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La prima pubblicazione di questo articolo risale al 4 giugno 2011. Viene riproposto riveduto e arricchito, come spunto per riflettere su una delle difficoltà che condizionano negativamente la propria esistenza.

BUONA LETTURA

PROFUMO DI DONNA

“Povero Vincenzino, che scherzo che gli ho combinato. Lui non è morto… e io sembro vivo. Aiutami… va! Aiutami ad accendere la sigaretta, che nemmeno l’accendino mi funziona più. Allora? Parti, eh!”

“Vuole che telefoni a Torino o a suo cugino, a Roma?”

“No, lascia stare. Vai, che la vacanza è finita. Comunque, non è stato un viaggio inutile. Hai visto tante cose… hai visto com’è fatto un uomo. Ciccio, lo sai cosa sono io?”

“No!”

“L’undici di picche.”

“Ma non esiste!”

“Appunto. Una carta che non sta nel mazzo. Buona per nessun gioco. Ciao, vecchio!”

“Arrivederla, signore. Vuole che le prenda il bastone?”

“Sì, dammelo.”

“Cosa stai a fare lì? Vai, vai, vai, vattene! Vai via, tu e Sara! Andate via!”

“Signore, ma lei…”

“Non ti preoccupare per me! Vai via! Tutt’e due! Vai! Levati dai piedi, tu e quella là! Portala via!”

“Sara. Sara. Sara!

“Tu sai camminare, Sara? E’ difficile, sai, accompagnare un cieco!”

A volte si avverte la necessità di non essere soli, una sorta di paura.

Da dove deriva la paura della solitudine?

Dalla percezione di dovere affrontare, da soli, ogni aspetto della vita. Il termine in questione, secondo i dizionari della lingua italiana, identifica la condizione di chi vive solo, in modo permanente o per un lungo periodo, ricercata per acquisire pace interiore o subita per assenza di affetti o appoggi materiali. La risposta, quindi, consiste nel fatto che tutto gira in funzione del peso che le diamo e di eventuali circostanze avverse, perché la solitudine non dovrebbe essere qualcosa nel rapporto fra noi e il mondo esterno ma, al contrario, una situazione che connota un nostro corretto modo di essere, per alcuni aspetti, avvincente.

Ci sono motivi che ci spingono ad isolarci e momenti che, invece, vorremmo trovarci qualcuno accanto con cui condividere il gravame che poggia sulle nostre spalle. Il tutto ovviamente, anche in base a come abbiamo imparato a vivere il rapporto con noi e con gli altri.

Che cosa si vuole intendere?

Ognuno di noi, nell’arco della propria giornata, trascorre tantissimo tempo a riflettere, a meditare, a volte a rimuginare… e di questo, ce ne accorgiamo attraverso quello che comunemente si definisce “umore”. Anche quando ci troviamo immersi in una folla, per intanto cerchiamo di capire come contestualizzarci e, quindi, come integrarci e come inserirci per cui, anzitutto “viene” il rapporto con se stessi poi, con chi ci sta vicino o intorno.

Allontanare gli altri finendo per allontanarsi dai propri dolori, porta ad inaridirsi e non sentire più nemmeno le gioie e le altre emozioni che la vita, in quanto tale, suscita. A queste condizioni, ogni volta che riteniamo di non esserci comportati per come pensavamo ( o per come ci hanno fatto credere) che sarebbe dovuto andare, beh… quello è uno di quei momenti in cui la solitudine ci pesa.

Profumo di donna (di cui, sopra, si è riportato la sequenza finale) è un film del 1974, diretto da Dino Risi, tratto dal romanzo Il buio e il miele di Giovanni Arpino.

Il capitano in pensione Fausto Consolo (rimasto cieco a causa di un’esplosione), decide di recarsi a Napoli dall’amico Vincenzo, anch’egli non vedente. Fausto si fa accompagnare in questo viaggio dal giovane Giovanni Bertazzi, soldato in permesso premio. Attraverso un viaggio a tappe che da Torino, passando per Genova e Roma, li porterà alla meta (Napoli), avverrà una metamorfosi che trasformerà il rude capitano ad ammettere le proprie paure, che ha sempre manifestato mediante il rifiuto orgoglioso nei confronti della disponibilità altrui. Accetterà, a quel punto, la vicinanza e l’amore di Sara.

