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Lasceremo i campi, la casa, la donna che amiamo


 

Linquenda tellus et domus et placens uxor*.

(Lasceremo i campi, la casa, la donna che amiamo)

Se dovessi fotografare in un attimo la condizione esistenziale e la matrice psicologica della gente calabrese sembrerebbe che nessun altro assioma, meglio di questo verso delle Odi oraziane, riesca a condensarne le specificità identitarie.

Non c’è certo da stare allegri se dovessi tentare di dare una connotazione positiva alla risposta sollecitata dal titolo iniziale.

E poi, esiste veramente una identità calabrese?

Qual è l’identità?

Quella che pensiamo avere noi stessi o quelli che ci cuciono gli altri addosso?

O ancora, quella che pensiamo gli altri abbiano di noi?

E che cos’è, infine, l’identità?

Cercando di dare una risposta sia storica sia elaborata da percezioni personali m’accorgo che il ventaglio delle ipotesi si tinge di nero.

Eppure, se lancio lo sguardo nella memoria del tempo, le nebbie che uniscono storia e leggenda facevano intravedere, in quella che oggi si chiama Calabria, una grande civiltà urbana, tra l’altro, nello stesso periodo in cui Roma era soltanto un modesto villaggio di pastori e le colonne d’Ercole segnavano i confini del mondo conosciuto.

Noto addirittura con una certa soddisfazione che quella terra, che prima si chiamava Enotria e poi Calabria, per un certo periodo si è chiamata addirittura Italia, con buona pace di alcune odierne menti secessioniste.

Forse essere calabresi in quel periodo era facile, facile anche da dirsi, senza alcuna vergogna e senza nessuna pesantezza folklorico-oleografica come quelle ormai insopportabili del peperoncino, della Calavrisella, del carattere indomito, della natura incontaminata, ecc. ecc.

Dicevo la vergogna.

Come non dire che la vergogna e la difficoltà di presentarsi come calabrese hanno accompagnato poi la nostra storia fin dalla leggenda dei Bruzi uccisori di Cristo, via via fino alla Calabria invasa dalle grandi case dinastiche dell’Europa medievale, fino ai grandi viaggiatori del nord-Europa del ‘700 e dell’800 che vengono per descrivere gli Ottentoti, o il paradiso abitato da diavoli, proseguendo poi con la colonizzazione politico-militare del Risorgimento, terminando con le teorie razzistiche che dall’ inizio del ‘900 fino ai giorni nostri disegnano il calabrese come prodotto imperfetto di una mistura storico-antropologico- sociale?


Razza maledetta diventa il connotato culturale del calabrese.

Per il Padula, tra i suoi frati, romiti e monache addirittura “un Cristo di carne”.


Il tempo delle gesuitiche indie di qua o del lombrosiano cliché del calabrese geneticamente criminale, non è molto lontano così come non è lontano, per estensione, il leviano Cristo si è fermato ad Eboli oppure il più prosaico cartello riassuntivo padano “Non si affitta ai meridionali“.

Nei miei sogni fantasiosi e risentiti, causa questa realtà disperante che ha disegnato sempre la Calabria, e il sud in generale, come loci inamoeni e geograficamente inferiori, logisticamente giù, per tirare un respiro profondo e pacificatore ho visualizzato il globo alla rovescia, ribaltando lo stereotipo visivo e concettuale che da Tolomeo, Mercatore fino a Peeters ha cristallizzato il mondo, patentando culturalmente la parte nord come polo positivo e quella meridionale come abitata da brutti sporchi e cattivi.

Ma non c’è nulla da fare.

Questa visione rimane soltanto un sogno.

Nella testa continuano a martellare, insistenti, le declinazioni negative di un fosco pentagramma a cui la mia razza è stata sottoposta e che ne hanno tratteggiato l’identità.

Indelebile, poi, nel mio cervello, le inquietanti teorie positivistico-antropologiche e medico-psichiatriche che hanno bollato il calabrese nell’inconscio collettivo nazionale, e anche extra.

