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Mio padre “sembrava…stesse sempre scappando da qualcosa…che gli faceva paura più del diavolo“. Dal pianeta Longostrevi considerazioni sulle code e sul caffè.




Una vita difficile – 15 puntata. ©

Per una persona con la personalità come quella di mio padre non poteva esistere la parola ozio. Dal 1978 in poi la sua vita vissuta, anzi stravissuta, alla massima potenza, intensità e velocità possibile era stata caratterizzata da un dinamismo inarrestabile, da un impeto furioso, da una frenesia sconvolgente: dalla mattina alle 8 fino a notte inoltrata sembrava era un treno super-rapido, una macchina schiacciasassi che procedeva sgretolando tutto ciò che capitava sul suo cammino.

Un esempio? Le code. Mio padre non le tollerava, la sua idea era: le code sono fatte per la povera gente, per i pezzenti…

Era chiaro anzi chiarissimo che a monte di un approccio del genere alla vita risiedeva una mente gravemente segnata da una forte (in qualunque connotazione e modo si voglia definire tale termine) patologia.

Sembrava un fuggitivo, un evaso, era come se stesse sempre scappando da qualcosa… Dentro di lui c’era qualcosa che gli faceva una paura del diavolo.

La sua iperattività infatti non era spiegabile in alcun modo se non in funzione del terrore pazzesco che avvertiva di fronte all’idea del vuoto, della solitudine, del ritrovarsi solo con se stesso e l’assenza di qualcosa, qualsiasi cosa che assorbisse e impegnasse totalmente le sue energie mentali era per lui decisamente, assolutamente insopportabile.

L’idea per esempio di non riuscire a dormire una volta sotto le lenzuola e dover quindi rimanere nel silenzioso e strettissimo contatto con i suoi pensieri lo riempiva di una paura enorme, tremenda, sconfinata, ed è per questo che ovunque fossimo, anche in capo al mondo papà aveva sempre con se il suo necesser delle medicine, con le pillole per dormire, sedativi e ipnotici potentissimi, delle vare bombe atomiche che avrebbero steso anche un cavallo..

La mattina poi quando suonava la sveglia, per rimettere in efficienza la mente si faceva un’intera caffettiera, una moka di quelle formato famiglia…

Papà amava moltissimo il caffè, soleva prepararselo da solo, era infatti il primo in casa ad alzarsi dal letto e a scendere in cucina al piano inferiore. Anche perché solo lui sapeva prepararselo come piaceva veramente a lui; la verità è infatti (e credo che non sia un concetto prerogativa solo dei napoletani) che per fare un buon caffè non basta inserire nella caffettiera con precisione le giuste dosi di acqua e polvere di caffè: ci vuole anche (e soprattutto) anima e cuore.

Ogni occasione era buona per papà per bere un caffè, ma preferiva di gran lunga quello casalingo della moka a quello del bar, anche se non ho mai capito il perché.

Quando stava sveglio fino a notte fonda a scrivere o a studiare si preparava una bella caffettiera intera, credo che i pochi minuti che impiegava nell’operazione che svolgeva sempre con somma cura fossero gli unici veri momenti di quiete e forse anche di riposo della sua intera giornata.

Era chiaro che una vita condotta in siffatta maniera, tutta maniacalmente incentrata sull’ossessione frenetica del lavoro, del successo e del denaro non ammetteva pause o distrazioni. Papà “investiva” l’80% del suo tempo quotidiano di veglia nel lavoro, e il restante 20% era dedicato ai cd “svaghi”, come ad es. andare al cinema (vedeva in media 3-4 film a settimana) che non erano certo come momenti ludici fini a se stessi, ma solo occasioni strumentali al suo unico, vero scopo e che quindi servivano solo a consentirgli di “ricaricare al meglio le batterie”, per essere poi di nuovo superpimpante al lavoro, sua unica vera ragione di vita.

