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Un “bel” tuffo nel “profondo”…


A spasso verso un futuro migliore

A scuola si diceva: “La filosofia è quella cosa con la quale e senza la quale il mondo resta tale e quale”. Ebbane, credetemi: nulla più inesatto è stato mai detto. La filosofia forse (e in questo “forse” c’è già molta filosofia) è l’unica attività umana in grado di cambiare l’esistenza di un uomo. Se tanti nostri politici avessero praticato di più la filosofia, forse non avrebbero commesso tutte quelle sciocchezze che poi hanno finito con il commettere. Cerchiamo, allora, una definizione migliore. Il significato etimologico della parola (da phìlos, amico e sophìa, sapienza) ci aiuta ben poco: si può benissimo amare la sapienza e la cultura senza per questo essere filosofi. Proviamo, semmai, a definirla così: “quell’attività mentale che cerca di valutare il senso delle cose”. In altre parole, se è vero chye tutto ciò che capita nella vita ha una sua importanza, più o meno grande, cerchiamo, a forza di raffronti, di costruirci una scala di valori su misura, sulla quale poter poi compiere le nostre scelte. È più importante, tanto per dirne una, il Potere, il Successo, l’Amore, il Denaro, la Libertà, il Sesso o la Felicità del prossimo? Ebbene, stabilire una graduatoria del genere vuol dire fare filosofia. Lo so che, giunti a questo punto, i filosofi, quelli veri, storceranno il naso. Per loro la filosofia è tutt’altra cosa: diranno che è solo filosofia spicciola, buona tutt’al più a scrivere i biglietti dei Baci Perugina. Ma qui non si sta parlando tra gente comune, tra non addetti ai lavori. Vuoi vedere, invece, che a forza di parlarne così, terra terra, si finisce col convincere qualcuno a riflettere un po’ di più, e magari anche col diminuire il numero dei suicidi? All’inizio della storia del pensiero, la filosofia, a seconda dell’argomento trattato, si divideva in fisica, etica, estetica, politica, poetica, metafisica, ontologia e chi più ne ha più ne metta. Poi, con il passare del tempo, alcune di queste branche hanno ritenuto opportuno mettersi in proprio, lasciando la sola ontologia a fare gli onori di casa. Dal secolo scorso, infine, la filosofia si è ridotta a qualcosa che sta a metà strada tra la scienza e la religione (come dire la sinistra e la destra del pensiero). Ma chi è stato l’inventore della filosofia, almeno in Occidente? Per i manuali scolastici non ci sono dubbi, è stato Talete, il filosofo di Mileto. A ben guardare, però, questo brav’uomo (famoso per la sua distrazione) si era limitato ad avanzare l’ipotesi che i fenomeni naturali fossero da addebitare alla Natura e non agli Dei. Fino a quel momento, infatti, qualunque cosa accadesse sulla Terra veniva interpretata in chiave religiosa. C’era stata una tempesta? Evidentemente Zeus, quel giorno, si era alzato di pessimo umore. C’era stato un terremoto? Tutta colpa di Poseidone che la sera prima aveva litigato con Atena e si era rigirato sottoterra. Insomma, con Talete nasce la scienza ma non la filosofia. La quale, invece, si farà attendere almeno altri due secoli, cioè fino a quando Parmenide e Zenone si recheranno in Grecia per partecipare alle Panatenee. Ecco, più o meno, cosa accadde quel giorno. Ad Atene erano in voga i salotti letterari: ci si riuniva in casa di qualcuno e si parlava di tutto, di politica, di etica e dei fatti del giorno. La riunione a cui facciamo riferimento noi si tenne nel 450 a.C. in casa di Pitodoro. Socrate, all’epoca, aveva solo vent’anni, ma era già quel grande rompicoglioni maieutico che tutti conosciamo. Gli intellettuali presenti erano tutti vestiti alla moda, ad eccezione di Parmenide e Zenone che, in quanto cafoni provenienti da Elea, un paesello della Lucania, erano piuttosto malmessi. Entrambi ignoravano le raffinatezze del vivere greco, anche se, tra i due, c’era qualcosa di più del solito rapporto tra maestro e allievo. Quando uno dei presenti chiese a Parmenide di esprimere il proprio pensiero, Zenone ritenne suo dovere metterlo in guardia: “Bada bene” – gli disse – “che se anche il mio maestro parlasse, tu non capiresti nulla!”. La frase era tanto offensiva, quanto veritiera. A parte Socrate, infatti, tutti gli altri si smarrirono per strada non appena Parmenide cominciò a parlare del Simile e del Dissimile, per poi passare all’Uno, che in quanto Unico, doveva essere anche Intero, Immobile e Ingenerato. Ora, detto tra noi, cosa aveva comunicato Parmenide di così importante da dover diventare, solo per questo, il padre della filosofia? Semplicemente che nella vita c’è l’Essere e il Non Essere, e che quest’ultimo non esiste, anche se disgraziatamente si ostina a farsi vedere. Il Non Essere per Parmenide era l’apparire, tutto quello, cioè, che ci affascina con le sue tentazioni e che non mantiene mai le sue promesse. Come dire: se volete essere felici, badate più alla sostanza che non all’apparenza delle cose. Esempio: se nella vita volete fare gli attori, sappiate che c’è molta più felicità nel diventare trasmettitori di emozioni tra autore e spettatore (l’essere dell’attore), che non nel diventare divi di successo, avere la foto in copertina e mettere gli autografi (l’apparenza dell’attore), come ben ha appreso, per averlo sperimentato sulla propria pelle, una star del calibro di Marilyn Monroe” (Luciano de Crescenzo – Il caffè sospeso – Mondadori Ed. Milano 2008).

