“Il tempo è Amore, è vita, malinconia, follia, ricordi… il primo bacio, i gradini della scuola, i colori degli alberi a novembre… il natale, i figli, le strette di mano… il letto da rifare, le fotografie, un amico che non chiama… una casa nuova e i problemi di prima, i discorsi di sempre… in fondo il tempo è imparare a crescere: troppo per una canzone sola. Ma ci si si deve provare” (Francesco Guccini, Gaetano Curreri)
Cos’è l’onore delle armi?
È un particolare tributo militare che si concede all’avversario che ha perso, quando la contesa è stata onorevole (anche se cruenta) ed entrambi gli schieramenti, soprattutto quello che perde, hanno mostrato coraggio, onore e dignità.
E allora, la procedura è la seguente: l’esercito vittorioso schiera due ali di soldati che rendono onore al passaggio dei militari sconfitti, il cui comandante (o il più alto in grado, se il comandante è morto in battaglia) mantiene la sciabola dritta come se avesse vinto e l’esercito sconfitto passa in rassegna le truppe vittoriose. Questo è qualcosa che si verifica non spesso, ma in quelle particolari circostanze.
Cari Lettori, riteniamo che, nella vita di tutti i giorni, quando qualcuno si trova in condizioni di difficoltà dopo aver combattuto sulle barricate esistenziali e si è distinto con onore, anche se ha avuto un oscuro ruolo da mediano, è compito del caregiver (tutti coloro che lo circondano e che partecipano all’assistenza, a partire dalla Nazione che lo ha visto crescere e operare), quello di curarlo e onorarlo, senza fargli perdere la dignità dell’appartenenza al genere umano.
In questo modo, si compie la volontà di un Comandamento non scritto: quello di onorare chi ha contribuito a lasciare una traccia (anche piccola) su cui noi tutti cammineremo.
Quale possibilità c’è, di uscire a testa alta da questa storia camminando sulle mani, senza allargare le pareti come fai tu… che pungi con gli aculei del silenzio e non dai segnali né segni di rimpianto? Mi guardi e non mi riconosci più… (Gaetano Curreri)
“Viale del tramonto” è una memorabile pellicola del 1950 che descrive l’angoscioso declino di una diva di Hollywood, rimasto nell’immaginario collettivo degli spettatori dell’epoca al punto da utilizzare, ancora oggi, questa espressione per riferirsi a qualcuno che cammina con il sipario esistenziale che scende alle sue spalle.
“Mi ricordo di voi, siete Norma Desmond, eravate grande!”
“Io sono ancora grande, è il cinema che è diventato piccolo!”
Cari Lettori, avrebbe sostenuto Freud che la partita si sarebbe dovuta giocare fra Es (la spinta ad “andare”) e Super Io (la morale “imposta”) avendo, come arbitro, un “IO” adeguatamente strutturato e maturo.
Ci spiega lo psicoanalista francese Jaques Lacan che il nostro destino è quello di essere subordinato alle leggi dell’altro. Infatti, giusto per capire come stanno le cose, la nostra nascita è anticipata dalla scelta del nome, dallo spazio che hanno preparato per il nostro arrivo a casa, dalle attese dei nostri familiari che immaginano di noi, prima ancora del nostro concepimento e che ci daranno l’orgoglio dell’appartenenza (ad una famiglia, ad una squadra di calcio, ad una città, ad una formazione politica…)
Insomma, come avrebbe detto il grande Eduardo de Filippo, per noi gli esami delle aspettative altrui, non finiscono mai.
Nella realtà dei fatti con cui ci scontriamo prevalgono, però, le emozioni che colorano gli stati d’animo, passando dall’alba al tramonto.
E allora, per rispondere ai mille dubbi della nostra coscienza (debbo fare quello che dicono gli altri, o posso essere libero di esprimermi?) diventa indispensabile osservare il piacere che proviamo col nostro collocarci nel mondo, attraverso tutto il Bene che riusciamo a devolvere.
In Natura non esiste correttore per le ricette male eseguite. Esiste, però, la possibilità di tesaurizzare l’esperienza per imparare a rivolgersi, col rispetto dovuto, a quel pilota automatico che ci conduce anche se non nasciamo con un piano di volo predeterminato.
“Al tuo fianco avrei giurato guerra a tutto il mondo, scalato le montagne a mani nude ma la ferita adesso non si chiude e vorrei poterti dire che possiamo continuare. Ma cosa è che ci unisce se non questo stare male, questo dolore così forte fino in fondo al cuore?” (Gaetano Curreri)
Quante persone incontriamo con lo sguardo assente e un modo di procedere che indica chiaramente che si è davanti a “vinti della vita”?
