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Genetica. Ma non solo.


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Il disturbo depressivo maggiore, associato alla sua elevata frequenza, rappresenta una delle malattie neurobiologiche debilitanti più comuni. Nonostante ciò, ad oggi poco si conosce circa l’esatto meccanismo molecolare e cellulare che conduce alla identificazione della sua patofisiologia.

Nel corso di una recente ricerca pubblicata su Nature Medicine (A negative regulator of MAP kinase causes depressive behavior. Vanja Duric, et al. Nature Medicine Published online 17 October 2010) viene identificato un gene, MKP-1, il cui livello di espressione risulta molto elevato in pazienti depressi.

Usando profili di espressione genica di tessuti prelevati post-mortem è stato dimostrato un incremento significativo dell’espressione del gene nell’ippocampo di soggetti depressi comparati ad un gruppo di controllo. MKP-1 codifica per una proteina che appartiene ad una famiglia deputata alla defosforilazione dei residui di treonina e tirosina. Svolge quindi un ruolo chiave come regolatore negativo in una delle maggiori vie di trasduzione del segnale coinvolte nella plasticità sinaptica, nella funzione e sopravvivenza neuronale. Gli autori testano il ruolo dell’espressione alterata del gene in modelli animali di topo e di ratto depressi e trovano che l’incremento di espressione nell’ippocampo, come il risultato di stress o altro, è causa di comportamenti depressivi. Al contrario, il trattamento antidepressivo cronico normalizza la sovraespressione del gene indotta dallo stress ed è stato dimostrato che topi deleti per MKP-1 sono resistenti allo stress.

Questi studi identificano in MKP-1 un fattore chiave nella patofisiologia del disturbo depressivo, rendendolo un bersaglio promettente per interventi terapeutici. Bloccando farmacologicamente MKP-1 si potrebbe produrre resistenza allo stress oppure ottenere una migliorata risposta ad altre classi di antidepressivi. Il potere enzimatico di MKP-1 è dunque grande e il suo ruolo nel trattamento della depressione ed eventualmente di altri disordini è rappresentato dalla possibilità di diventare bersaglio di nuovi farmaci antidepressivi.

 


Ferdinanda Annesi – Biologa C.N.R.

 

Riflessioni

 

Giusto per non indurre confusione, è bene spiegare il senso della scoperta. Si è, sostanzialmente, individuato uno dei geni coinvolti nella manifestazione del disturbo depressivo maggiore. Questo non significa che tale disturbo sia “genetico” e quindi si lo si sviluppi solo a condizione di essere portatori del gene in questione.

Infatti, questo gene, è in grado (attraverso la stimolazione di produzione di proteine), di inibire il funzionamento di alcuni processi per cui, sotto stress, alcune persone che “fanno esprimere” maggiormente questo gene, determinano la produzione di quadri depressivi.

L’esperimento e gli studi correlati, di per sé estremamente interessanti, partono dall’aver osservato, in un certo numero di persone defunte (che avevano prodotto la sindrome depressiva), una maggiore quantità di quella proteina indotta dal gene in questione.

Tutto ciò, avrà una ricaduta positiva sullo studio di farmaci capaci di “dialogare” col gene, “modulando” la sua attività. Riflettendo con accuratezza, però, ciò non comporterà, logicamente la risoluzione del problema ma solo l’interruzione della catena di eventi che lo manifestano. Un po’ come interrompere la catena di eventi (anche a base genetica) che ci consentono di sentire dolore a seguito di un trauma. L’assenza della percezione del dolore (pur alleviando le pene) non garantirebbe la salute della parte traumatizzata.

A questo punto bisogna considerare due fattori:

  • La capacità di rapportarsi allo stress (in funzione della quale quel gene “si fa sentire” di più);
  • La “lettura” di alcune parti del DNA piuttosto che di altre, indotta da segnali esterni alla cellula, che vengono selezionati in base a “valutazioni” a carico della membrana cellulare.

 

Come al solito, il discorso è conseguente a sinergie fra Hardware (genetica) e software (ambiente). Da un po’ di tempo, infatti, si è accettata l’idea che un problema di salute, sia conseguente ad una molteplicità di fattori (ambiente, stile di vita, alimentazione, costituzione genetica, influenze epigenetiche, etc.)

 


Giorgio Marchese – Medico Psicoterapeuta