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Caro dottore, abbiamo affermato che, quando abbiamo dei ricordi negativi, dobbiamo liberarci di questi dati in memoria per stare meglio: ma è vero che rimuovendo l’episodio negativo, l’evento, comunque, rimane?

A volte lo dimentichiamo, altre volte rimangono delle tracce i cui contenuti emozionali saranno di entità infinitesimale. Come dire, si sbollisce la rabbia ed il fastidio residuo… è di poco conto.

Mi spiega la definizione d’inconscio, conscio e preconscio?

Sono definizioni un po’ antiche, oggi si parla di consapevole e inconsapevole. Il conscio o consapevole, è la parte della nostra personalità che ci consente di renderci conto dei nostri pensieri e anche di quello che accade nel mondo esterno a noi.


L’inconscio o inconsapevole, riguarda invece il settore delle attività vitali organiche e mentali di cui non riusciamo a seguire consapevolmente l’andamento, ma le percepiamo attraverso il nostro umore: il buon umore è dato dal corretto rapporto fra corpo e psiche e dall’appagamento dei principali bisogni “qualificanti” (autoaffermazione ed autostima); il cattivo umore è il risultato di “temporali” interiori.


Il preconscio, secondo Freud, indica i contenuti psichici assenti dal campo della coscienza, ma che in esso possono, in qualunque momento, comparire: ad esempio, i ricordi, che sono “riattivabili”.

In pratica, volendo fare un esempio, potremmo paragonarci ad un palazzo, con l’ascensore che rappresenta la nostra identità. Si può andare dai piani interrati (inconscio) alle cantine del piano terra (preconscio), fino ai piani superiori (conscio).

C’è un modo per entrare nell’inconsapevole e far uscire tutto quello che ci infastidisce?

Migliorando il rapporto con se stessi, si arriva al punto di fare autoanalisi frequente e, in questo modo, con i giusti apprendimenti, si armonizza il mondo interno; ad esempio, ad ogni piccola variazione d’umore non giustificato da variazioni esterne si va ad individuare il punto dolente all’interno di sé. Se ho il mal di testa, ho bisogno di capire quali siano le motivazioni eziologiche, altrimenti resterò schiavo di qualunque evento, in balia di me stesso. La cefalea può essere dovuta a fattori psicologici, ad alimentazione incongrua, al fumo, al consumo eccessivo di alcol, ad infiammazioni, ad ipertensione arteriosa, a disturbi articolari. Ognuno i noi, può arrivare a capirne l’origine, per sapere come comportarsi: non è fantascienza. Inoltre, con una buona gestione del nostro mondo interiore, mediante la grande connessione psiconeuroimmunoendocrinologica, possiamo (inconsapevolmente) attivare la secrezione di cortisone endogeno, che è un potente antiinfiammatorio in grado di placare il dolore. Lo stesso discorso può valere per qualunque tipo di disturbo. Provare per credere!

Lei ha già parlato di psicogenealogia, potrebbe rinfrescarmi le idee, circa il fatto che il nostro destino sarebbe condizionato dalle esperienze di vita dei nostri antenati?

Cominciamo col precisare che non teorizzato la psicogenealogia ma mi sono limitato a descriverne i contenuti salienti, rendedendoli più divulgativi. Effettivemente è un discorso interessante con risvolti sorprendenti.

Innanzitutto, si parla di condizionamenti derivanti da una sorta di memoria “inconscia” nella quale sarebbero racchiuse le esperienze vissute dai nostri avi.

Si, in un certo qual modo, è vero.

C’entra per caso il famoso “inconscio collettivo” di cui parla Carl Gustav Jung?

