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Riprendono gli “impervi” racconti dal Pianeta Longostrevi.




Una vita difficile – 14° puntata. (c)

Mi scuso innanzitutto con il lettore per aver latitato ingiustificatamente la scorsa settimana mancando all’abituale appuntamento della pubblicazione di una nuova puntata del mio racconto: Vi ringrazio di cuore di esserci ancora e vi prometto (per quel poco o molto, chissà, che vi potrà interessare), che non accadrà mai più.

Vorrei riprendere il racconto dai giorni che seguirono la scarcerazione del mio esecratissimo e compianto (da me e da pochi altri) padre, il re-mida della sanità privata milanese e (perché no) italiana: il prof. Giuseppe Poggi Longostrevi .

La villetta di tre piani (4 con la cantina) a due passi dal centro storico di Milano ove mio padre venne relegato a causa degli arresti domiciliari era in quel periodo in fase di ristrutturazione ed essendo papà stato tratto in arresto proprio nel bel mezzo dei lavori, ed essendosi questi proprio a causa di tale funesto quanto inaspettato accadimento interrottisi proprio nella fase di riallestimento della casa, mio padre, quando finalmente rivide dopo due mesi tondi tondi passati al centro clinico del carcere di Opera le mura “amiche” (che non lo erano più lo scoprì dopo…) si trovò a dover vivere in un luogo molto più simile a un cantiere che ad un’abitazione di un cristiano (come ho già riferito in precedenza, la casa era sprovvista anche di cucina e riscaldamento), l’unica parte “agibile” della casa era la mansarda, che non era stata interessata, se non in modo del tutto marginale, dai lavori: era lì quindi che papà si era rintanato e fatalmente si svolgeva, in quel periodo, tutta la vita della casa e quindi della “famiglia” (mai il virgolettato è stato più d’obbligo..).Quando andai a trovare mio padre per la prima volta, previa istanza ed autorizzazione del giudice, ricevetti dal maresciallo dei carabinieri di zona (ai quali era stato assegnato il compito di sorvegliare mio padre con almeno una visita al giorno presso la sua abitazione) l’ordine perentorio di non trattenermi all’interno dell’abitazione per più di due ore e di avvisare con una telefonata quando ero in procinto di abbandonare la stessa. Mio padre che soffriva enormemente la solitudine e ancor più la frustrazione derivante dalla convivenza forzata con moglie e suocera (che come detto si erano coalizzate contro il mio povero padre al quale addossavano tutte le colpe del mondo, anzi di più) mi impedì di tener fede alla parola data al maresciallo telefonicamente circa la mia pronta dipartita dalla casa trattenendomi, con suppliche e scongiuri umanamente difficilissimi se non impossibili (per me) da ignorare, all’interno dell’abitazione ben oltre l’orario pattuito coi carabinieri, obbligandomi a macchiarmi di una palla clamorosa visto che avevo già detto al telefono al maresciallo che me ne ero andato, spero si possa comprendere a fondo che si trattava in quel momento di un rapporto tra figlio e padre, quest’ultimo appena uscito di galera che mi implorava di restare, Voi cosa avreste fatto?

Era appena trascorso il giorno del mio compleanno (26 luglio, il giorno immediatamente successivo alla scarcerazione di mio padre), forse il più brutto compleanno della mia vita: ero a Milano, la città già semideserta, un caldo tropicale, da far girare la testa, senza il conforto di un amico (i pochi amici erano già tutti al mare) né della fidanzata (non potevo certo pretendere che rinunciasse alle ferie in Spagna già programmate da mesi per stare a milano a impazzire insieme a me nel tentativo di trovare il bandolo della matassa di una situazione più grande di noi, di fronte alle quale eravamo comunque del tutto impotenti, pur capendo bene tuttavia che gli sviluppi della stessa avrebbero segnato indelebilmente il corso della nostra, o almeno di certo della mia, vita futura).