Queste situazioni si riscontrano ormai nei campi più disparati e non solo nelle attività di maggiore visibilità sociale. E per questo ci vien da osservare come il problema sia legato all’asticella, all’obiettivo sempre più alto cui tendere, perché i risultati possano essere considerati soddisfacenti.
Il problema grande, cari Lettori, è che se è vero che ciascuno di noi è naturalmente spinto ad aprirsi verso il prossimo (per determinare ciò che gli esperti definiscono come “relazioni oggettuali”) è altrettanto vero che, durante il percorso di crescita (fisica e mentale), possono intercorrere ostacoli tali da non consentire la consapevolizzazione del fatto che siamo singole note capaci di creare una melodia solo se, insieme ad altre note, ci accomodiamo sullo spartito della Vita.
In questo caso, finiamo col darla vinta ad una componente “perversa” chiamata “precursore sadico del SuperIo” che ci porta a sviluppare pregiudizi nei confronti del nostro prossimo, convinti che sia cattivo e pericoloso.
Insomma, come scrisse Romano Battaglia, se il deserto è il grande mare prosciugato nel quale si sono arenate le navi del Destino, bisogna per forza di cose “seminare” un carattere quanto meno improntato all’empatia, per sperare in un raccolto di riconoscenza”
“Poi, quando tutto va a memoria, sono i titoli di coda di una storia. Ma non è un finale: è che ci si lascia andare sempre più. Ma io, al tuo fianco, voglio mille notti in bianco e distinguer con certezza uno schiaffo o una carezza. Se niente ormai facciamo bene, se niente più ci tiene insieme, io resto qui a gridarti che non possiamo continuare all’infinito a farci male. Perché, se guardo nei tuoi occhi, io vedo solo amore” (Gaetano Curreri)
Papa Francesco, nell’Enciclica “Fratelli tutti”, esorta a riconoscere la tentazione di disinteressarci degli altri, specialmente dei più deboli.
“Siamo cresciuti in tanti aspetti ma siamo analfabeti nell’accompagnare, curare e sostenere i più fragili e deboli delle nostre Società sviluppate. Ci siamo abituati a girare lo sguardo, a passare accanto, a ignorare le situazioni finché queste non ci toccano direttamente”.
Se vogliamo che la Società sia migliore dobbiamo prendere atto che l’esistenza di ciascuno di noi è legata a quella degli altri. La vita non è tempo che passa, ma tempo di incontro.
Il nostro principale dovere, in questa vita, ci ricorda il Dalai Lama, è aiutare gli altri. E conclude: “Se non potete aiutarli, almeno non fate loro del male”.
Aiutare qualcuno significa rendergli la vita più semplice, alleggerendolo di qualche peso difficile da portare da solo.
Proviamo, pertanto, a farci carico di qualche preoccupazione o ad offrire servizi che possano “far sentire la persona meno sola”.
Non è, dunque, per noi che si vive ma per gli altri. E gli altri non sono un inferno ma il nostro prossimo
Freud lo guardò stupefatto: “La verità? Che cosa intendi, Josef? Tu non soffri di nessuna disperazione.. hai tutto. Sei invidiato da qualsiasi medico di Vienna; tutta l’Europa invoca i tuoi servigi. Molti ottimi studenti, tra cui il promettente giovane dott. Freud, fanno tesoro di ogni singola parola. Le tue ricerche sono notevoli, tua moglie è la donna più bella e sensibile dell’Impero. Disperazione… ma, Josef, se sei sulla cima della vita?”
Breuer posò una mano sulla sua: “La cima della vita? Hai espresso la cosa nei termini esatti, caro Sigmund. La cima, la sommità della scalata! Ma, il problema delle cime, è, appunto, che vanno in discesa. Dalla cima posso vedere, in fila, davanti a me, tutti gli anni che mi rimangono. Ed è una vista che non mi piace affatto. Vedo soltanto invecchiamento, umiliazione, status di padre, di nonno…” (da “Le lacrime di Nietzsche” di Irvin D. Yalom)
Perché il futuro sia accettabile è necessario che il passato sia stato vissuto con la consapevolezza della precarietà dell’esistenza che può essere interrotta in qualsiasi momento.
Futuro e passato sono legati indissolubilmente.
Per questo Wistawa Szymborska ha scritto: “Quando pronuncio la parola Futuro, la prima sillaba già va nel passato”.
Cari Lettori, è da come abbiamo “giocato” il nostro passato, che discende la possibilità di un decoroso finale di partita.
