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Quando, all’alba del 24 maggio del 1915 l’Italia di Vittorio Emanuele III e del suo Presidente del Consiglio, Salandra, dichiara guerra all’Austria, il nostro esercito non pensava di affrontare una guerra di durata imprevedibile, considerato che era male armato, senza tradizioni militari, guidato da un Capo di Stato Maggiore, per come la storia lo ha tratteggiato, burocrate, scontroso, presuntuoso oltre che incapace di sentimenti umani: il Generale Luigi Cadorna. Era, questi, figlio di quell’altro Cadorna che legò il proprio nome alla presa di Porta Pia del 20 settembre 1870, che costò la vita a 19 bersaglieri, mentre i papalini ebbero solo un caduto: e ciò la diceva lunga sulle capacità strategiche dei Cadorna…

 

Forte di questa eredità, Luigi Cadorna considerò l’alto incarico e l’immensa responsabilità che ne derivava come una questione affidata all’esclusivo proprio giudizio, ritenendosi indipendente dal Re, dal Governo e dai suoi stessi generali, convinto di svolgere una guerra secondo canoni strategici antichi, dove gli eserciti nemici si affrontavano con schieramenti di parata, a plotoni affiancati, per pervenire ad uno scontro frontale caratterizzato dal corpo a corpo, oppure disporsi ad estenuanti attese nelle trincee dove si logorava l’ardimento e lo spirito guerriero.

 

D’altra parte, anche il Re ed il Governo pensarono di limitare ogni responsabilità propria, scaricandola su un generale burocrate ma incompetente di strategie militari.

 

Al momento dell’entrata in guerra, il nostro esercito contava oltre 400 mila uomini, mentre quello austriaco si componeva di 100 mila soldati; ma notevoli erano le differenze sul piano bellico: noi italiani offrivamo 400 mila inesperti e male armati fanti, senza alcuna preparazione tattica, senza armamento adeguato e moderno, ma, soprattutto, senza alcuna tradizione militaresca; gli austriaci, invece, oltre che essere di gran lunga meglio armati, meglio attrezzati, guidati da esperti ufficiali, abituati a svolgere un servizio militare lungo, massacrante, in guarnigioni dislocate nel vasto impero austro-ungarico, potevano contare, altresì, sull’esperienza bellica prussiana che per la metà del secondo 1700 e per tutto il 1800, aveva spavaldamente sbaragliato inglesi, francesi, russi, polacchi, turchi, e persino gli stessi austriaci.

 

C’è da sottolineare un aspetto che, se non fosse per la sua tragicità, potremmo definirlo un comportamento grottesco e ridicolo: al momento dell’entrata in guerra, il nostro vile ultimatum ( vile, perché fino ad un mese prima avevamo confermato, all’ambasciatore austriaco BULOW il patto d’alleanza con la triplice intesa austro -tedesca ) fu consegnato solo all’Austria e non pure alla Germania, come se le due nazioni non avessero alcun rapporto di sangue, di lingua, di storia e di cultura, oltre ad essere legate, saldamente, da un patto militare.

 

Fu così che le piazze di tutte le città italiche, di tutte le più piccole contrade, specie in quelle sperdute nel profondo sud e nelle isole, si riempirono di malaugurati cippi e monumenti della memoria dove, ancora oggi, e resistendo alle ingiurie del tempo, sono incisi i nomi di oltre 600 mila giovani che furono offerti al MOLOC della guerra, dalla orgogliosa ignoranza strategica di un folle generale, dalla insensibilità di un Re, al quale i soliti ipocriti elargirono l’altisonante titolo di “Re soldato” ( che di soldato non aveva nemmeno la statura fisica come ho già spiegato nell’articolo dedicato a lui, Vittorio Emanuele III), da un governo che violentò le prerogative di un Parlamento contrario all’intervento, ma pavido, anch’esso, di fronte alla piazza istigata ed esaltata da una minoranza di esagitati sobillati dall’esteta e ridondante poeta D’Annunzio e da colui che, presto, avrebbe trascinato l’Italia in quell’altra grande tragedia che va sotto il nome di seconda guerra mondiale: parlo di Benito Mussolini, ultimamente, inutilmente ed ipocritamente edulcorato da un servizio dalla trasmissione Rai :” PORTA A PORTA”.