Dobbiamo rifarci, per un momento, al concetto di simbolo e di archetipo. Il simbolo, svolge una funzione di mediazione fra la parte più inconscia e quella più percepibile. Una sorta di “oggetto codice”, che vuol significare qualcosa, al di là del semplice apparire in quanto tale. In parole povere, costituisce un qualcosa che induce a leggere “fra la righe”. Ogni cosa, in teoria, può essere funzionare da simbolo, ma alcuni simboli hanno una ricorrenza universale, che rimanda all’esistenza di quelli che Jung chiama archetipi, cioè letteralmente modelli. I simboli, in questo caso, non sono altro che trasformazioni dell’energia inconscia, mediante cui si esprimono gli archetipi. Gli archetipi sono germi di potenzialità in grado di riprodurre (in maniera virtuale) esperienze compiute dall’umanità nello sviluppo della coscienza, trasmesse ereditariamente e rappresentati una sorta di memoria dell’umanità, sedimentata in un inconscio collettivo, presente in tutti i popoli, senza alcuna distinzione di luogo e di tempo. Per essere più chiaro, gli archetipi potrebbero essere rappresentati dalle leggi di natura e i simboli potrebbero essere considerati i parametri di riferimento “ancestrali” contenuti nell’ipotalamo. Si attivano quando siamo sollecitati a riflettere in termini di bisogni e desideri. Conoscendo l’ambiente di provenienza, saremo in grado di renderci conto dei pacchetti di informazioni (modelli culturali, tradizioni, valori, riferimenti etc.) tramandati a livello generazionale che influenzeranno, più o meno direttamente, il nostro modo di essere, costituendo una specie di memoria familiare inconscia: l’evoluzione del concetto di inconscio collettivo e di subpersonalità .

Cioè?

Partiamo dal termine subpersonalità. Con tale espressione intendiamo il diverso modo di esprimersi, nelle varie circostanze “importanti”, in funzione degli algoritmi di base (in informatica, successione di informazioni sequenzializzata in ordine logico e finalizzata ad un risultato), sul piano educativo.

Che vuol dire?

L’ambiente di origine rappresenta una fonte di trasmissione di messaggi che incideranno una traccia nel DNA delle nostre cellule, influenzando il loro comportamento circa la modalità di captazione ed elaborazione dati, che costituiranno le caratteristiche del nostro modo di essere: l’umore di base, insomma. Tutto questo si manifesta in base alle sollecitazioni del momento, ovviamente in maniera inversamente proporzionale alla solidità della propria identità.

Lei ha, anche, parlato di “inconscio familiare”. Potrebbe rispiegarmelo?

Se intendiamo la memoria come un deposito di informazioni sotto forma di particelle, anche subliminali, trasmesse come parte di sé anche in maniera indiretta, che ci consente di costruire data base in grado di determinare una personalità individuale, concluderemo che tutto ciò sarà in grado di influenzare i propri elaborati di pensiero. L’inconscio familiare, rappresenta quella linea guida fatta di elementi in comune, tramandati di generazione in generazione che costituisce una sorta di retroterra culturale identificativo.

Ma com’è possibile che alcune caratteristiche vengano evidenziate anche dopo alcuni salti generazionali? Ad esempio, non di padre in figlio ma, ad esempio, da nonno a nipote?

Con un meccanismo simile a quello dalla trasmissione genetica per i caratteri organici. A volte un gene recessivo si attiva dopo qualche linea di discendenza, quando non interverranno geni dominanti ad impedirgli di esprimersi.

Anche sul piano psicologico? Mi sembra un discorso un po’ difficile da seguire.

Meno di quanto lei creda. Mi spiego meglio. Lei ha mai trasferito immagini da un telefono cellulare ad un altro, via bluetooth?

Si, ma non vedo il nesso…

Lo scopo principale della nascita della tecnologia bluetooth risiede nella capacità di far dialogare e interagire fra loro dispositivi diversi (telefoni, stampanti, computer, elettrodomestici, etc.) senza la necessità di collegamenti via cavo, ciò che va sotto il nome di wireless. Wireless si riferisce a una tipologia di comunicazione in cui i segnali viaggiano nello spazio e non su fili o cavi di trasmissione. In un sistema wireless la trasmissione avviene principalmente via radiofrequenza (RF). Wireless consente in un ufficio, in una casa di far dialogare tra loro tutti i dispositivi elettronici presenti. Lo scambio di informazione fra gli strumenti avviene attraverso onde radio, eliminando qualsiasi tipo di connessione fisica tra dispositivi. Tutte le apparecchiature bluetooth predisposte in un ambiente di lavoro sono nella condizione di generare piccoli network ( reti ) senza fili, cioè un’interconnessione di comunicazioni dati, usando un ricetrasmettitore che opera nella frequenza di 2,4 GHz.