A dire il vero poi non sono mai (o quasi mai) stato bene il giorno del mio compleanno: ho vivo nella memoria il momento dello spegnimento delle “candeline” della torta con le immagini dei vari anni che si sovrappongono fra loro in una grande sensazione di mestizia infinita; ho sempre avuto una specie di innata idiosincrasia per le feste comandate, l’idea di dover essere felice a comando mi aberra da matti, la frustrazione conseguente al non riuscirci quasi mai, il male involontario fatto moralmente a chi (tra chi ti sta vicino e vuole bene) si è adoperato con ogni mezzo per cercare di vederti, almeno in quel giorno, felice, allegro e spensierato…La mia ex ragazza che era molto credente voleva sempre in occasione del mio compleanno (ne ho passati 3 quasi 4 con lei) che pensassi all’anno che era appena trascorso e che adesso mi ritrovavo in più sul groppone come ad “un anno conquistato” (una summa di esperienze ed emozioni che ti rendono diverso) io invece ho sempre avuto la tendenza a considerarlo come un anno perso, un passo, un ulteriore passo, gigantesco verso la fine di quella strana, eccitante, avvilente, sconvolgente, magica esperienza che si chiama vita.

E’impressionante come gli anni durino un secolo quando sei uno sbarbato (teenager) mentre scorrano via velocissimi, quasi senza che tu possa percepire l’inesorabile incedere del tempo, dai vent’anni in su…

Ti sembra ieri che frequentavi il tuo primo giorno di lezioni all’università e a momenti ti ritrovi con moglie e figli o comunque con la vita (e quindi il tuo destino) già irreversibilmente segnata e proteso in una direzione che oramai sei troppo stanco, pavido e omologato per pensare solo lontanamente di modificare, non dico radicalmente ma neppure modestamente, in misura significativa.

Chi non vede nella vita un corollario delle proprie convinzioni, possibilmente ferree, sul trascendente, spesso si trova, è il caso dello scrivente a porsi le fatidiche, eterne domande: chi siamo? Perché viviamo? Da dove veniamo? Ecc. ecc.

Ognuno dà la risposta, la soluzione che crede e vuole all’arcano mistero costituito dall’equazione vita.

La bellezza della società e del mondo sta proprio nella vasta, variegata, spesso sconvolgente moltitudine di differenti (e quindi dotate di singolare unicità) risposte individuali che vengono formulate dalle persone a soluzione dell’equazione vita.

Ognuno con le azioni che caratterizzano la sua presenza nel mondo da quando esce di casa fresco fresco al mattino a quando si addormenta la sera mette in atto la propria politica, la propria filosofia, la propria risposta.

Mio padre sapeva che tale uguaglianza si verifica solo attribuendo un particolare valore all’incognita, valore che è diverso per ognuno di noi e che viene scelto in funzione di tantissime variabili alcune modificabili dal soggetto, altre imposte dal sistema; papà tuttavia attribuendo il valore che aveva sperimentato lui come congruo a tale uguaglianza (equazione vita) sbagliava e anche di grosso, ma quella era per lui l’unica, la sola risposta possibile.

Il tragico vissuto del passato con la rinascita, dopo indicibili travagli, realizzatasi solo grazie alle cliniche psichiatriche e ai vari cicli di elettroshock gli aveva fatto perdere anche quel poco di fede in Dio che gli derivava dalla sua formazione e lo aveva abituato a pensare a se stesso come ad una macchina che funziona secondo le leggi della meccanica quantistica (che la scienza solo in parte riesce a spiegare), la sua psiche, e quindi le scelte della sua vita dal ’78 in poi sarebbero state solo il frutto delle evidenze empiriche che aveva potuto assimilare, sperimentare e metabolizzare precedentemente: nel caos di un’esistenza ai limiti, incredibilmente scombussolata, che era riuscito in qualche modo a riacciuffare per i capelli, le sole certezze sulle quali poteva contare.