 

In tutti i libri di storia e nelle emeroteche dei nostri musei, si può leggere, non senza una stretta al cuore, delle forsennate offensive che il Cadorna ordinò, dopo aver dislocato su di un fronte largo 700 chilometri, dalle Dolomiti all’Isonzo, le nostre inesperte armate e sulle quali le mitragliatrici austro tedesche fecero piovere torrenti di pallottole che falciarono, a migliaia, quegli ignari giovani, sospinti all’assalto dai fucili dei carabinieri che avevano l’ordine di fucilare, sul posto, chiunque dei nostri fanti avesse voltato le spalle al fuoco nemico.

 Ben undici furono le nostre offensive su quel fronte, e per ben undici volte non conquistammo un centimetro di territorio, ma inondammo le nevi delle Alpi e i fiumi, oggi sacri alla patria, col sangue di centinaia di migliaia di nostri giovani.

 A tal proposito, mi è rimasto impresso nella memoria uno dei tanti racconti di quella tragica epopea che mio nonno, fante reduce della guerra 1915/18, scampato a quella strage, mi raccontava negli anni trenta, allorché, persino i mitraglieri tedeschi cercavano di evitare quella orrenda ed immensa carneficina gridando, dal chiuso delle loro piazzole ai nostri: “…Basta Italiani !, fermi ! Tornare indietro !! ” , ma alle spalle c’erano i carabinieri di Cadorna col fucile spianato!

 Molti altri furono i tragici fatti dei quali fu testimone mio nonno, come quando un suo compagno d’armi, disperato per quel destino che incombeva sulla compagnia di appartenenza, gettò una bomba a mano vicino la tenda del comando; subito fu organizzata l’inchiesta, ma riuscendo difficile individuare il colpevole, fu decisa la tremenda decimazione che consisteva nel prelevare il decimo militare della compagnia schierata a ranghi serrati e procedere, alla fucilazione sul posto, di una decina d’innocenti

 Questi i metodi, questa la disciplina, questa l’assurdità di direzione strategica militare che serviva solo a mascherare l’incompetenza, l’esibizionismo di un carattere duro all’apparenza, ma che tradiva la fragilità interiore di un Comandante che non trovò nemmeno la dignitosa forza di spararsi un colpo in testa, una volta esautorato dal comando e costretto a vivere con una lacerazione coscienziale che lo torturò per tutta la vita; a tal proposito, fra gli eventi miracolosi che si raccontano sulla vita di San Padre Pio da Pietrelcina, c’è, pure, l’apparizione, in stato di bilocazione, del Santo, allorché apparve al generale Cadorna nel momento che questi decideva il proprio suicidio, dissuadendolo dall’insano gesto; il fatto è registrato negli eventi miracolosi del Santo e raccontato dallo Stesso Cadorna quando, recatosi a San Giovanni Rotondo, per un bisogno di autoconciliazione con la propria coscienza, ed incontrato il santo cappuccino pare si sentì dire: ” eh, caro generale, quella notte ce la siamo vista proprio brutta ! ” con chiaro intendimento al tentato suicidio.

 Da queste brevi notazioni non può non sorgere forte un grido di maledizione che ancora riecheggia per le nostre contrade da madri, mogli, genitori che hanno vestito il lutto per tutta la vita, e che ancora maledicono dalla loro tomba ad un Re che non ebbe certamente il sigillo divino per regnare sull’Italia, ad un governo succubo di un Re incosciente e di un populismo violento ed imbevuto di quel nichilismo nietzschiano, che avrebbe ancora imperversato per la nostra nazione fino al 1945.

 A qualche residua romantica cariatide di quella monarchia affidiamo il nostro eterno rifiuto a che le spoglie di quel “piccolo” Re rientrino pomposamente nel Pantheon a Roma, ma continuino a consumarsi tra le sabbie ardenti del deserto egiziano; e ciò, per esecrata memoria.

Giuseppe Chiaia (24 Ottobre 2004)