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Personalità poliedrica: autore di brevi racconti (premio Andersen 1998), di testi per canzoni (“Tre parole” di Valeria Rossi), regista ma, soprattutto, attore di grande talento. Attualmente impegnato sul set dell’ultimo film di Mel Gibson “Passion” in cui interpreta il ruolo di Gesmas (il ladrone cattivo).


D. Francesco Cabras come sono stati i tuoi inizi?


R. Finito il liceo ho intrapreso gli studi universitari laureandomi in psicologia e contemporaneamente ho iniziato a viaggiare, in Asia e in Medio Oriente, ma essenzialmente in Asia, per passione, e passavo molto tempo lì, ho vissuto lì. Poi piano piano la passione è diventata lavoro e ho iniziato a lavorare come giornalista e fotografo, reportage di viaggio per varie testate e intanto mi laureavo. E questo l’ho fatto fino a ventotto/trent’anni. In poche parole ho unito un po’ le due cose, essendo appassionato di cinema, di musica, e soprattutto di immagini e di scrittura, scrivevo e fotografo, se unisci la scrittura e la fotografia, tenti almeno di fare il regista.

D. E la prima volta che ti sei messo dietro la macchina da presa?

R. Ho iniziato facendo dei videoclip musicali, che ancora faccio. Poi negli anni videoclip, documentari e così ho fondato una società di produzione (n.d.r. Ganga) insieme a due amici Alberto Molinari (regista) e Francesco Struffi (montatore).

Quest’ultima cosa che abbiamo fatto codiretta da Alberto Molinari, doveva essere un documentario prodotto dalla Regione Piemonte e dalla EAGLE PICTURES, si chiama “La Grande Fortuna” è partito come un documentario con una linea di fiction, le cosiddette docufiction che è un prodotto ibrido che si sta affermando negli ultimi anni. Poi la cosa ci ha preso la mano, c’è una storia precisa e degli attori professionisti, alla fine abbiamo girato molto materiale ed è venuto fuori un film di un’ora e venti, che è andato al festival di Torino e che forse andrà al festival di Berlino.

D. I videoclip oggi sono molto sofisticati, per Cabras regista che differenza c’è nel girare un videoclip o nel dirigere un film?

R. Di base non cambia nulla, se ti piace il tuo lavoro cerchi di ottenere delle cose che ti corrispondano qualsiasi cosa tu faccia, poi chiaramente cambia tutto perché sono due mezzi diversi, due scopi diversi, però di base non cambia, nel senso che vuoi fare qualcosa che ti piace e che corrisponde a quella idea più o meno vaga o più o meno precisa che hai in mente.

Il videoclip in teoria ti dà molta più libertà visiva di immagine ecc., d’altra parte il rischio è quello di farsi prendere la mano e quindi fare qualsiasi cosa pensando che tutto vada bene nei videoclip, è chiaro che se poi inizi a fare così non viene fuori nulla, anche in un apparente disordine c’è un equilibrio preciso.

D. Quando ti hanno aiutato i tuoi studi in psicologia nel lavoro di regista?

R. Io penso che nella vita tutto aiuta, la psicologia è una chiave di lettura di tutto ciò che ci circonda.

D. E poi come si passa dall’altra parte della macchina da presa? Vorrei che mi parlassi di Francesco Cabras attore.

R. Io ho fatto con un amico un cortometraggio che si chiamava “Cosmos Hotel” e questo cortometraggio ha partecipato al Sacher Festival di Nanni Moretti, il regista era Varo Venturi ed io ho vinto come migliore attore protagonista quel festival. Questo praticamente, a livello emotivo forse dovrei fare solo l’attore, nel senso che il mio ego ne ha un bisogno spropositato e fare l’attore è il massimo per l’ego, stai lì tutti ti guardano, e io avendo un ego enorme e fragilissimo ho un bisogno estremo di fare l’attore.

D. Ti sei scoperto attore per caso?

R. Secondo me è un falso caso nel senso che è una cosa che desideravo fare e in qualche modo uno veicola le proprie azioni affinché accada.

D. Quali erano i tuoi sogni da bambino, cosa sognavi di fare da grande?

R. Viaggiare, e l’ho fatto.

D. E le tue paure da bambino?

R. Tantissime, avevo un sacco di paure.

D. E quelle da adulto?

R. Le stesse, ma non te le dico.

D. Quando ti aiuta il tuo lavoro a superare le paure?

R. Secondo me aiuta di più fare l’attore. Quanto meno rispetto alle mie paure aiuta di più fare l’attore perché comunque recitare ti costringe a far vedere, a mostrare una parte di te.