Un isterico-epilettico e melanconico, fisiognomicamente encausto di rughe, che traduce le caratteristiche geo-ambientali della realtà che lo circonda in apparato biologico e psicologico.

La terra ballerina e il paesaggio aspro e tumultuoso plasmano una psiche devastata e irrecuperabile. Non è un caso, che per traslato, ogni manifestazione del genio artistico o dell’animo popolare sia plumbea, convulsiva o curvata pessimisticamente.

Dalla musica,che non va al di là di ritmi monocordi o ipnotici sottolineando,appunto,nessuno spirito propositivo, al teatro, che mette in scena dialoghi urlati e battute che forzano il sorriso e situazioni sempre sottilmente o platealmente violente, fino alla visione monocromatica della realtà che nel nero dell’abbigliamento rivela tutto un amaro magma psicologico.

D’altronde, il tratto subbiettivo della precarietà, della instabilità, che si travasa dal contesto in cui vive, sostanzia poi molte delle creazioni del suo intelletto che nel non-finito e nella incompletezza trovano la loro incarnazione.

Potrei consolarmi pensando che questo riguarda il passato.

Ma il presente quale ribaltamento offre?

Ahimè, credo poco o niente.

Le déluge!

La Calabria di oggi perpetua ancora quella di ieri e non a caso, chi volesse sapere chi è e qual è l’identità del calabrese, deve ancora ricorrere a Norman Douglas o Corrado Alvaro.

Neanche l’istituzione di tre emergenti università calabresi è riuscita ad intaccare uno stereotipo consolidato. E negli altri campi?

Quale politico calabrese è oggi degno di tal nome?

Quale scrittore calabrese – se si eccettua Carmine Abate, vincitore di premi nazionali e internazionali, nato a Carfizzi (Crotone), comunità arbereshe della Calabria e residente in Trentino, può essere considerato tale?

Quale regista, al di là del bravissimo Gianni Amelio?

Quale scultore, se non Mimmo Rotella?

Sembrerebbe che nei tempi in cui si parla di titanici ponti sullo stretto il calabrese sia rimasto ancora legato all’icastica sentenza alvariana: “E’ un fatto che qui manca la nozione geometrica della ruota”

In questi giorni di melassa elettorale in cui i faccioni dei cartelloni ti tranquillizzano, dicendoti che sono-uno-come-te, si è fatto anche riferimento alle calabrie, non sopita parcellizzazione, appunto, di un concetto identitario mai definito.

E’ vero che, prima della pentapoli odierna calabrese, girava il detto: a Reggio si parla, a Cosenza si pensa, a Catanzaro si fa” non per definire una oblativa e non richiesta solidarietà ma per sottolineare, evidentemente, una clamorosa e personale insufficienza nella gestione delle cose.

Che dire ancora?

Che abbiamo sbagliato a nascere in questo periodo?

Che la situazione si risolleverà e che è vero che la bellezza ha un passato chiacchierato, come ha sussurrato un poeta calabrese?

Forse, forse, nella bocca dei calabresi, l’aforisma di Brecht non sarebbe fuori luogo:

Ci sedemmo dalla parte del torto visto che tutti gli altri posti erano occupati

In conclusione, alcune definizioni relative all’identità dei precari calabresi della scuola!

Drappelli di precari buzzurri italioti; orde di butteri cisposi in cammino dalle balze della Sila; tamarri levantini eredi pitagorici;scariolanti borbonici e carbonari sissini;ordinaristi gioachimiti di spirito profetico dotati;zotici delle forre aspromontane eredi magnogreci; villani riservatisti dai calanchi del pollino dal rubicondo incarnato;criminali lombrosiani geneticamente condannati;enotri ruspanti amanti bacchici e apprendisti orfici di terza fascia;discendenti alcidiesi declamanti peàna; precari storici e quintociclisti impacciati;mezzadri delle serre salmodianti preci campanelliane;schiatta di cassiodoro crocevia di classico,barbarico e cristiano; telesiani accademici iuxta propria principia.