NON CE LA FACCIO…

Umberto D, invece, è un film del 1952, scritto e sceneggiato da Cesare Zavattini, diretto da Vittorio de Sica. Questa intensa pagina di neorealismo, descrive la storia di Umberto Domenico Ferrari, pensionato del Ministero dei Lavori Pubblici che, con un misero appannaggio mensile, stenta a condurre una vita al limite della dignità accettabile.

Con una Roma “indifferente” che fa da sfondo, con le sue piazze e le sue strade, i suoi palazzoni, i tram, in cui le musiche semplici accompagnano, unite ai suoni e ai rumori, quel senso di vita scarna e di profonda solitudine che la storia emana, quella di Umberto Domenico Ferrari diventa l’emblema del fallimento di un progetto esistenziale, sopportato con rassegnazione, mendicando affetto e attenzione, dopo una vita spesa in un cammino nel quale ci si è illusi di poter essere d’aiuto a qualcuno.

Un astronauta, piccolo piccolo, scavalca il muro di mezzo che separa il vecchio dal nuovo, lasciando il certo (colorato di bianco) per l’incerto (di cui si intravede solo una porzione a forma di serratura e, comunque, buio). Scelte simili si decidono e si attuano in solitudine. Sono i momenti in cui senti di poter contare solo su te stesso e che, dopo, comunque, nulla sarà più come prima. Ed è quello che accade ad ognuno di noi, quando andiamo incontro alle nostre giornate, sapendo che bisogna uscire dal “recinto” delle abitudini (altrimenti non ci saranno prospettive) e temendo, al tempo stesso, quello che non conosciamo, che ci appare troppo grande e troppo oscuro. Ecco, in buona sostanza, questa è la rappresentazione dell’atteggiamento esistenzialistico.

L’Esistenzialismo, infatti, è una condizione psicologica dei primi del novecento che, per la sua natura complessa, più che una corrente filosofica unitaria, può essere paragonato ad un insieme di posizioni filosofiche singole, anche molto differenziate, variamente coinvolte nell’atmosfera di crisi e malessere individuali delle epoche e dei contesti in cui si manifesta, facendo prevalere la riflessione sull’identità, la solitudine dell’io di fronte al mondo, la precarietà, la piccolezza rispetto all’Universo, che genera l’angoscia cosmico esistenziale.

Ottenuto il sospirato “si, il presepe mi piace!”, Luca disperde lo sguardo lontano, come per inseguire una visione incantevole: un Presepe grande come il mondo, sul quale scorge un brulichio festoso di uomini veri, ma piccoli piccoli, che si danno un da fare incredibile per giungere in fretta alla capanna, dove un vero asinello e un vero bue, piccoli, piccoli anch’essi come gli uomini, stanno riscaldando con i loro fiati un Gesù Bambino grande grande che palpita e piange, come piangerebbe un qualunque neonato piccolo piccolo.. (Da “Natale in casa Cupiello” – Eduardo de Filippo )

Esiste una solitudine diversa per ognuno di noi perché, ognuno di noi, ha un diverso modo di approcciarsi alla solitudine. A volte è un bisogno da soddisfare, altre volte un mostro da cui scappare.

Cos’è che determina la differenza?

La cultura, intesa, non solo come “quel bagaglio di conoscenze importanti, che vengono trasmesse di generazione in generazione” ma, anche, nel rispetto della definizione latina, che si riferiva alla capacità di “coltivare”, soprattutto l’animo umano.

Questa “base” (la cultura, appunto), ci consente di sintonizzarci al meglio alla realtà, cioè all’evidenza del fatto che siamo soli, in qualsiasi circostanza e contesto.

Una difficoltà che ci accomuna è data dalla paura di non riuscire, dalla paura di sbagliare. Molti di noi, infatti, al mattino si svegliano con una speranza: riuscire a costruire qualcosa di bello, qualcosa di buono sia nell’arco della propria giornata, sia per ciò che riguarda tutto il prospetto dell’esistenza, almeno per ciò che riusciamo ad immaginare.

Infatti, all’idea di trascorrere del tempo in maniera immotivata o demotivante ci abbattiamo e ci deprimiamo; però, quanti di noi, poi, rimangono con la certezza di riuscire a dare un senso allo scorrere dei granelli di sabbia nella clessidra esistenziale e quanti, invece, cominciano (magari di fronte alle prime difficoltà) a dubitare di riuscire a portare a casa un risultato degno di tale nome?