E quindi?

Le informazioni fra esseri umani seguono vie non tanto dissimili e si allocano, viaggiando attraverso le vie nervose periferiche e venendo rielaborati in zone specifiche della corteccia cerebrale (mediante reindirizzamento talamico), nell’ippocampo e nei lobi temporali dell’encefalo. Precisamente negli atomi delle molecole del DNA delle cellule nervose interessate (neuroni e nevroglia). Accade che, a volte, non tutte le informazioni memorizzate si esprimano come fenotipo (in maniera evidente) ma rimangano fondamentalmente genotipiche (allo stato potenziale) magari rese silenti da apprendimenti di altre figure di riferimento, assenti in successive generazioni. Le informazioni, comunque, vengono trasmesse, a prescindere dalla loro manifestazione evidente. È così che si trasmettono le tradizioni e i comportamenti di base.

Voglio parlarle, anche, di qualcosa che va “oltre”.

Cioé?

Del fenomeno psicotronico


Negli anni settanta studi condotti soprattutto per scopi militari sia da sovietici che statunitensi, portarono alla scoperta dell’effetto psicotronico (relazione fra mente e variazione fisica indotta) mediante cui alcuni induttori, fra cui l’azione della mente, possono agire direttamente sulla materia, accelerando la sua trasformazione. Lo scienziato Louis Kevran (proposto per il premio Nobel nel 1972) dimostrò la possibile trasformazione sperimentale di un elemento (il potassio) in un altro (il calcio). Tale fenomeno prende il nome di effetto “kindling” e ricorda il principio terapeutico dell’agopuntura, la quale si basa su una modulazione virtuale psicotronica focalizzata su punti specifici cutanei e introdotta nel sistema nervoso, dove si concentra nel tempo, raggiungendo livelli energetici tali da determinare trasformazioni anche fisiche, apprezzabili e ripetibili. Nel 1973, il cecoslovacco Pavlita, mostrò al dr. Stanley Krippner uno schema di generatore psicotronico in grado di modificare la struttura genetica a distanza e ottenere reazioni psicobiofisiche. A seguito di questi studi, il fisico sovietico Kaznakeyev, scoprì l’interazione intercellulare (mediante un meccanismo simile alla trasmissione di dati mediante onde elettromagnetiche del tipo AM / FM) in un sistema formato da due culture di tessuti. Tali acquisizioni diedero il via a esperimenti militari che portarono a rendere possibile l’infezione (tramite batteri e virus) a distanza per effetto della vibrazione atomica della struttura del quarzo.

Cambiamo discorso. I sogni rappresentano l’appagamento di un desiderio o consentono di scaricare la tensione prodotta dalle frustrazioni quotidiane?

Non cambiamo discorso, in realtà, perché siamo sempre nell’orbita del mondo inconsapevole. I sogni possono essere l’uno e l’altro, perché ci consentono di rappresentare la realtà così come la vogliamo. Se, per esempio, desideriamo una ragazza, possiamo sognarla innamorata di noi. Allo stesso modo, possiamo rappresentare (come una pellicola cinematografica) dei filmati onirici che abbiano una trama in grado di consentirci uno sfogo delle tensioni: ad esempio, possiamo immaginarci a punire tutti quelli che ci arrecano disturbo…

Ci sono persone che non sognano?

Il sogno è un componente essenziale del sonno che comprende tre fasi consequenziali: l’addormentamento, il sonno profondo (ad onde lente) e la fase Rem (quella dei sogni, ad onde rapide, che “simulano” il funzionamento bioelettrico del cervello, in fase di veglia). I sogni si ricordano se ci i sveglia in quest’ultima fase. In conclusione, tutti sogniamo, ma non sempre ricordiamo il contenuto onirico.

In conclusione, cos’è un lapsus e perché si produce?

Il termine deriva dal latino e significa “passo falso, errore”. Rappresenta, in pratica, un errore nel parlare, nello scrivere o nel leggere, che appare casuale ma che, in realtà, non è affatto casuale. I lapsus rientrano nella categoria degli atti mancati, analizzata per la prima volta da Freud nel suo studio intitolato “Psicopatologia della vita quotidiana” del 1900. Secondo Freud, l’atto mancato (che può anche essere una dimenticanza, uno smarrimento d oggetti, un falso riconoscimento visivo o acustico, etc.), soddisfa in maniera evidente un desiderio inconscio: rispetto a tale soddisfacimento, costituisce un atto pienamente riuscito.

Grazie tante, arrivederci.

 

G. M. – Medico Psicoterapeuta

Si ringraziano Giuseppe Dattis, Erminia Acri eAdelina Gentile per la formulazione delle domande e per la collaborazione nella stesura del dattiloscritto