Ma da cosa scappava? Cosa c’era dentro di lui che lo spaventava tanto e che gli suggeriva anzi, per dirla meglio, che gli imponeva categoricamente di fare sempre qualcosa, qualsiasi cosa, senza fermarsi mai, vietandosi rigorosamente ogni momento di autoanalisi, di introspezione, di pacata riflessione e confronto con se stesso?

La risposta è semplice: quel baratro mostruoso post-separazione (da mia madre) del ’78.

Almeno così ho creduto di intendere e capire io, avendo passato moltissime ore (soprattutto nei periodi di vacanza, unico momento di possibile vero incontro con lui) a cercare di ragionare insieme a lui oltre che delle problematiche di tutti i giorni anche di questioni più profonde: del bene e del male, della vita, della morte, del futuro e delle consuete ricorrenti e irrisolvibili domande dell’uomo.

Dal punto di vista di papà, l’equazione vita si risolveva assai semplicemente, il suo pensiero, prescindendo da qualsiasi giudizio di valore o valutazione etico-morale e quindi anche da qualsiasi eventuale qualificazione filosofica (non sono abbastanza erudito in materia per riuscire a dare un nome all’idea della vita di papà, ammesso che ne esista uno) era, se proprio ci si vuole sforzare di trovargli qualche riferimento un misto di edonismo, materialismo, pragmatismo e nichilismo, il tutto su base rigorosamente empirica: le uniche certezze che lo animavano erano quelle derivanti dal suo vissuto passato.

Il ragionamento che indirizzava il suo atteggiamento verso la vita era molto semplice: la vita è una successione di attimi che si ripetono periodicamente giorno dopo giorno, per stare bene quindi basta capire che cosa ti fa star bene fare (analizzando le esperienze passate) e organizzarsi le giornate impostando all’interno delle stesse il giusto mix di elementi generatori di benessere.

In questo papà aveva un’impostazione scientifica, rigorosa, applicava alla sua vita un metodo, il suo metodo, giusto o sbagliato, morale o amorale non gli interessava minimamente: lui sapeva cosa doveva caratterizzare la sua giornata-tipo e quindi la sua vita per stare bene e non era disposto a rinunciare alle sue scelte per nessuna ragione al mondo.

Da uomo di scienza e medico qual era sapeva che l’attività fisica, lo sport favorisce enormemente, se praticato in modo corretto e continuo, il benessere e la qualità della vita: ricordo che una volta mi fece una lezione molto dotta e saccente sull’enorme potere delle cd “endorfine” e sugli incredibili benefici psichici che possano derivare alla persona grazie ad una discreta e continua attività sportiva.

Papà infatti andava a correre quasi tutti i giorni, aveva il suo personal trainer, lo stesso da vent’anni, fedelissimo e ormai col tempo s’era creato fra loro un rapporto di totale e incondizionata fiducia, amicizia, complicità, nel senso più profondo del termine, Piero era ormai divenuto per papà un confidente spirituale oltre che un irrinunciabile e preziosissimo punto di riferimento: tra i tanti mutamenti della vita, l’unico vero punto fermo sopravvissuto a tutto negli anni.

Tra i pochissimi intimi intervenuti al funerale di papà credo che nessuno meglio e più di Piero comunicasse un’espressione di sincera e comunque composta sofferenza, dolore e travaglio interiore forse anche acuito, oltre che dalle modalità tragiche della sua morte (volontaria), anche dal ritrovarsi di fronte alle esequie di un uomo che ha conosciuto potente, ricco, invidiato, adulato, corteggiato e quasi adorato come un vero dio da molti (la sua folta schiera di cortigiani) e adesso si trovava a lasciare questo mondo con intorno quattro gatti (praticamente i soli familiari più stretti) con una cerimonia sbrigativa celebrata in una chiesa di un paese di periferia da uno pressochè sconosciuto (vice del vice parroco) prete di colore che si esprime molto a stento in italiano.