La conclusione cui giunge tanto la gente comune quanto quella “più saggia”, è quella che possiamo ricavare riflettendo quel tanto che basta, per riuscire ad accettare l’idea che ognuno di noi, in fondo commette degli errori e che, la vita di ogni essere umano, è alternata da successi e insuccessi… e questo non solo per cattiva valutazione ma, soprattutto, per elementi non previsti e difficilmente considerabili, che ci mettono in condizione di dover rimodulare le strategie ipotizzate.

Ma perché proprio a me?

Accadono cose che possiamo accettare solo quando riguardano gli altri. Ma quando coinvolgono noi, sembra proprio impossibile. Forse stiamo sognando? Si, ora apriremo gli occhi e scopriremo che è stato solo un incubo. E invece no! Capita, a quel punto, che ci guardiamo intorno per scoprire quanti altri condividano la stessa sorte. Per non “sentirci” soli, abbandonati su un percorso mai battuto, col morale sotto i tacchi. Eppure, siamo soli, nei pensieri, nel nostro cammino.

Ne vogliamo una prova?

Qualsiasi emozione, o fluttuazione del nostro animo, per quanto cerchiamo di sforzarci, non riusciremo a trasmetterla per ciò che è: un moto dell’animo, appunto. Infatti, per portarla fuori da noi, necessitiamo di un vettore dinamico che trasformi la pulsione (un sentimento, per esempio) in pulstimolo (un messaggero che deve tener conto delle regole della comunicazione interpersonale, che sono diverse da quella con noi stessi). È come quando, in Istologia, si prova ad osservare, al microscopio, un campione di qualche tessuto cellulare. Non potremmo in alcun modo, riuscire ad apprezzarne la struttura per come realmente è. Infatti, nella preparazione (fissazione, colorazione, etc.) si creeranno degli artefatti (false evidenze, cose che non esistono, alterazioni strutturali) inevitabili.

Ecco perché, ci sentiamo non capiti, ogni volta che proviamo a trasmettere l’intensità del nostro amore o del nostro dolore… e l’altro, per quanto si sforzi, può solo interpretare, in funzione della sintonia con noi, accendendo i propri neuroni specchio e mettendo in risonanza uno stato d’animo simile.

In sostanza, non riusciremo a far vivere all’altro, quello che siamo; al massimo, indurremo l’altro a sentire quello che “lui” ha dentro e che può assomigliare, in qualche modo, a quanto volevamo riferirci.

Ecco perché possiamo intenderci con individui simili a noi, almeno per quanto riguarda gli argomenti su cui vogliamo confrontarci!

E allora, siccome siamo tante isole con castelli dagli infissi murati, dopo aver accettato questo aspetto della vicenda, in base a come organizziamo il rapporto con la nostra solitudine, all’interno di quelle stanze, ci “vivremo” come degli autistici disadattati, o come dei Robinson Crusoe, capaci di uscire nei cortili dei nostri castelli (magari attraverso cunicoli) e mandare e ricevere messaggi, inviati mediante delle catapulte che superino, nella gittata, l’altezza dei muri di cinta.

È una fatica?

Si. Ed è anche per questo, che la nostra corteccia cerebrale, è stata strutturata per dialogare, prevalentemente, con se stessa. Solo quando ne abbiamo bisogno, se riusciamo a sintonizzarci con le esigenze degli altri (o con quello che riusciamo a decodificare, nonostante gli artefatti comunicativi), ci disponiamo a quell’impegno che, i più (erroneamente) definiscono, l’aprirsi agli altri.

Solo quando smarriamo il senso delle cose che facciamo, avremo paura di restar soli e non avere qualcuno con cui confrontarci e da cui avere sostegno.

LE METAFORE…

Il postino, film del 1994 diretto da Michael Radford, è stata l’ultima interpretazione di Massimo Troisi, scomparso in concomitanza, proprio delle riprese. È la storia di Pablo (Neruda) e Mario. Ambientato sull’Isola di Procida, nel 1952, narra dell’amicizia che si instaura fra i due (il poeta in esilio e il postino) basata su una stima che cresce e che aiuta un umile isolano a trasformarsi in amante della poesia. Due solitudini, intrise di dignità, che riscaldano di commozione.

