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Fu il primo ministro del piccolo regno sardo – piemontese, il conte Massimo Taparelli d’Azeglio, a gratificare del titolo di “galantuomo” l’erede di Carlo Alberto.

Con Vittorio Emanuele II, inizia un periodo di grandi preparativi politici che determineranno la riscossa di un popolo disperso e soggiogato da una miriade di potestà, più o meno legittime, a partire dalla fine delle libertà comunali del 1300.

Bisognava sopportare oltre 5 secoli e mezzo di dominazioni, quasi sempre straniere, perché si avverasse il sogno di Adelchi di un’Italia liberata da Goti, Visigoti, Arabi, Bizantini, Normanni, Svevi, Angioini ed Aragonesi, Svizzeri, Lanzichenecchi, Francesi ed Austriaci.

Eppure, anche Vittorio Emanuele II era stato educato al dispotismo dei Savoia, al punto che, in gioventù, fu fiero avversario delle tendenze liberali del momento (siamo negli anni 1846-1849) che già si erano manifestati con i moti del 1820/21, del 1830/31, con l’imprevedibile concessione della Costituzione fatta da Pio IX nel 1846, salvo a rimangiarsela poco tempo dopo, affidando al capestro, prima, ed alla ghigliottina francese, poi, ogni aspirazione libertaria ed egualitaria dei liberali in fermento nei territori della Chiesa.

Comunque, il giovane principe non si tirò indietro quando il padre, Carlo Alberto, dichiarò guerra all’Austria, combattendo valorosamente sia nella battaglia di Goito e sia in quella di Custoza nel 1848; e pari coraggio mostrò nella sfortunata battaglia che si svolse nel 1849 nella “brumal Novara”, il cui esito, negativo per il Piemonte, determinò l’abdicazione di Carlo Alberto.

Il giovane Vittorio Emanuele II ereditava così, a 28 anni appena, una parvenza di regno, quello sardo-piemontese, mentre un’onda di sconforto dilagò, dalle Alpi alla Sicilia, nel cuore di chi aveva sperato nel riscatto.

Ma furono proprio quegli eventi che fecero intuire al giovane Re come le sorti di casa Savoia erano, indissolubilmente, legate alla causa dell’indipendenza di tutto il popolo italico, la cui unità era sopravvissuta grazie alla comunanza della lingua, al comune senso religioso ed all’orgoglio di sentire nel proprio DNA la matrice latina.

Questa coscienza di essere l’esecutore di una volontà superiore, quella di tutta l’ “Intellighenzia” italiana che guardava al Piemonte ed al suo Re perché rinascesse la dignità di uno Stato nazionale, gli procurò le simpatie della borghesia, non certamente quelle di un popolo minuto, derelitto, sfruttato nel lavoro dei campi o nelle antigieniche filande, incolto ed analfabeta, quel popolo che applaudì, tanto per intenderci, al plotone d’esecuzione che fucilava i martiri superstiti della spedizione dei fratelli Bandiera, nel vallone di Rovito presso Cosenza nel 1844, o avvisò la gendarmeria borbonica dello sbarco sfortunato di Sapri da parte dei 300 romantici esaltati al comando di Carlo Pisacane.

Ma non si può fare colpa ad una massa di servi della gleba se alla stessa è mancata la pratica del sapere da cui scaturisce la dignità di un popolo.

Ed cominciò quel “decennio di preparazione” – 1849/1859 – che si iniziò col famoso proclama di Moncalieri del 20 Novembre del 1849, allorché Vittorio Emanuele II sciolse il parlamento che gli rifiutava la ratifica del trattato di pace con l’Austria ( trattato che non poteva non essere accettato, in conseguenza della sconfitta di Novara ) e si rivolse all’elettorato perché eleggesse deputati capaci di assumere, responsabilmente, decisioni importanti per i destini del Regno, in ciò sostenuto dal d’Azeglio che lo onorò, appunto, col termine di “galantuomo”.

Fu, certamente, quello il momento in cui un Re rifiutava una concezione assolutistica del proprio potere e, nel contempo, instillava negli italiani l’avverarsi dell’utopia della libertà, riaccendendo quello spirito nazionalistico che non è mai venuto meno da Tito Livio al Machiavelli.

Fu così che forzò persino la sua educazione cattolica facendo approvare le leggi proposte dal ministro Saccardi con le quali venivano soppressi i tribunali ecclesiastici, veniva posto un freno all’espansione dei beni ecclesiastici e non fu più riconosciuto, alle chiese, il diritto d’asilo. Da quel momento si sviluppò quel senso laicistico dello Stato che si concreterà con la presa di Porta Pia e con la legge delle “Guarentigie” del 13 maggio 1871.