Come detto, aveva un’interpretazione del tutto personale della scienza neuropsichiatrica: leggeva i trattati, studiava la letteratura, intervistava i colleghi specialisti e poi si regolava in base all’idea che si era fatto da tutto questo e in base a quelli che riteneva dovessero essere i suoi bisogni (o meglio, desideri) psichici del momento (totalmente privo giocoforza, ovviamente, di spirito critico e di obiettività verso se stesso).

Ormai si era abituato a vedere se stesso, da un punto di vista psicofisico, come una specie di jukebox: metti il gettone, selezioni la canzone desiderata, e si aprono le danze…

Aveva infatti nel suo onnipresente necessaire da viaggio (una vera e propria minifarmacia) ogni tipo di sostanza psicoattiva o che dir si voglia psicotropa (eccezion fatta per quelle proibite verso la quali ha sempre avuto un rigetto istintivo e aprioristico): c’erano le pillole per regolare il tono dell’umore, gli antidepressivi, gli stabilizzatori, gli psicostimolanti (anfetaminici legali usati come anoressici) e poi ovviamente quando arrivava la sera per dormire si faceva ricorso all’altra tasca del suo necessaire dove stavano le pillole (che spingono al DOWN) dagli effetti opposti, ossia sedativi, ipnotici ecc.

Ed è questo punto che poi veniva il bello, si fa per dire…

Sorgeva infatti poi il problema dei cd vari “side-effects” (effetti collaterali) dei farmaci che impiegava per regolare a proprio piacimento il funzionamento della sua psiche, primo fra tutti la stipsi (stitichezza) e allora giù con altre pillole per stimolare le funzioni intestinali (si imbottiva di compresse di crusca e cercava di mangiare quasi sempre cibi ricchi di fibre, tipici dell’alimentazione macrobiotica che seguì fedelmente per un certo arco della sua vita), ipersudorazione, secchezza delle fauci (sono solo alcuni dei più comuni effetti collaterali che scatena l’uso quotidiano di antidepressivi) e quindi giù con altri farmaci per tentare di reprimere i disturbi derivanti dagli effetti collaterali dei primi farmaci: insomma più che una vita…un vero e proprio calvario di farmacomania…

Mio padre tuttavia non si sentiva affatto messo in croce da questa sua farmaco-dipendenza perché con l’esperienza era riuscito a sapere di volta in volta cosa autosomministrarsi per essere sempre al massimo, 18 ore al giorno, dalla mattina alla sera: chiunque senza conoscerlo lo avesse visto all’opera in una giornata lavorativa qualsiasi mentre passeggiava (a falcate da 1m l’una) freneticamente nel suo studio dettando lettere, impartendo ordini o escogitando qualche nuovo modo per fare soldi avrebbe messo la mano sul fuoco convinto di trovarsi di fronte ad una persona sotto l’effetto di dose massicce di cocaina…

Lui non si accontentava di vivere, (sapeva che con tutti quei farmaci la sua speranza di vita si era abbassata consistentemente ed era assai inferiore rispetto a quella di una persona sana), quindi voleva stravivere, sempre al massimo, sempre a 300 all’ora.

E’ per questo che papà adorava l’america, gli Stati uniti: ci saremo stati almeno 5-6 volte insieme, senza contare tutte le volte che ci andava per conto suo…

Papà era convinto che gli Stati Uniti fossero il paese ideale per uno come lui.

Riconosceva alla democrazia e alle libertà della società statunitense (aldilà degli enfatici proclami dell’american-dream che rimaneva una bellissima enunciazione teorica e basta) il pregio della meritocrazia: diceva sempre infatti che mentre in Italia si va avanti solo a raccomandazioni, nepotismi baronali e, mi si passi il termine, “paraculismi” vari senza i quali non arrivi mai da nessuna parte, negli States al contrario chi ha veramente le qualità e le capacità ha davvero una chance concreta di emergere e diventare qualcuno.

