Come, tutto, può finire!
Una vita al buio (c)(c)
Proponiamo la continuazione del diario di vita vissuta, inaugurato in questa sezione. Avrete la possibilità di visionare materiale “intenso” e, a tratti, “sofferente” ma, sempre, vero e scevro di contenuti ipocritamente enfatici, ricevuto dal figlio di un noto personaggio della Sanità italiana, fino agli anni novanta. L’intento dell’autore è quello di far emergere tutti i risvolti umani di una vicenda triste e “amarissima”, con l’intento manifesto di tentare di risalire la china… partendo “dal sottoscala”. Si fa presente che, comunque, le valutazioni espresse, sono soggettive e (volutamente) romanzate.
… Ricordo poco di quella prima sera subito dopo lo shock dell’arresto di mio padre, ma so per certo che appena mi coricai a letto (nella consueta posizione a pancia in giù con faccia contro il cuscino) capii immediatamente che avrei anche potuto sforzarmi per ore e piangere in arabo ma di prendere sonno non se ne parlava proprio.
Dopo pochi secondi avevo già recuperato sparsi in giro un po’ per tutta la stanza gli abiti indossati duranti quella movimentatissima giornata e varcando la soglia della porta di casa, ricordo che lasciai tutte le luci accese come implicito impegno e promessa a me stesso che non mi sarei trattenuto fuori a lungo.
Ero molto agitato, spaventato, confuso e stordito: una stato d’animo al limite della fobia isterica. Vivevo allucinato da paranoie riferite a pericoli che nemmeno esistevano nella realtà (o almeno diciamo che vedevo ogni possibile insidia con la lente d’ingrandimento) ed ero dilaniato da un ansia lacerante e incontenibile che mi induceva uno stato di irrequietezza motoria, non trovavo pace in alcun modo e qualsiasi cosa facessi non potevo impedirmi di rimuginare in continuazione su quanto era accaduto: una doccia ghiacciata e al tempo stesso ustionante che voleva convincermi che la realtà che mi ero stato dato vivere per 24 anni era falsa, una fantasiosa, fantastica, incredibile illusione, un’abile e sapiente messa in scena in un teatro di posa di quart’ordine; potevo trincerarmi finché volevo nell’infantilismo dei miei ostinati “non ci credo”, “non può essere” “si risolverà a breve e tornerà tutto come prima” ma in cuor modo sapevo bene che tutto sarebbe invece cambiato e che la mia vita da quel giorno non sarebbe stata mai più la stessa.
Mio padre non era più un temuto, rispettato, ricco, brillante imprenditore, studioso padre di famiglia ma come scrisse a chiare lettere B. B. (figlia di un illustrissimo giornalista e scrittore) sulla prima pagina de “Il Giornale” un “ladro volgare senza la raffinatezza di Arsenio Lupin”, facente parte di quella smargiassa e becera “gentaglia che come unica ambizione ha la macchina sportiva, il motoscafo veloce e la villa in riviera”….
A commento dell’illuminato fondo (o meglio, affondo) della B. non scrivo una riga perché si commenta da sé; …senza considerare poi che per mio padre valeva la battuta che fece l’on. Bossi a proposito (mi pare) dell’on. Mino Martinazzoli quando disse “quell’uomo è un mistero anche per se stesso”.
Chi ha conosciuto bene mio padre sa che era un uomo per il quale poteva essere vero tutto e il contrario di tutto, riusciva a cambiare opinione su una stessa questione anche 100 volte nell’arco di una giornata; quando troppe persone si trovavano d’accordo con lui su qualcosa, dandogli ragione si convinceva d’avere torto; alternava momenti di infinita sensibilità e tenerezza ad altri di ferocia inaudita; a volte, quando non veniva capito al volo dalla pazientissima e abilissima segretaria, alzava di scatto la voce e cominciava far volare badilate di insulti che non cessavano del tutto neppure quando costei in lacrime tremante come una foglia si allontanava per ricomporsi; oscillava tra stati di esaltazione maniacale ed euforia incontenibile a stati di melanconia, ansia, depressione: l’unica cosa certa è che faceva sempre e comunque di testa sua, non dava mai retta a nessuno. Lui solo sapeva quale demone saliva di volta in volta in cattedra nella sua psiche, quale fuoco lo dilaniava dentro, quale mostro gli mordeva l’anima mentre ubbidiva ai suoi irrefrenabili impulsi e comandi interiori. In prima approssimazione si potrebbe dire che non aveva filtro, era totalmente privo di super-io, viveva solo di ID (o ES ): amava le sensazioni forti, gli eccessi, la vita per lui doveva essere come uno schianto.