“Che ti succede?”

“Come dite, Don Pablo?”.

“Mah! Te ne stai lì, dritto come un palo!”

“Inchiodato come una lancia.”

“No, immobile come la torre degli scacchi.”

“Forse, più quella di un gatto di porcellana!”

“Ma ho scritto altri libri oltre le odi elementari; libri molto migliori. E’ indegno che tu mi sottoponi a queste similitudini e metafore!

“Don Pablo?”

“Metafore.”

“Che sarebbero?”

“Le metafore? Beh, metafore, come dirti, è quando parli di una cosa paragonandola ad un’altra.”

“Cos’è? E’ una cosa che si usa nella poesia?”

“Sì, anche.”

“Per esempio?”

“Per esempio, quando affermi che Il cielo piange, che cosa intendi dire?”

“Che sta piovendo?”

“Sì, bravo! Questa è una metafora.”

“Allora è semplice: perché ha questo nome così complicato?”

“Gli uomini non hanno niente a che vedere con la semplicità o la complessità delle cose. Ma vedi, Mario, io non so dire quello che hai letto con parole diverse da quelle che ho usato. Quando la spieghi, la poesia diventa banale. Meglio di ogni spiegazione è l’esperienza diretta delle emozioni che può svelare la poesia ad un animo predisposto a comprenderla.”

“Non vi so spiegare….mi sono sentito come una barca sbattuta in mezzo a tutte queste parole.”

“Come una barca sbattuta dalle mie parole? Tu lo sai cos’hai fatto?”

“No. Che ho fatto?”

“Una metafora.”

“No!”

“Sì, come no!”

“Vabbè, però non vale, perché io non la volevo fare”.

“Volere non è importante, perché le immagini nascono casuali “

“Cioè, voi che volete dire? Che il mondo intero, per esempio, col mare, col cielo, con la pioggia, le nuvole… cioè il mondo intero, allora, è la metafora di qualcosa? Ho detto una stupidaggine!”

” No, no, per niente!”

“Avete fatto una faccia strana.”

” Mario, facciamo un patto. Adesso faccio un bel bagno e rifletterò sulla tua domanda. Poi, domani, ti darò una risposta.”

“Ma veramente?”

“Sì, veramente.”

Ma il mondo, è veramente la metafora di qualcos’altro?

Dipende da come noi lo vediamo e dal significato che gli diamo. Il mondo è indifferente rispetto a noi. Ha un suo programma, un suo progetto. C’è chi sostiene che ci sia un disegno divino, chi invece, afferma che, il tutto, sia soltanto una questione fisica legata a salti quantici che, dentro, portano dell’energia che sa quello che vuole, ancora prima di determinarlo.

Quale che sia la motivazione, noi non rappresentiamo nulla, o quasi, rispetto a tutto quello che ci circonda; però, siccome dobbiamo dare un significato a quel respiro cosmico (che, di per sé, è già una metafora), sulla base di quello che ci stimola, ascoltando, osservando, toccando, annusando, gustando, insomma usando i nostri sensi, ricaviamo delle informazioni che, “dentro”, ne hanno altre. Lo stormire delle foglie, il fluttuare delle onde, il sibilare del vento…

Ma, per dare via libera a questo sfogo creativo, per ottenere il meglio di sé nella creatività, diventa un bisogno, a questo punto, la solitudine? Perché, a volte, capita di alternare periodi in cui si sta veramente bene con se stessi a momenti in cui si cerca di sfuggire la propria compagnia?

Dipende da quello che si sta attraversando, il che coinvolge più fattori e non tutti, necessariamente negativi. È facile immaginare che, in presenza di momenti conflittuali, si sia portati a cercare qualcuno con cui sfogarsi, così come se, alla stregua di un bambino molto preso dal piacere della scoperta neutrergica (l’appagamento di una legittima curiosità intellettiva), ci trovassimo a riflettere su elementi estremamente interessanti: vorremmo prolungare i momenti di solitudine.

