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Ma che ci fa un carcere, di fianco a un viale parco?


 

Prendo in prestito, per un secondo, il titolo di un film che ho sempre amato, modificandolo appena (piedi invece che mani) ma coincidente con le mie riflessioni nella manifestazione della sofferenza di chi è ferito.

Le vedi lì, un po’ distanti ma ben definite, che si agitano nel vuoto sparendo e riapparendo dietro i ferri delle finestre.

A volte si fermano e premono contro le sbarre afferrandole, cercando quasi di dilatarle per meglio vedere e salutare. Poi, ormai sfinite, si ritraggono per un attimo ma subito riemergono con le palme pallide che risaltano dietro il nero petrolio delle grate, sventolando come bandiere che si incrociano nell’aria.

Dialogano con altre mani che, dal basso e in lontananza, ricamano le stesse traiettorie ma libere e incontrastate nei loro volteggi, senza dover rendere conto a limiti spaziali o peggio a ordini normativi.

Si salutano, si riconoscono e si abbandonano ai loro codici famigliari.

Incroci queste scene mentre sei lì, sudato sul viale parco, cercando di dare vitalità ad un corpo che ti sfugge dal controllo e che cerchi di dominare piegandolo a ritmi innaturali, in nome di un estetismo salutista che ammorba l’aria, costringendo tanti altri ad affollare il viale parco percorrendolo a piedi o con la bici.

Ma che ci fa un carcere di fianco a un viale parco?

Chi ha concepito, accoppiandoli, un simbolo di libertà e uno di restrizione?

Quale sadismo potente ha lavorato per realizzare una tale situazione?

In più, come se non bastasse, dall’altro lato della visuale sfilano a perdita d’occhio campetti di calcio e calcetto mentre palazzi a schiera avanzano frontalmente cannibalizzando ogni distanza di sicurezza e di spazio vitale .

Infine, se percorri l’ultimo tratto del viale che conduce al fiume, arrivi nel territorio del campo-rom, ultima stazione di una surreale via-crucis metropolitana.

Rimani stordito cercando una logica, anche se parziale, che possa giustificare il tutto.

Avanzano retropensieri e pensieri laterali che si cibano di un alterato senso di giustizia e ti dicono che è giusto che, in carcere, chi ha sbagliato stia lì a soffrire doppiamente sia per il male causato sia per la visione di ciò che la società gli sottrae.

Pensieri ancestrali da primi posti di banchetto per persone dabbene, figli di un micro mondo personale immacolato che lacera ogni senso di pietà e rispetto e ti colloca serenamente nel tuo territorio di facile sicurezza in una società che troppo facilmente si benda gli occhi o distoglie lo sguardo.

Non scandalizza neanche più l’ennesimo suicidio che avviene dietro le sbarre non soltanto dei detenuti ma sempre più delle guardie di custodia dei penitenziari.

Rientri in casa sudato e sotto la doccia ti accorgi che man mano l’assedio di quei pensieri nefasti si ritrae e riflettendo senza serbatoi di pseudo-giustizia speri che tutte le altre persone che hai incontrato nel viale siano angosciate come te, sentano un peso nello stomaco che non va via e come te riflettano cercando di fare qualcosa, scrivendo, denunciando, operando per quelle altre persone che quotidianamente, nascoste nel volto, affidano la loro dignità di esseri umani alle loro mani nude.