Le critiche che venivano (e ancor oggi vengono) rivolte al modello americano accusato di totale sudditanza al più gretto, smargiasso e becero dio denaro, di spietata ricerca in ogni campo e settore dell’efficienza, della produttività e dell’economicità con scarsa o nulla protezione sociale ossia attenzione per i bisogni delle fasce più deboli: le fede totale quasi calvinista della ricchezza e del potere reddituale come indicatori della rispettabilità e del prestigio sociale della persona se non appunto addirittura come sintomo della grazia divina.

Mio padre adorava in particolare le metropoli statunitensi, San Francisco, Los Angeles e ancor più la grande mela, New York, l’Italia, invece, con la sua paralizzante e vetusta burocrazia, con la sua fisiologica, strutturale inefficienza e lentezza che si palesa ci colpisce inesorabilmente ogni volta che si ha a che fare con la P.A., ci stritola con il suo impianto normativo mastodontico, a tratti preistorico, abnorme, che ti impedisce qualsiasi intraprendenza, iniziativa ed impresa economica queste ultime fatalmente stritolate, soffocate, inibite, represse sul nascere dalle decine di migliaia di leggi, leggine, regolamenti, codici e codicilli vari con i quali dal dopoguerra ad oggi si è scontrato in Italia il buonsenso e lo spirito di intima giustizia, equità e pace del cittadino.

Mio padre parlava Inglese davvero molto bene anche se, ogni tanto, incappava in qualche svarione grammaticale riusciva sempre a farsi comprendere appieno dall’interlocutore, apprezzava anche molto, anzi diciamo che adorava, la lingua Inglese in sé e per sé, per la sua snella, pragmatica, efficiente, sintetica e diretta forma e struttura, per la sua ricchezza di espressioni ad effetto e di frasi idiomatiche, per la sua totale duttilità ed efficacia comunicativa. Mi viene in mente per fare un paragone con la lingua italiana che rende bene l’idea un esempio già fatto proprio a tal proprosito dalla coppia dei miei telecronisti sportivi preferiti, Rino Tommasi e Gianni Clerici: per dire che un giocatore ( di tennis, il mio sport preferito) colpisce la palla ad un ritmo al di sopra di ciò che sarebbe giusto o delle sue possibilità in Inglese non ci vogliono tanti giri di parole e/o frasi come in italiano, basta una parola sola: overhits.

Era inoltre molto apprezzata da papà la possibilità, in inglese, di non dovere sforzarsi tanto a coniugare i vari verbi nelle varie persone: lei, voi, tu ecc. è sicuramente un elemento di grande pregio il poter rivolgersi a chiunque dando sempre del tu, credo che sia un elemento molto prezioso, che eleva di molto i pregi di questa lingua contribuendo a creare confidenza ed uguaglianza fra le persone.

Non sono mai riuscito pur avendo passato bilioni di ore a discutere con lui di democrazia, equità, giustizia, benessere sociale e potere a farmi un’idea precisa in merito alla collocazione delle convinzioni politiche di papà nella classica e dicotomica scissione fra destra e sinistra, sempre ammesso che esista la possibilità di definirle univocamente o almeno di tracciarne alcuni precisi elementi caratterizzanti, qualche punto fermo in base al quale poter avviare un ragionamento razionale che si avvalga di tale impianto teorico.

Mio padre come detto, credeva nella meritocrazia e voleva che chi dimostrava di valere più degli altri e “di fare, sapere fare e sapere far sapere” (così recita una delle varie gigantografie che aveva fatto appendere nel suo studio) più e meglio degli altri avesse proprio in ragione di questo una posizione di privilegio e potere nella società.

L’utopia comunista lo affascinava davvero moltissimo, l’idea di una società di uguali e di un mondo senza nemmeno la presenza della moneta, del vil denaro, era per il suo modo di pensare un sogno stupendo e immensamente suggestivo ma come tutti i sogni praticamente impossibile da realizzare concretamente.