Per come la pensava papà sulla chiesa, sui preti e sulle gerarchie ecclesiastiche credo che in fondo (se avesse potuto scegliere) gli sarebbe piaciuto proprio così…

Credo che quel religioso fosse brasiliano, almeno a giudicare dall’accento e mi è apparso anche che vivesse la cerimonia con sincero pathos e intensa partecipazione emotiva anche se, se devo essere sincero a causa dell’accento e della molto approssimativa sua conoscenza dell’italiano non ho praticamente capito una parola di ciò che ha detto…

Ricordo poco di quel giorno ma non potrò mai dimenticare il senso di infinita miseria morale e di totale scoramento interiore che ho provato nel venire subito fuori dalla chiesa avvicinato da un uomo (un giornalista di una testata locale) con un registratore acceso che voleva raccogliere una mia dichiarazione…

La mia risposta (che ovviamente non ha trovato spazio sul giornale per il quale lavorava quel baldo giovanotto) è stata la seguente: sono troppo educato per dirle cosa penso di lei…

Ma ho certamente sbagliato ad essere così brusco e telegrafico avrei forse dovuto raccogliere ben bene le idee e improvvisare un comizio parlando di omicidio di Stato, di pena capitale, di agnello sacrificale e via dicendo….

Si tratta ovviamente solo di una provocazione. E’ del tutto ovvio che uno in certi momenti non ha assolutamente voglia di parlare e poi, per chi scrive la convinzione e la speranza di migliorare qualcosa attraverso l’esternazione del proprio pensiero e la diffusione delle proprie idee (anche solo nella forma di umili spunti di riflessione) l’ha persa decisamente da tempo.

Più passa il tempo e più mi accorgo che le cose che diceva papà non sono poi così lontane dalla realtà, mi riferisco alla sua definizione dell’Italia e del popolo italiano che è fatto nella quasi totalità da una massa di “pecoroni, ubbidienti, conformisti, vigliacchi, pavidi e vili”: la vita mi ha insegnato e purtroppo ne ho avuto inoppugnabile dimostrazione soprattutto negli anni del recente passato che nessuno, proprio nessuno nemmeno i più amici fra gli amici è disposto ad esporsi rischiando di suo per te, hanno tutti paura di uscire dal loro tranquillo anonimato, hanno paura anche solo di abbracciare un’idea impopolare (anche se magari la sentono propria e vera), perchè temono ergendosi fuori dal coro delle convenzioni e del conformismo di poter perdere i privilegi, i benefici, i vantaggi di una vita che tutto sommato sarà anche omologata finchè si vuole ma in fondo ti dà sempre i suoi piaceri e i suoi bei vantaggi…E nessuno, proprio nessuno, è disposto a rischiare di perdere il proprio benessere, i propri vantaggi, la roccaforte di privilegi di cui gode col suo anonimo e quieto vivere: credo che questo sia uno dei principali motivi per i quali abbiamo avuto 40 anni di democrazia cristiana…

Quando ho accettato di parlare tampinato da qualche giornalista, l’ho fatto perchè vivevo ancora nella ingenua e puerile convinzione di potere contribuire ad indurre con i miei germi o embrioni di idee e di messaggi animati da un profondo desiderio di “controinformazione” rispetto ai copiosissimi fiumi di inchiostro che si sono riversati sulla vicenda giudiziaria e umana della mia famiglia, ho quasi sempre sbagliato perchè mi illudevo di avere a che a fare con essere umani e che servisse a qualche cosa parlare…Tentare di stimolare nelle persone raggiunte dai media sui quali sono intervenuto una riflessione, desideravo nella mia infinita modestia ed umiltà di potere comunque indurre in qualcuno un ripensamento dei fatti, credevo di potere stimolare nelle persone (mi piace di più parlare di “persone” che di “gente”) una diversa chiave di lettura di tutto ciò che è accaduto a mio padre e quindi di riflesso anche a me che ne porto il nome (che fra l’altra è un doppio cognome e non è certo dei più comuni), molti fra quanti mi conoscono e mi frequentano mi hanno da sempre consigliato di sforzarmi di dimenticare, di voltare pagina, di non pensarci più, alcuni addirittura mi hanno suggerito di emigrare, altri di presentare un’istanza in qualche tribunale per chiedere il cambio di cognome o almeno la rimozione del secondo che è quello forse più noto e caratterizzante….

