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Omaggio a Vincenzo Andraous.


 

 

Approfondimenti sociali – 12

“Le lacrime non sono espresse dal dolore, ma dalla sua storia” (Italo Svevo).

 

“Poi è arrivato anche il mio turno. Niente di strano sia chiaro: ho sempre avuto problemi di cuore e già da tempo sapevo come sarebbe andata a finire. È un po’ come spegnere la luce: si sente un piccolo tac e subito dopo non si sente niente. Con l’età, e il conseguente avvicinarsi della data ultima, diminuisce giorno dopo giorno l’importanza dei problemi che, in effetti, non sono veramente tali. Il mio ultimo giorno fu pieno di sorprese: tutto cominciò con un forte dolore allo sterno. Vennero chiamati i parenti più cari e qualche amico. Mi si dettero intorno in silenzio. Mi guardavano tutti con una faccia angosciata, che faceva tanta tenerezza. Avrei voluto rincuorarli uno a uno, ma con quel macigno sul petto mi riusciva perfino difficile parlare. Che Dio mi perdoni il paragone, ma non potei fare a meno di pensare all’ultimo giorno di Socrate, quello in cui il filosofo conforta i suoi discepoli dimostrando loro che morire, tutto sommato, non è poi chissà che cosa: è solo un breve transito tra due vite contigue, quella del corpo e quella dell’anima. E se invece, pensai, tutto finisse qui? A ragionarci sopra mi sembrò impossibile. Qualcuno mette in piedi un’enorme baracca fatta di miliardi e miliardi di galassie, con opere d’arte come le Piramidi, il Colosseo e la Gioconda e poi si dimentica di allestire un finale all’altezza della situazione? Non ci posso credere. Mi rifiuto di pensare che dopo ci sia solo il niente. E poi mi chiedo: ma che diavolo sarebbe il Niente? La risposta, purtroppo, è fin troppo facile: il Niente è il Niente, e in quanto niente non possiede niente, non ha un terreno su cui poggiare i piedi, non ha un cielo dove poter volare, non ha un altro essere umano con cui fermarsi a fare due chiacchiere, e nemmeno uno specchio in cui potersi guardare. Stavo ancora rimuginando su quanto sarebbe accaduto nell’aldilà, quando arrivò il prete. Tutti uscirono dalla stanza per consentirmi una confessione e lui mi si sedette accanto. Piccolo di statura, con gli occhiali spessi come fondi di bottiglia, tirò fuori un libricino nero e si mise a leggere toccandomi in varie parti del corpo con frasi appropriate. Cominciò con gli occhi.Due minuti dopo stavo in Paradiso” (Luciano de Crescenzo – Sembra ieri – Mondadori Editore).


Fare prevenzione senza la presunzione della pretesa di salvare qualcuno dal proprio destino. In un’epoca di indulti e progetti inevasi, dove nemmeno il Natale, spesso, comporta tregue o amnistie, una simile riflessione perde il suggello dell’appartenenza ai soliti fiumi di parole (tante e troppe) buone solo ad autoaffermarsi a scapito di chi sta dietro.

In fondo è così, Vincenzo Andraous, semplice e profondo, capace di andare oltre il consenso delle regole, lontano dagli inganni, vicino a speranza e dignità. Non è sempre stato così, quest’uomo. Ma se è vero (come, in effetti, è vero) che “più della psicologia stessa, la sofferenza la sa lunga in materia di psicologia” (Marcel Proust) questo paladino della speranza nella pazienza, è passato dalla sensazione che la vita fosse, in fondo, poco più che un sorso amaro, alla netta convinzione che, comunque, se vuoi salire fino al cielo devi scendere fin dove la sofferenza raggiunge il suo culmine e tendere la mano a quella terra di nessuno che rappresenta il vuoto della propria coscienza.

Qualcuno sostiene che la sofferenza sia l’unico mezzo valido per rompere il sonno dello spirito. Per evitare che le difficoltà del percorso finiscano per produrre deviazioni verso angoli che non intendiamo vedere, diventa necessario indispensabile ricordare che “il cammino attraverso la foresta non è lungo se si ama ciò che si va a trovare” (Proverbio Africano).


Riconciliazione o vendetta?

In fondo non sono concetti così distanti. Riconciliare, infatti, significa unire nuovamente ma su basi differenti. Vendicare, è parola che viene da lontano, utilizzata sia dai greci che dagli antichi romani per indicare il prezzo da offrire per un riscatto. Quando si raggiunge equilibrio nella rendicontazione di questi apparenti opposti, è possibile ritrovare e ricostruire se stessi. Succede. Proprio come risulta dalla lettura di gran parte della produzione letteraria di Vincenzo Andraous, quando sembra che Dio rimanga ad ascoltare in che modo si riesce a timbrare quel passaporto che affranchi dalla solitudine, dal buio e dal freddo.