La posizione dominante a livello sociale e socioeconomico spettava per come la pensava papà a chi valeva più degli altri ma non in termini di reddito, anzi il fatto che alcune categorie professionali di bassissimo spessore intellettuale (bar, ristorazione ecc.) avessero per lo strano gioco dell’economia e delle leggi del mercato moderno un grandissimo benessere economico mio padre la considerava una profonda perversione, una grandissima stortura e quindi una grande ingiustizia sociale essendo secondo lui l’ordine gerarchico (e quindi anche il benessere economico)da stabilirsi fra le varie classi sociali solo una funzione delle doti intellettive e della ricchezza culturale delle persone.

Mi preme a tal proposito chiarire che mio padre amava molto la definizione della cultura “come tutto quello che rimane all’individuo quando ha dimenticato tutto quello che ha imparato a scuola” ossia come un approccio, un metodo, un modo di porsi nei confronti della vita e dei problemi che essa quotidianamente ci pone.

La cosa che ha sempre trafitto sanguinosamente il cuore di mio padre è stata il non aver intrapreso o meglio, potuto intraprendere, dovendosi conformare all’imperativo economico che lo obbligava a dover iniziare subito a guadagnare, la carriera universitaria, per la quale, sarebbe stato molto portato e predisposto.

Il mondo universitario, in Italia, come soleva ripetere spesso (anche a se stesso e assai amaramente) mio padre è dominato dalle cosiddette baronie, dal nepotismo delle caste chiuse, dagli intrallazzi, dagli inciuci e dal sistema delle parentele e delle raccomandazioni: non esiste neanche un lontano barlume di meritocrazia, arriva solo chi ha gli appoggi giusti…così diceva mio padre, ma io credo che invece non sia così, o almeno non del tutto.

Per tornare alla sua idea di società, ricordo che quando parlavamo di welfare state, discutendo ad es. di previdenza, di istruzione e soprattutto di sanità, papà era assai scettico verso il modello americano. Negli States, per farla molto in breve, esistono due programmi pubblici di protezione sociosanitaria: medicare (per gli anziani) e medicaid (per gli indigenti) ed essi coprono solamente il 40% circa della popolazione, il resto è lasciato al mercato, alle assicurazioni sanitarie private.

L’Italia invece garantisce la salute come diritto fondamentale del cittadino e con la 833/78 istitutiva del SSN (in cui ci si è volutamente ispirati al modello Inglese del British NHS, altro modello di sistema pubblico per eccellenza) si è costituito in Italia un sistema di sicurezza sociosanitaria e sociale imperniato sull’azione della mano pubblica (vedi anche art.32 Cost.), ove al cittadino è garantita la tutela della salute.

Mio padre aveva un’idea e un concetto di sanità tutto suo, in prima approssimazione si può dire che fosse propenso ad una sanità collocata a metà fra i due estremi: Modello privato da una parte (USA) e modello pubblico dall’altra (Italia, UK; Svezia), credeva in un modello infatti che riuscisse a coniugare l’efficienza del mercato, del settore privato e della concorrenza con l’attenzione e la salvaguardia delle esigenze dei più deboli.

L’economia è una scienza sociale e la sanità per gli studiosi rientra in quelli che nel suo famosissimo “The Theory of Social justice” del 1969 R. A .Musgrave definisce merit goods, beni di merito, la definizione è un po’ complessa anche per noi economisti (o almeno per me) ma in tutta approssimazione esprimendomi con parole il più possibile atecniche, è un bene il cui consumo genera esternalità positive e deve essere il più possibile incentivato a livello governativo: è chiaro infatti che se tutti seguono le prescrizioni e le migliori norme sanitarie nella interfertilizzazione fra lo stato di salute individuale, (ossia dei singoli individui) e sociale si sarà realizzato un circolo virtuoso che produce a livello sociale un miglioramento degli indicatori dello stato di salute, l’idea che la sanità divenga materia suscettibile di interesse e quindi di regolazione governativa rispecchia anche molti altri avvincenti postulati giova in questa sede ricordare l’importanza vitale anche p.es. (è il caso in questi giorni della sars) della repressione di epidemie che vi sia un deciso intervento dello Stato in una materia che tocca la vita stessa dell’essere umano.