E’ davvero pazzesco come ragiona la gente… Mi riferisco anche a parenti stretti, persone care, da parte di mia madre che hanno cercato (credendo ovviamente di fare il mio bene) seriamente di incoraggiarmi ad avviare le pratiche per il cambio di cognome….Che tristezza a pensarci…

Non voglio sembrare un grande uomo o un super-eroe ma non riuscirei a guardarmi in faccia allo specchio e a provare ancora un minimo di rispetto per me stesso se facessi una cosa del genere…

E credo, per non dover offendere l’intelligenza e la sensibilità del lettore, di non dovere certo spiegare il perchè.

A dimenticare e a guardare oltre a dire il vero ci ho davvero seriamente provato e con tutte le mie forze ma non ci sono riuscito. Di fronte a me e non lo dico per vile vittimismo ho trovato un muro, un muro enorme, impenetrabile. Quando mio padre venne arrestato ero al penultimo anno di università e non è stato facile trovare la forza e gli stimoli di fronte a quello che era accaduto e stava accadendo per concentrarmi sui libri e terminare gli studi. Ci ho messo un po’ di tempo ma alla fine con uno sforzo veramente notevole ci sono riuscito e mi sono anche laureato discretamente, con una votazione assai superiore a quella di alcuni miei conoscenti e compagni di studi che non vorrei apparire troppo presuntuoso ma (aldilà del voto di laurea che può anche essere indicativo solo fino a un certo punto) ritengo assai meno preparati di me, e lavorano tutti praticamente dal giorno dopo la laurea, tramite il rinomatissimo ufficio placement della mia altrettanto rinomatissima università, con posizioni che giudico di grande prestigio per delle multinazionali, mentre a me in tre anni mi ha chiamato solo una società che voleva farmi fare il promotore finanziario…

Lascio al lettore ogni commento.

Per fortuna nella sua quarantennale attività lavorativa papà ha creato anche qualcosa destinato a durare nel tempo, ha creato delle aziende sanitarie, tuttora ne sono sopravvissute quattro, le altre società del gruppo creato da papà che forse sarebbe un po’ presuntuoso definire vasto e diversificato (anche se al suo interno c’era anche una società di aerotaxi) purtroppo hanno chiuso i battenti non per arbitrario e quindi personale discernimento dell’amministratore giudiziario (che fra l’altro è un luminare dell’università ove mi sono laureato io, avendo anche, ironia della sorte, ben prima di fare la sua conoscenza come tecnico nominato dal tribunale, studiato su testi scritti in parte da lui) come in un primo momento fui portato erroneamente a ritenere io ma solo perchè per usare un esempio che mi deriva da papà-medico, quando ci si trova di fronte a una persona che ha una gamba in cancrena, se si vuole salvarlo si amputa senza indugio la gamba e basta senza tante discussioni.

Ero molto giovane e anche incosciente, scrissi infatti un’accesissima, furibonda(oggi col senno di poi non mi è difficile aggiungere anche “delirante” lettera di sfogo all’on.Vittorio Sgarbi (che fra l’altro ebbe il buon cuore e la premura di interessarsi personalmente della vicenda, a dispetto della totale indifferenza di molti altri, chiamandomi al recapito che avevo indicato nelle lettera: non ero a Milano così trovai la sua voce registrata sulla segreteria di casa al mio rientro quando ormai al recapito di Roma al quale mi aveva detto di richiamarlo l’on.Sgarbi non c’era più nessuno..)

Chiudo come sempre con una citazione, una frase dell’ateniese Solone “le leggi sono come le ragnatele le mosche piccole ci rimangono impigliate mentre quelle grosse le sfondano”

15 – continua –