Certamente grande sostegno all’esercizio del potere monarchico lo si dovette non solo al d’Azeglio, ma anche al Cavour, quando, quest’ultimo, fu nominato primo ministro nel 1852. Né bisogna credere che la forte personalità del d’Azeglio e del Cavour limitarono la libertà decisionale di Vittorio Emanuele; ad esempio, fu proprio il Re ad appoggiare la spedizione dei Mille, in contrasto con il Cavour che l’osteggiava ( ma delle vicende garibaldine è stata formulata una interpretazione storica, autonoma e distaccata, nel numero di questo sito Web-Magazine del mese di Marzo del 2004 dal titolo “La Spedizione Dei Mille”).

Certamente il Cavour, fine ” tessitore” nell’arte della diplomazia, fu determinante nell’imporre il problema italico alla conferenza di Parigi del 1856 ,dopo la conclusione della guerra di Crimea, e ad organizzare l’alleanza Franco – Piemontese che consentì l’acquisizione della Lombardia con la seconda guerra d’indipendenza del 1859; anche se quella fu una vittoria mutilata per la defezione improvvisa della Francia, allorché Napoleone III firmò l’armistizio separato con l’Austria, forse perché si temeva la nascita di uno Stato italico autonomo che avrebbe alterato gli equilibri politici ed economici dell’Europa di quel tempo. Anche in quell’occasione, il Re mostrò dignità regale e sagacia politica, dimostrandosi più lungimirante del suo primo ministro, il Cavour, che, recriminando per la fine inaspettata ed ingloriosa della guerra, aveva rassegnato le proprie dimissioni,

salvo, poi, ad accettare il reincarico di primo ministro, nel gennaio del 1860;

infatti, il Re aveva ben compreso l’impossibilità militare di proseguire, con le sole forze piemontesi, il proseguimento di una guerra che si sarebbe conclusa certamente con la mancata annessione della Lombardia; d’altra parte, fu, quello, l’esempio di una politica annessionistica dei piccoli passi. Né bisogna sottacere il comportamento eroico del Re nelle battaglie di Solferino e San Martino del Maggio 1859, quando, alla testa dei battaglioni franco – piemontesi, si lanciò nella mischia con indomito sprezzo del pericolo, tanto che i famosi soldati francesi, gli “Zuavi”, lo gratificarono con i gradi di “Caporale d’Onore”( settant’anni dopo, anche “qualcuno in Orbace” gradì quel tipo di onorificenza ).

E così, Vittorio Emanuele II “galantuomo” lo fu sino al termine dei suoi giorni, anche nella disastrosa campagna di guerra in occasione della terza guerra d’indipendenza, allorché cercò di suggerire ai suoi due generali, il Cialdini ed il Lamarmora, una cooperazione strategica che potesse giovare alle armi del nostro esercito, mentre subimmo ancora una cocente sconfitta a Custoza, dove, per la prima volta, scese in campo l’Esercito Italiano; ai nostri soldati non mancò né il coraggio, né l’amor di patria; quello che fu deprecabile, in quel frangente, fu la completa incapacità operativa e strategica del nostro alto comando.

Anche la nostra flotta veniva distrutta a Lissa ad opera dell’ammiraglio austriaco Thegetoff; eppure, nonostante le sconfitte, ottenemmo il Veneto, grazie alle vittorie della Prussia, nostra alleata contro l’Austria.

Fu galantuomo, ancora una volta, il Re, quando invitò il Papa Pio IX, con una appassionata e filiale lettera, a risolvere pacificamente la “Questione Romana”, ed al rifiuto del pontefice, suo malgrado, il Re fu costretto ad ordinare l’assalto di Porta Pia: era il 20 settembre del 1870.

E fu ancora galantuomo allorché accettò il responso delle urne, quando, nel 1876 le elezioni premiarono la Sinistra determinando quella “rivoluzione parlamentare”, che sostituì la vecchia destra radicata, da tempo, in una visione rigida e classista della politica.

Quelli che erano stati i protagonisti più rappresentativi della loro epoca, Vittorio Emanuele II e Pio IX, morivano, quasi contemporaneamente, nel gennaio del 1878.

Anche le dinastie hanno le loro eccezioni; basta un discendente a riscattare secoli di inettitudine politica di tutta una stirpe.

A Re Vittorio subentrava il figlio Umberto I, più famoso per l’insensibilità dimostrata per la violenta repressione dei moti delle lavoratrici e dei lavoratori milanesi durante gli scioperi del 1898, allorché premiò con una medaglia d’oro il generale Bava Beccaris che aveva represso, quest’ultimo, quei moti con i cannoni ad alzo zero, puntati contro centinaia di inermi lavoratori.

Il regicidio di Monza del 1900, ad opera dell’anarchico Arnaldo Bresci, vendicherà quella inutile ed orrenda strage.

Saliva al trono d’Italia Vittorio Emanuele III, più noto col titolo poco regale di “sciaboletta”, relativa alla bassa statura del monarca, a cui corrispose, con tragica esattezza, la limitata visione e valutazione degli eventi nazionali ed internazionali, il cui epilogo ebbe termine tra le macerie e le stragi di una guerra conclusasi il 25 aprile del 1945. Ma questa, è un’altra storia…

Giuseppe Chiaia ( 7 maggio 2004)