Non voglio addentrarmi in questioni dottrinarie complesse né tantomeno affogare nell’esiguo giacimento acquifero costituito dalle mie scarse reminescenze dei tempi delle lezioni all’università del corso di scienza delle finanze ma un altro esempio tipico di bene di merito è bene ricordarlo per il suo enorme potere esplicativo è costituito dal consumo del bene istruzione, che va incentivato con apposite politiche statali, anche perché, sostengono alcuni, un più elevato livello di istruzione del singolo oltre a generare (anche in questo caso) un circolo virtuoso produrrà come effetto finale una maggiore capacità contributiva dell’individuo e quindi vi sarà un aumento del gettito fiscale e quindi un beneficio per le casse statali.

Mio padre sempre per parlare di sanità non vedeva affatto di buon occhio nemmeno l’esistenza in Italia del meccanismo dei ticket come strumento di per corresponsabilizzare il cittadino alla spesa sanitaria onde cercare di contenerla entro limiti macroeconomicamente accettabili per il sistema e in modo da evitare che la gratuità del servizio possa ingenerare un fenomeno di uso eccessivo e smodato delle cure e dei servizi (ben al disopra del livello necessario) e quindi di abuso delle prestazioni e dei servizi con conseguente gravissimo impatto sulle dimensioni della spesa: la grande arbitrarietà ed approssimazione dell’applicazione di tale strumento in Italia facevano spesso infuriare mio padre che non concepiva come si potessero pretendere soldi da pazienti, persone sofferenti e malate, di fatto indigenti che magari superavano di poco la soglia di reddito che garantiva l’esenzione e necessitavano a causa di patologie particolari un elevato ricorso alle prestazioni delle sue strutture e quindi del SSN (erano e sono le poche che sono sopravvissute alla bufera giudiziaria, ad oggi, solo quattro, tutte convenzionate col SSN o per usare il termine che vige ai giorni nostri accreditate).

E’ una delle più elementari regole dell’economia quella che evidenzia come l’esistenza di una tensione concorrenziale in un settore produca un abbassamento dei prezzi e anche una pressione verso un miglioramento qualitativo dell’output e quindi una tensione verso una maggiore efficienza.

Mio padre credeva in un modello di sanità ove si realizzasse una sana e proficua competizione fra pubblico e privato con l’innesco di un meccanismo di “trading up” (miglioramento qualitativo continuo) garantendo chiaramente tuttavia la vera libertà di scelta del cittadino e quindi la vera parità fra strutture pubbliche e private nell’accesso e nell’allocazione della domanda, pur garantendo tuttavia l’accesso universale al servizio e la gratuità totale delle prestazioni per le categorie socioeconomicamente più deboli nel pieno rispetto del disposto dell’art.32 della nostra Carta Costituzionale quella suprema Carta da cui discendono, o dovrebbero almeno idealmente essere armonizzate, tutte le leggi statali, regionali, comunali ecc.

Mio padre credeva, quando da medico della vecchia mutua (o SAUBB ) decise di diventare imprenditore, in primo luogo, di se stesso e, poi, imprenditore sanitario aprendo, un po’ (anzi molto) alla garibaldina, senza possedere il necessario know how (se non altro tecnico-gestionale) e nemmeno un’adeguata copertura finanziaria, i primi laboratori d’analisi alla fine degli anni ’60, di allargare il panorama del mercato inserendosi in quei vuoti d’offerta lasciati liberi dal settore pubblico e quindi ciò non poteva che costituire un beneficio per il consumatore-utente, realizzandosi di fatto un ampliamento delle alternative disponibili.