Al di là di questo, si cerca la compagnia altrui anche in altri frangenti. Ad esempio, ognuno di noi si trova a trascorrere periodi di tempo propositivi e costruttivi, realizzando progetti e, di conseguenza, “costringendo” il nostro metabolismo neurofisiologico a subire un certo quantitativo di stress. In conseguenza di ciò, nel caso di prolungata attività (soprattutto se non ce ne accorgiamo perché assorti in applicazioni interessanti) così come gli aerei in volo continuativo che necessitano di rifornimento senza possibilità di atterraggio, ci diventa utile e necessaria la presenza di qualcuno da cui ricevere carica positiva ed a cui trasmettere un po’ di tensione che disturba i nostri elaborati.

La vita, insomma è fatta di equilibri.

Il bambino è fatto di cento. Il bambino ha cento lingue, cento mani, cento pensieri, cento modi di pensare, di giocare e di parlare; cento sempre cento modi di ascoltare, di stupire, di amare; cento allegrie per cantare e capire, cento mondi da scoprire, cento mondi da inventare, cento mondi da sognare. Il bambino ha cento lingue (e poi cento… cento… cento) ma gliene rubano novantanove. La scuola e la cultura gli separano la testa dal corpo. Gli dicono: di pensare senza mani, di fare senza testa, di ascoltare e di non parlare, di capire senza allegria, di amare e di stupirsi solo a Pasqua e a Natale. Gli dicono: di scoprire il mondo che c’è già e di cento gliene rubano novantanove. Gli dicono: che il gioco e il lavoro, la realtà e la fantasia, la scienza e l’immaginazione, il cielo e la terra, la ragione e il sogno, sono cose che non stanno insieme. Gli dicono, insomma, che il cento non c’è. Il bambino dice: invece il cento c’è. (I cento linguaggi del bambino – Loris Malaguzzi )

E allora, cosa resta da fare?

Decidere di lasciarsi andare? Continuare a combattere, allo sbando? Proviamo a riflettere su cosa contare per poter dare un senso e una sacralità alla propria vita. O alla propria morte.

Immaginiamo questa scena.

Stati Uniti, 1865, guerra di secessione. Un cow boy scorge un giovane soldato ferito e accasciato all’interno di alcune rovine. Scende da cavallo, si avvicina, gli tocca la ferita e si accorge che non c’è più speranza. Gli sguardi si incrociano. Terrore e pacatezza si incontrano, occhi negli occhi. Quello in piedi, lentamente, si toglie il cappotto e copre il morente che trema dal freddo. Si osservano in silenzio. Si abbassa, gli passa il sigaro… lo guarda aspirare fumo e vita… proprio quella che sta “andando via”. Il soldato sorride. Il cavallo nitrisce: ci sono altre avventure, forse altra gente da soccorrere. Il ragazzo muore con un filo di fumo che ricorda il legame con la vita e la solidarietà ricevuta. Il cow boy riprende il sigaro. La coperta no. Perché non è giusto lasciarlo al freddo della propria solitudine, che in quel momento, comunque, ha smesso di pesare.

Dissolvenza.

MORTE DI UN SOLDATO

Allora, siccome la solitudine può essere considerata il nostro alter ego, perché si utilizza questa frase per identificare qualcosa di negativo?

La solitudine, siccome ci sintonizza con le frequenze del nostro mondo interiore, costituisce un amplificatore di stati d’animo; di conseguenza, pur appartenendo a principi di Natura, ci fa consapevolizzare la paura di sentirci inadeguati a sostenere il dialogo con quella parte di noi che ritroviamo ogni mattina quando ci osserviamo in quello che Eduardo De Filippo chiamava “ò guarda n’faccia”, colui il quale ha mancanza di rispetto nei nostri confronti, quello che ti dice esattamente come stanno le cose. Quando, furtivamente, ci incrociamo con chi sta dall’altra parte riflesso nello specchio dell’anima e qualcosa non va, beh… quest’ultimo ce lo manda a dire!

Ecco perché la solitudine, a certe condizioni, può diventare difficile da sopportare.

Cosa conviene fare? Come si affronta e come si risolve il problema?

Proviamo ad imparare (da autodidatti o con l’aiuto di qualcuno di cui potersi fidare) come fare per andare meglio d’accordo con l’unica persona che ci accompagnerà tutta la vita: noi stessi. In questo modo cominceremo ad apprezzare il tempo da trascorrere in nostra compagnia… leggendo un libro davanti ad un caminetto, ad ascoltare il crepitio della fiamma, o in mezzo ad una moltitudine di persone: in fondo non conta.

La paura di rimanere soli potrebbe condurre a fare delle scelte avventate?