Era un uomo maledettamente egocentrico, eccentrico e sempre al di sopra dei ranghi e delle righe: aveva in spregio la mediocrità, aborriva le convenzioni e convenzionalismi così come provava disgusto per quella società perbenista e di mentalità piccolo – borghese dalla quale, suo malgrado, proveniva come estrazione sociale e verso la quale cominciò già in tenerissima età a manifestare segni di straripante e violenta insofferenza, incontinenza, repulsione.
Si tratta di un uomo i cui propositi “suicidi” risalgono al ’78 ossia al periodo post-separazione (con relativo allontanamento dal tetto coniugale): la sua vita si era ridotta, come lui stesso amava raccontare, ad un costante e disperato anelito alla morte, l’unica liberazione e salvezza di fronte all’invincibile male oscuro che lo aveva messo k.o. (a suo dire) per sempre.
Ritornò alla vita solo grazie alla scoperta, per lui magica, e di origine quasi divina, (avvenuta per mezzo dell’insigne prof. T.) dell’unica medicina che ancora non aveva provato, la sola che si rivelò veramente efficace nei confronti della sua gravissima patologia: l’elettroshock.
I primi gli vennero praticati in una casa di cura privata nei pressi di Verona.
Il problema è che lui voleva sempre tutto e subito e malgrado gli fosse stato più volte e a chiare lettere che più di due “botte” (applicazioni) alla settimana erano del tutto sconsigliabili e forse anche nocive per la sua stessa salute, lui continuò ad insistere fino all’esasperazione per completare il ciclo di 8-10 applicazioni anziché in 3-4 settimane di ricovero (come la scienza e il buon senso sei medici suggerivano) in una o al massimo due settimane…
Uscito dal ricovero di Verona comunque era fresco come una rosa, pimpante come un grillo, sano come un pesce, entusiasta come un ragazzino, sprizzava da tutti pori un’incredibile gioia di vivere: era veramente rinato, aveva trovato la soluzione a tutti i suoi problemi. Santo elettroshock!
Un amico di famiglia soprannominato “Il Basco” per via del basco in pelle nera che teneva perennemente adagiato sulla testa per coprirne l’incipiente e precoce pelata (oltre ad un’orribile escrescenza di pelle ipertrofica e voluminosa che campeggiava sulla parte inferiore del cranio che i medici avevano classificato come innocua cisti) separatosi recentemente dalla moglie e privo di un lavoro stabile per via della sua testa calda (per usare un eufemismo), che occupava il suo tempo facendo a mio padre da autista, fattorino, procacciatore di donne di facili costumi (e che vegliava su di lui nei giorni del ricovero), racconta ancora oggi che tale fu lo stupore per il beneficio procuratogli da quella scarica di corrente, che per un tempo infinitesimale gli aveva attraversato il cervello e tale la sua costernazione per le ( a sue dire) ingiustificate precauzioni e limitazioni che gli ponevano i medici nell’utilizzo, che espresse la volontà (e questo credo possa dare la misura del personaggio) di segnarsi nel corso della sua successiva trasferta nella stanza dei miracoli i dati dei macchinari prodigiosi per procurarsene di analoghi a farsi autonomamente le successive applicazioni a domicilio, nel piano seminterrato della sua villetta di via S. a Milano.
Mio padre conobbe Basco che sbarcava il lunario come venditore “fai da te” di auto usate, perlopiù fuoristrada sporchi di fango per via del loro impiego in improbabili raid nel deserto (Lui stesso dice di aver partecipato a ben tre Parigi – Dakar, con quale veste e ruolo non è dato sapere) e questo lo legittimava (a suo dire) ad avere sempre le mani perennemente nere come il catrame ( anzi di più).
Il mondo era, in quella fase “Iper” della sua patologia, davvero ai suoi piedi, non gli mancava nulla: cominciava quella sua nuova vita da scapolo d’oro (con un matrimonio fallito alle spalle che aveva già dimenticato e due figli ancora piccoli che, vivendo con la madre, non potevano dargli troppo fastidio, erano anzi per la verità un divertente giocattolo con cui dilettarsi ogni tanto) con una frenesia burrascosa, una smania incontenibile, quasi contagiosa, un fremito marinettiano verso l’azione e la velocità.