Tuttavia aveva fatto i conti senza l’oste perché le imprese esistenti sul mercato nel settore sanitario privato che è di tipo oligopolistico e costituito da aziende che spesso formalmente (per sfruttare le varie agevolazioni legali e i vari benefici fiscali) sono costituite nella forma di organizzazioni non profit (ONLUS) pur essendo nella sostanza e quindi nella realtà fattuale aziende del tutto “for profit”, spesso anche riconducibili senza troppi sforzi immaginativi a precisi soggetti (o gruppi di soggetti) privati che le utilizzano per accumulare ricchezze faraoniche che niente hanno a che spartire con l’utilità sociale recando unicamente utilità alle oligarchie spregiudicate e magnereccie che ad esse sovraintendono e che sono disposte a tollerare l’intrusione di altri soggetti nel mercato solo fino a che questi non raggiungono una certa soglia dimensionale e quindi non costituiscono una concreta minaccia di erosione delle proprie quote di mercato: viviamo in un’epoca in cui chi è grande diventa sempre più grande, potendo sfruttare economie di scala, maggiore potere contrattuale nei confronti dei propri interlocutori e quindi divenendo grazie a questo sempre più efficiente con la fisiologica riduzione dei costi che questo comporta (molte strutture ospedaliere ed alcune fondazioni vengono finanziate con denaro pubblico quali istituti di ricerca scientifica utilizzando l’incommensurabile volano del lavoro volontario, oltre ad una serie incalcolabile di benefici fiscali) e quindi potendo offrire lo stesso output a costi e quindi prezzi inferiori.

Molte delle considerazioni che ho svolto nelle righe che precedono non sono in verità applicabili alle peculiarità del settore sanitario valendo tuttavia la logica e i ragionamenti economici svolti (in termini molto generali) come paradigmi a se stanti.

Per tornare al discorso da cui ero partito sulla qualificazione delle idee politiche di papà come appartenenti ad un’area di destra piuttosto che di sinistra ritengo impossibile sviluppare concettualmente la questione perché ho ben vivo nella memoria un meraviglioso saggio (fra gli altri, numerosissimi esistenti sull’argomento) di Norberto Bobbio che nelle sue 200 pagine circa spiega come non sia affatto univoca e chiara, la distinzione, la qualificazione e quindi la definizione dei due termini, e come sia ardua di conseguenza l’attribuzione di un determinato postulato o enunciato ad una logica dell’una o dell’altra categoria (di destra o di sinistra).

Mio padre credeva nella democrazia soffrendo d’una feroce allergia per ogni forma di dittatura, di imposizione e di regime, ma come detto la vedeva retta da chi avesse dimostrato di possedere più testa degli altri prescindendo da qualsiasi valutazione circa le qualità morali dell’individuo che mio padre riteneva assurdo indagare secondo una logica cristiana o peggio ancora secondo il perbenismo dei valori della società e del modello piccolo-borghese, kantianamente consapevole che la legge morale risiede in noi.

Vorrei approfondire il concetto di democrazia di papà e continuare a lungo ma ragioni di spazio me lo vietano, concludo quindi, (come mio solito) ricopiando un brano tratta da un libro che ho apprezzato infinitamente: :”Storia dei Greci” di Indro Montanelli.

“Il vero sapiente, cioè non è colui che ha stivato molte nozioni nel proprio cervello, ma colui che sa guardare il mondo e la vita nel loro panorama, cogliendovi una ragione, cioè una logica. Il bene o la virtù consiste nell’adeguarvi la propria vita individuale. Consiste nell’accettare senza ribellioni la legge di questo continuo ed eterno cambiamento, cioè anche la propria mortalità. Chi ha compreso la necessità di tutti i contrari sopporterà la sofferenza come l’inevitabile alternativa del piacere e perdonerà al nemico riconoscendovi il naturale completamento di se stesso”

14 – CONTINUA