D. E questo ti costa molta fatica?

R. Enorme, però è bellissimo. Io questa volta (il riferimento è al film di Mel Gibson) sono veramente molto contento, è una fatica enorme perché non ho dei veri strumenti affinati e quindi la fatica è ancora più grande.

D. Tu non hai frequentato nessuna scuola di recitazione.

R. No, ma non è detto che non lo farò.

D. Cos’è il talento?

R. Il talento è la possibilità di tradurre in pratica delle pulsioni o la necessità di esprimere qualcosa, ma soprattutto la capacità di riuscire a tradurle. Perché una cosa è avere dei desideri, delle percezioni o anche una sensibilità estrema e un’altra cosa è riuscire a tradurle.

D. Quando è importante il talento nel mestiere di attore?

R. Se mi parli di bravi attori serve solo il talento, servono tante altre cose ma se non c’è il talento…

D. Sul set di “Passion” tu stai realizzando un documentario, com’è nata l’idea?

R. Innanzitutto visto l’argomento del film, vista la vastità di estrazioni, provenienze, personalità sia sociali che culturali che geografiche diverse, di cui è composto il set, l’idea è stata quella di fare delle domande veramente scandalose nel senso della stupidità, però con la speranza di avere delle risposte migliori delle domande. Sono domande generali sul vissuto personale di spiritualità, il proprio concetto di Dio, di religione. Il tentativo è quello di fare delle domande uguali per tutti e avere delle risposte possibilmente diverse da ognuno, uno specchio diverso, perché ci sono anche delle religioni diverse e dei punti di vista diversi.

D. Cosa vorresti che venisse fuori da questo lavoro, che immagine vorresti restituire?

R. Mi piacerebbe che uscisse fuori un po’ di verità emozionale, piccole cose che però si avverta che possano essere reali, sincere, e se così fosse la cosa potrebbe essere interessante.

D. Cosa ami del tuo lavoro e cosa detesti, cosa ti fa star bene e cosa ti fa star male?

R. Questo lavoro è bellissimo, fare il regista vuol dire giocare “con”: con le immagini, con la musica, con le storie. E’ il massimo che ci possa essere, il cinema è un arte estremamente interessante che ingloba tutto, ma è anche di una difficoltà enorme perché vi sono degli equilibri, alcuni visibili altri invisibili, ma sono degli equilibri sottilissimi per cui se sbagli un millimetro si vede, lo vedi quando hai delle ottime intenzioni e poi fai delle schifezze. Come lo vedi anche nelle altre persone che hanno delle ottime intenzioni e capisci che hanno delle ottime intenzioni, eppure artisticamente alla fine viene fuori un prodotto scadente.

Ma qual era l’altra domanda? Ah si, cosa ti fa star male. Ti fa star male tutto, perché ti sembra sempre che non riesci a fare un cavolo, che è difficilissimo, che ogni volta che inizi è sempre come se non avessi mai fatto nulla, che è enorme, difficile che vorresti fare tutt’altro, ogni volta c’è il desiderio di voler fare e speri che succeda qualche cosa per cui…

D. E’ un lavoro che sacrifica una parte della vita privata o è un lavoro come tanti altri?

R. Si è un lavoro che sacrifica la vita privata. Ma secondo me se tu hai una passione di qualsiasi genere, non è il fatto di fare il regista, qualsiasi lavoro faccia se sei appassionato sacrifica. Ma non è che è il lavoro, sei tu, sei sempre tu che poi alla fine sei fai troppo una cosa e quindi sacrifichi l’altra perché evidentemente hai dei problemi su quell’altra cosa e quindi veicoli tutto nella passione e trascuri l’altra parte di vita.

D. Quando rivedi un tuo prodotto cosa pensi?

R. Io sognerei, ma penso qualsiasi persona, di poter vedere una cosa e poterla giudicare da esterno, anche perché io sono ipercritico nei miei confronti, lo sono anche nei confronti dell’esterno ma credo di esserlo di più nei miei confronti. Ci sono delle cose in cui ci si accorge che sono buone, però i parametri sono alti. (Ride) Voglio dire se ti piace La congiura dei boiardi di Ejzenstejn hai dei parametri altissimi, c’è poco da scherzare.

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