia madre crebbe e visse per quasi trent’anni era ispirato, conformato, impostato e organizzato in funzione della mentalità e dello stile di mio nonno Mario, Il capo famiglia, un uomo molto all’antica che si era fatto da sé e che aveva sempre preso la vita come un dovere, un lavoro che andava svolto con la massima serietà e lui ce ne ha sempre messa in tutto ciò che ha fatto anche troppa….

L’arredamento era costituito da pezzi d’antiquariato assai pregiati, gli enormi saloni che componevano la parte “padronale” dell’appartamento (c’era un’apposita ala dello stesso composta da tre stanze più servizi destinata alla “servitù”) sembravano una replica della reggia di Versailles, tappeti persiani, arazzi di finissima fattura, lampadari magnificenti di cristallo e soprammobili di inestimabile valore, l’ombra inviolabile che regnava nei lunghi corridoi conferivano all’ambiente un’atmosfera aulica, regale, austera e il tutto incuteva nell’osservatore (o anche nel visitatore più sicuro di sé) quasi un senso di soggezione se non proprio addirittura di smarrimento.

Pur avendo nonno Mario creato con un modesto capitale iniziale una fortuna di proporzioni davvero notevoli, vigevano all’interno della sua casa le più severe, spartane e sparagnine regole di economia domestica, a pranzo ad esempio non esisteva che qualcuno si permettesse di lasciare qualcosa nel piatto perchè se succedeva se lo ritrovava bello pronto e riscaldato come cena…

Buona parte dei vestiti dell’infanzia di mia madre (che era la più piccola di tre sorelle), tanto per fare un altro esempio, venivano ricavati adattando quelli smessi usati in precedenza dalle sorelle maggiori…

Serbo nella mia memoria tutt’oggi il ricordo a dir poco ansiogeno delle poche settimane che trascorsi subito dopo la separazione dei miei genitori in quella casa: credo che in un collegio svizzero tedesco di suore si respiri un’atmosfera più leggera…

Credo che la grande, invincibile oppressione e angoscia che suscitava quella casa fosse una dei motivi per i quali mia madre alla prima occasione se ne affrancò totalmente sposandosi con questo giovane medico di belle speranze, conosciuto tramite inserzione, dopo un breve e assai poco significativo, rivelatore e “probante” fidanzamento.

Era infatti del tutto chiaro che cresciuta in siffatta famiglia e condizione mia mamma non aveva di certo potuto avere una vita sociale “normale”: all’età di 24 anni, come spesso mi racconta ancor oggi lei, per essere rincasata a mezzanotte e mezza e quindi mezz’ora dopo l’orario pattuito, il padre le ha riempito la faccia di sonori (e presumo, dolorosissimi) schiaffoni.

Avendo quindi sempre vissuto una vita morigerata e ritirata ed essendo ormai vivo in lei il desiderio di abbandonare la casa genitoriale, qualcuno in famiglia (non ho mai capito esattamente chi) ebbe la brillante trovata di affidarsi allo strumento dell’inserzione e così si rivolsero al “Cenacolo” la rivista di inserzioni matrimoniali fondata e diretta da mia nonna paterna in collaborazione col figlio Giancarlo; i due ben lungi, una volta appresi i connotati e gli attributi (soprattutto socio – economici) della pretendente, dal lasciarsi scappare un’occasione simile, invece che gettare la sua “candidatura” (di mia madre) sul mercato, come fosse un’inserzionista qualsiasi, si fecero brillare gli occhi e folgorare dalla lampadina geniale che gli si accese in testa: perchè non proporla in moglie a papà (rispettivamente figlio e fratello dei direttori della rivista)?

Mai a quest’ultimo si sarebbe più ripresentata un occasione simile, pensarono infatti i due…Una donna giovane, bella (lo dico senza partigianeria mia madre da giovane era davvero una bella donna), di buona famiglia e con cotale e cotanta dote, quando mai più gli sarebbe potuta capitare….

Mia nonna rimasta vedova durante la grande guerra e con due figli da sfamare aveva conosciuto se non proprio la miseria almeno grandi e gravi ristrettezze tanto che (come ho già raccontato in altre puntate) fu costretta a mettere a reddito persino parte della casa in cui viveva, facendo l’affittacamere e così non le sembrava vero di poter garantire al figlio attraverso il matrimonio con mia madre un futuro prospero e alieno da privazioni.

Fu così combinato in un battibaleno un primo incontro conoscitivo che a dire il vero non andò benissimo, nel senso che entrambi non avvertirono di primo acchito, a livello epidermico (almeno stando ai racconti di mia madre) una grande attrazione fisica reciproca e nemmeno il feeling, a livello mentale e caratteriale era al top, ma si trattava solo di quisquilie…ogni impedimento venne infatti superato dalla prorompente convinzione delle famiglie che ormai avevano deciso: quel matrimonio s’aveva da fare.