“Al tuo fianco, io per tutto il tempo… Cominciamo questa notte, che si sta calmando il vento! Ora dammi le tue mani… una possibilità c’è, di continuare a testa alta questa storia. Tieni ancora le mie mani, non allargare le pareti: non serve più” (Gaetano Curreli)
Cari Lettori, come abbiamo avuto modo già di scrivere, nella storia del genere umano, sono stati diversi i periodi rimasti impressi nell’immaginario collettivo. Dagli Spartani alle Termopili, passando per gli antichi Romani con le loro guerre puniche, fino ad Alessandro Magno o i moschettieri del Re e i Cavalieri della Tavola Rotonda (con il loro Sacro Graal)…
Ma il West, è un’altra cosa. È, esattamente, l’ambientazione speculare dei dettami che hanno guidato l’Oriente, ai tempi dei Samurai. Con gli ovvi aggiustamenti della vita “occidentale”. Una vita in ogni respiro, quindi, fino all’ultimo momento, quando ci si accomiata con onore e dignità.
Ovviamente parliamo delle zone degli Stati Uniti d’America ad ovest del Mississippi nel periodo di progressiva occupazione da parte degli americani bianchi (con conseguente spodestamento degli Indiani autoctoni), più o meno lungo tutto il 1800. Il West è, soprattutto un modo di essere, un ideale di libertà, una terra di frontiera tutta da scoprire (o da inventare, a seconda di come la si vuole vedere), dove la legge è qualcosa di non ben definito e decisamente “personalizzato”.
Il West, quello vero, rappresenta anche l’esempio di una conquista realizzata col coltello in mezzo ai denti, metro per metro, frutto della forza di volontà e di quello delle armi. Il variegato “sociale” del West prevede i pionieri, gli scout, i mountain man, i cow Boy, i banditi, i cercatori d’oro, i pellegrini (mormoni, anabattisti, metodisti, etc.) e, finché gli è stata data facoltà di resistere, naturalmente gli Indiani.
C’era una volta il West, Sergio Leone lo gira nel 1968 (primo di una “trilogia del tempo” che comprende Giù la testa, nel 1971 e C’era una volta in America, nel 1984) ed è talmente bello da aver meritato, nel 2009, di essere preservato nel National Film Registry della Biblioteca del Congresso degli Stati Uniti.
“La pellicola rappresenta una sorta di immenso poema epico sulla fine di un’epoca e, al tempo stesso, un imponente inno funebre per un genere cinematografico tanto amato al mondo. Proprio la ferrovia, centro e filo conduttore di tutta la vicenda narrata nel film, rappresenta, con il suo arrivo, la nuova civiltà che avanza e che è destinata a spazzare via in poco tempo il West e la sua epopea, i suoi scenari selvaggi e i suoi personaggi rudi e solitari. La maestosa sequenza finale, l’inquadratura che si alza sulla vallata, con la prima locomotiva che arriva, festeggiata dagli operai e l’allontanarsi malinconico di Armonica (Charles Bronson) da Sweet Water, ne è quasi la sintesi perfetta, sottolineata dal titolo, “C’era una volta il West”, che compare negli ultimi secondi a sancire appunto la fine di un’epoca”. (Fonte Wikipedia)
“Mi spiace, Armonica, ma io resto qui!”
– “Chi?”
– “Mister Ciuff-Ciuff! Nemmeno lo contavo, quella specie di mezzo uomo! Ha avuto paura! Ehi, Armonica! Quando toccherà a te, prega che sia uno che sa dove sparare! E adesso Vattene! Non mi va che mi guardi mentre muoio!”
Enzo Ferraro – già Dirigente Scolastico, Letterato, Umanista, Politologo
Giorgio Marchese – Direttore “La Strad@”
Un ringraziamento affettuoso ad Amedeo Occhiuto, per avere suggerito molti degli interessanti aforismi inseriti nell’articolo.
Un suggerimento: provate a rileggere questo editoriale mettendo in sottofondo questa bella canzone degli “Stadio”. Il tema musicale vi guiderà nelle giuste emozioni.
Direttore Responsabile “La Strad@” – Medico Psicoterapeuta – Vicedirettore e Docente di Psicologia Fisiologica, PNEI & Epigenetica c/o la Scuola di Formazione in Psicoterapia ad Indirizzo Dinamico SFPID (Roma/ Bologna) – Presidente NEVERLANDSCARL e NEVERLAND “CAPELLI D’ARGENTO” ETS (a favore di un invecchiamento attivo e a sostegno dei caregiver per la Resilienza nel Dolore Sociale) – Responsabile Progetto SOS Alzheimer realizzato da NEVERLAND “CAPELLI D’ARGENTO” ETS – Responsabile area psicosociale dell’Ambulatorio Popolare (a sostegno dei meno abbienti) nel Centro Storico di Cosenza – Componente “Rete Centro Storico” Cosenza – Giornalista Pubblicista – CTU Tribunale di Cosenza.
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