Succede. Anche nel suo ultimo libro: Riconciliazione o vendetta? Appunto. Diviso in sei capitoli (Il carcere, la Comunità Casa del giovane, i minori, mutamento antropologico della Società, la fede, la guerra), costituisce molto di più di un continuum di pensiero, teso alla ricerca di quanto possa servire alla ricostruzione di un patrimonio dissipato: la morale del vivere civile. Come pugni nello stomaco. Senza mezzi termini l’autore, certe verità te le mostra senza mandartele a dire.

“Quelle parole che non hanno Fede né ideologie come eredità contrapposte, bensì indifferenza per ogni ascolto della ragione e del cuore, per privilegiare noi stessi in avanti a prenderci i primi posti. Il prete guarda davanti a sé, senza cattedra a intimorire, negli occhi il dubbio di avere colpito nel segno. Nella sua fatica c’è il suo coraggio, mentre il silenzio invade ogni spazio e inibisce al fondo di ogni ottusità. A volte essere o cambiare è davvero un lento percorso a ritroso, disturbante al punto che il tempo accelera e rallenta: noi ce ne accorgiamo, ma non siamo onesti fino in fondo per ammettere che l’universo che tentiamo di vivere è di tante dimensioni, e noi non ne sappiamo niente, neanche del nostro vicino, che invece crocifiggiamo per diletto”.

Anche questo è Vincenzo Andraous.


Siamo tutti uomini in cammino, con i nostri dubbi al seguito, bisognosi di essere compresi tanto da rincorrere speranze che, spesso si infrangono contro l’incapacità di reagire: a quel punto, anche il simbolo di un crocifisso diventa un pezzo di legno tarlato dai nostri velleitarismi.

“I più grandi dolori sono quelli di cui noi stessi siamo la causa” (Sofocle)

Qualche spinello non brucia i polmoni, né rende drogati. Il fatto è che in quel “ridere” intontiti c’è, semmai, quel sonno della ragione che dà il via libera ad una discesa che diventa, sovente, un palcoscenico, dove i riflettori colpiscono gli occhi, accecandoli.


Lui ha smesso di fumare perché non esiste differenza tra droghe leggere e droghe pesanti: esistono le droghe e sono tutte negative. Sessanta sigarette al giorno, dal mattino alla sera. Mai sprovvisto nella tasca, un po’ di più nella mente. Siccome smettere, non dipende da un cerotto o da una pastiglia, bensì dal peso e dalla somma della propria volontà, dopo aver capito il perché. Ma chi vince veramente? Una boccata dietro l’altra, non è facile smettere di fumare. Il suo fumo nasconde l’ottusità che annebbia il cuore. E allora lui ha smesso di fumare non solo per vincere una sfida ma, piuttosto, per sentirsi veramente più libero.


Dietro la sfida di un ragazzo che “gioca” a fare il bullo c’è tutta la nostra fallibilità di genitori, di educatori, di facce che restano a guardare un vuoto “gridato”. Vincenzo spiega a quel ragazzo che non ha ancora compreso la differenza tra una vocazione di bullo per forza e il peso di un comportamento secondo coscienza, che la vita è un servizio, e riuscirci bene significa raggiungere una libertà interiore che sta proprio comincia quello che i più, chiamano maturità.



“E’ sincero il dolore di chi piange in segreto” (Marziale).



Volti nuovi e abiti vecchi. Reprimere costa, di solito, meno che prevenire. Il risultato, però, è l’accettazione del principio in base al quale “sei fuori dal gioco e ci rimani “. Questo disagio è un dolore che avanza, intaccando i centri nevralgici dei principi che ci spingono ad andare avanti. Inutile cercare sensazionalismi ad effetto ridondante. In questo caso, Vincenzo, ci suggerisce che la ricompensa migliore per essere riusciti a ben educare è, appunto, averlo fatto.

“Come arrivano lontano i raggi di una piccola candela, così splende una buona azione in un mondo malvagio” (William Shakespeare)

Insomma, quest’uomo ha dimostrato, col proprio operato, il contrario dell’assioma in base al quale la gioia rende socievoli, mentre il dolore ci allontana dagli altri. Forse è proprio vero: “Per quanto possiamo cadere, mai potremo precipitare al di sotto delle braccia di Dio” (William Penn).

 

G. M. – Medico Psicoterapeuta