E infatti si fece subito dopo.

Correva l’anno 1969.Mio padre tuttavia soffriva di un problema che era fonte per lui di non poca frustrazione e malessere impotenza. Non so se di origine psichica o organica fatto sta mia madre tornò dalla luna di miele (crociera sul Nilo) pura e illibata come era partita…

Proprio a causa di questo piccolo “problemino” paterno i miei decisero, non so su consiglio di quale folle e spregiudicato legale (anzi lo so ma preferisco tacerne il nome) decisero di sottoscrivere una carta prematrimoniale che stabiliva non so dire con quali formule, clausole, e strutture che si poteva sciogliere il matrimonio se mio padre non avesse superato la sua pressoché totale impotenza; fu proprio ripescando in qualche suo archivio polveroso questo documento, che divenne un jolly, un asso nella manica da sfruttare per ottenere quando già stava con la sua giovanissima nuova partner l’annullamento del matrimonio presso la Sacra Rota e potersi così risposare con quest’ultima in chiesa come se niente fosse…

In mezzo a tutto questo casino c’erano anche due figli (lo scrivente e mia sorella Valeria) ma come ripeteva sempre papà l’importante nella vita è sempre guardare avanti…

L’individuo del resto non va considerato come il prodotto di se stesso ma come la risultante di una serie di input educazionali, culturali, ambientali, sociali e oltretutto papà da medico e uomo di scienza che credeva fermamente nel DNA, nella genetica, nella familiarità delle patologie, sapeva di essere a livello psichico (visti i gravi e numerosi precedenti familiari) segnato, inquinato da un grave e profondo disagio, deficit che andava costantemente monitorato e corretto farmacologicamente.

A riprova della sua stranezza che si palesò sin dai primissimi anni di età mio padre mi raccontò che mentre vedeva sua madre strapparsi i capelli e urlare dal dolore e dalla disperazione per aver appena appreso dalla lettura del telegramma che aveva in mano della morte del marito in guerra, lui fu colto da una crisi di fragorosa quanto incontrollabile ed isterica ilarità che lo costrinse a nascondersi scappando fuori in giardino…

Dopo la separazione da mia madre, gli elettroshock, le cliniche, gli psicofarmaci poi la sua regola era non avere regole e quando veniva a trovare me e mia sorella portandoci con lui la domenica o in qualche altro fugace momento “ludico” che si concedeva strappandolo alla frenesia implacabile del suo lavoro, avevamo quasi l’impressione che quel tempo che passava in nostra compagnia (oltre che con altri medici e amici vari perchè non era certo per noi possibile ottenere una dedizione del suo tempo unicamente a noi) serviva più a se stesso per mettersi a posto la coscienza di simil-padre che altro…

Una volte mentre parlava con un suo caro amico di Verona, tale B.P., un disegnatore -caricaturista-umorista che si era conquistato una discreta popolarità locale grazie ad alcune apparizioni televisive (e stiamo parlando degli anni post ’78 ovviamente) che lui teorizzava e voleva che raggiungere, paradossalmente, nel rapporto con questi due fanciulli (me e mia sorella) che aveva accanto sporadicamente un’educazione non discendente (da genitore a figlio) ma ascendente (da figlio a genitore)….

Lascio ovviamente al lettore ogni commento…

Per me mio padre, anche dai toni, dal livello e dal tenore dei nostri dialoghi e delle reciproche confessioni è stato quasi esclusivamente un amico, un amico più grande, un punto di riferimento che si è mantenuto costante nella mia vita per quasi 30 anni, fino al giorno della sua tragica scomparsa avvenuta in data 12 settembre 2000.

Sapevo che il suo motto era il non giudicare mai e sapevo di poter parlare con lui liberamente, di tutto, sapevo che lui si riferiva a me nella stessa identica maniera in cui io mi riferivo a lui e quando parlavamo non esisteva alcuna autorità o vincolo gerarchico, né moralismo, né sovrastruttura: lui sapeva di non potersi rapportare a me come un padre nel senso di educatore o impositore di precetti e io sapevo di avere di fronte a me una persona intelligente, sensibile e che voleva ragionare con me sulle cose della vita, senza pretendere di insegnare nulla, anzi spesso ( in questo davvero ritengo che risieda la sua grandezza) con lo spirito dello scolaro che vuole mettere la sua intelligenza e la sua coscienza in discussione per arricchirla nell’interazione e nel confronto con me con totale ed incondizionata umiltà.

17 – CONTINUA