Dipende dalla difficoltà del sostenere la presenza di chi ci crea disturbo. Immaginiamo come deve sentirsi una persona, a pranzo (o a cena), seduta a tavola con un partner con cui non ha più nulla da spartire… il silenzio che cade diventa insostenibile e si attivano dei meccanismi interiori che hanno una ripercussione sul sistema neurovegetativo producendo, alla lunga, dei malesseri fisici. Quel silenzio, infatti, dichiara meglio di mille parole, tutto il fastidio, tutte le delusioni, tutti i dolori, tutta la rabbia che sta all’interno di quell’assenza di concettualizzazioni verbali ma ricco di trasmigrazioni di intenti conflittuali. Ecco, il partner più fedele che noi possiamo avere è quello che incontriamo ogni mattina (quando dobbiamo “scendere in battaglia”) ogni sera (quando ci “lecchiamo le ferite”) e, comunque, tutte le volte che ci laviamo le mani (ci avete fatto caso che, più che guardare dove va la schiuma, controlliamo il nostro viso, quasi a domandarci con quanta “sporcizia” ci siamo imbrattati?). Ecco, questo compagno, sta con noi, fino all’ultimo momento di vita, fino all’ultimo respiro…

Quanto è difficile sostenere il suo sguardo sapendo che, magari, stiamo commettendo un errore nei nostri e nei suoi confronti! E allora, pur di non essere costretti ad un resoconto consuntivo, cominciamo a cercare dei mezzi, dei sistemi per allontanarci: la compagnia di qualcuno “a prescindere”, la compagnia di qualcosa “a prescindere”.

E ci perdiamo, isolandoci da noi stessi.

Esistono altri motivi che ci spingono a cercare gli altri?

Se, per caso, ci siamo resi conto di aver fatto qualcosa di veramente interessante, di aver costruito una nuova idea, di aver realizzato oltre ogni aspettativa, in quei momenti torniamo ad essere i bambini che volevano mostrare al mondo intero il risultato della loro opera e non vediamo l’ora che arrivi qualcuno per poterci confrontare.

Com’è possibile ignorare se stessi e pensare di farla franca?

Per lo stesso motivo per cui si imbroglia, si ruba, si rapina, si violenta, si vive sistematicamente al di là della norma. Basterebbe riflettere sul principio che, è solo una questione di tempo e poi, inesorabilmente, si viene scoperti. Ma in quei momenti prevale l’ebbrezza di essere riusciti a fare qualcosa nonostante le nostre incapacità… e poi in qualche modo, si farà fronte al prezzo da pagare. C’è una sorta di immaturità aggiuntiva che complica il discorso perché rende difficile l’aiuto che qualcuno ci potrebbe dare perché, fin tanto che noi non riconosciamo di avere necessità di una parola di chiarimento o di conforto, ebbene, sarà oltremodo improbabile uscire da uno schema che si avvita in maniera restrittiva e non ci porta alcunché di positivo. In effetti, chiunque provi ad andare contro principi di correttezza per lungo tempo, ne pagherà le conseguenze in maniera variabile in funzione dei danni che ha prodotto a se stesso o agli altri e alla successiva capacità di riparazione o di miglioramento di se stesso. Esistono, infatti, delle condizioni, come ad esempio quelle che riguardano persone che hanno commesso delitti per i quali è stato comminato l’ergastolo che, grazie ed a seguito di questa esperienza, scoprono il valore di sentirsi utili per tentare di fare pace con quella parte buona di sé, che altrimenti li condannerebbe a vita… e questo sarebbe peggio di qualunque altro tipo di punizione.

Vero.

E’ vero che scopriamo di non poter “sentire” o “essere sentiti”, soprattutto in momenti particolari. Sarà perché a volte si corre, a volte si sfugge, a volte ci si perde. Altre, proprio, manca il fiato e non ci sono più idee da poter condividere ma, solo, pensieri che come ferite, si devono “leccare” in solitudine.

Quello che mi ha sorpreso di più negli uomini dell’Occidente è che perdono la salute per fare i soldi. E poi perdono i soldi per recuperare la salute. Pensano tanto al futuro, che dimenticano di vivere il presente in tale maniera che non riescono a vivere né il presente, né il futuro. Vivono come se non dovessero morire mai e muoiono come se non avessero mai vissuto. (Dalai Lama)