La guerra come sola igiene del mondo, era un concetto che, per intenderci, gli piaceva moltissimo (una Nietzscheana super esaltazione).
Aveva salute, soldi, successo professionale, libertà e ora anche un pazzo (che comunque aveva fatto bene i suoi calcoli perché in quel periodo mio padre era anche straordinariamente generoso nei confronti dei suoi fedelissimi più irriducibili) più scatenato e esaltato di lui, al suo fianco…uno che aveva assai poco da perdere, disposto a fargli da spalla nelle imprese più pazzesche e temerarie.
La sua villetta non assomigliava certo alla spenta abitazione incolore e precisina dei suoi colleghi medici né per l’arredamento in stile barocco – kitsch, né per la variegata fauna di personaggi che vi gironzolavano su e giù per tutti e 4 i piani giorno e (soprattutto) notte: una galleria di campioni di svariata umanità che avrebbe, nel suo insieme, sconvolto chiunque; senza parlare delle donne (argomento che meriterebbe un capitolo a parte) ,al cui fascino mio padre è sempre stato molto ( sin troppo) suscettibile: aspiranti attrici venute dalla provincia disposte a tutto per una parte o una comparsata anche in qualche tv locale, ballerine di night, spogliarelliste, avvenenti straniere senza permesso di soggiorno, pseudomercenarie (pseudo è di troppo) di ogni sorta, colore ed età… e chi più ne ha più ne metta
Il procacciatore ufficiale (mio padre ovviamente non avevo tempo da perdere in convenevoli) era un fotografo, tale B. R. Un uomo robusto con due baffoni neri da sparviero, un uomo dai modi molto sbrigativi e grossolani, dalla simpatia travolgente ed esplosiva che le donne le valutava a peso e altezza…
Nel giardino della villetta aveva fatto erigere da uno scultore piemontese un trono in pietra con lo schienale alto 3 metri che serviva anche per fare le sue sceneggiate di grande e devoto innamorato dopo averne fatto adagiare sopra la malcapitata preda di turno per farla sentire la regina della situazione, sul muro di cinta avevo fatto appendere una tavola di ferro con appiccicata sopra la scritta a lettere di bronzo alte mezzo metro l’una “No timeo adversa” (non temo le avversità), particolare notato anche vent’anni dopo da qualche giornalista divertito e senza scrupoli per sottolineare l’ironia della sorte e filosofare di conseguenza sulla fine che fa chi crede di essere invincibile.
Mio padre sapeva di essere pazzo, almeno secondo la psichiatria ufficiale, ma sapeva anche che “pazzo” deriva da “pathos ” e quindi energia e poi di ciò che gli spiegavano gli psichiatri circa la loro presunta approfondita conoscenza della sua malattia (empirica, accademica, clinica e chi più ne ha più ne metta: le fasi “ipo” e “iper”, la biochimica cerebrale, i neurotrasmettitori, la ciclicità della stessa ecc.) lui se ne infischiava altamente.
Secondo lui le malattie, soprattutto in campo psichiatrico, le inventano spesso i medici per fare soldi (non esisteva per lui infatti categoria più venale ed argentofila della classe medica); inoltre, nella sua gravissima malattia ci stava davvero benissimo: per ora si sentiva un drago, un leone, un semidio, era questa l’unica cosa che per lui contava veramente.
Quale finto problema deve essere mai l’essere rispetto agli altri “un po’ troppo su?”
Il problema sussisterà forse se mai per chi sta più giù…. Perché sforzarsi poi sempre di dare un nome a tutto; depressione maggiore, disturbo bipolare (psicosi maniaco depressiva), disturbo schizoaffettivo, OCD (obsessive compulsive disorder) e via, forza, giù con tutte le altre definizioni…
Perché cercare sempre di ricondurre entro rigidi schemi gnosici e cognitivi (spesso già superati da nuove determinazioni della scienza stessa) tutte le misteriose e magiche dinamiche dell’insondabile anima umana. Mia sorella scrisse una frase in una sua canzone (che non ebbe per la verità molto successo) “Bruciamo i trattati di psichiatria che uccidono il mistero della nostra follia”.
Mio padre che conobbe il massimo momento di benessere economico ed interiore negli anni della Milano socialista e craxiana, con tutti i soldi che gli giravano attorno s’era presto convinto che il mondo come soleva ripetere lui era “metà da vendere e metà da comprare”: la vita gli aveva insegnato che non esisteva niente e nessuno in grado di resistere al potere del denaro….
CONTINUA…
Fabrizio Poggi Longostrevi