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Da un nostro affezionato lettore, riflessioni su paure e disillusioni dei lavoratori precari.

Italiani, è giunta l’ora di ammetterlo, al potere abbiamo delegato la
noia che perpetua le cose affinché ogni nuova generazione
venga forgiata in essa. La noia non in senso positivo, cioè
quella che poi spinge una generazione come quella del ’68 a
sollevarsi per cercare quelle espressioni e aspirazioni che la
società non offriva, per far notare al senso popolare che le
libertà che le carte costituzionali tanto decantavano erano
tutt’altro che attuate e che il benessere aveva reso chi l’aveva
raggiunto cinico e soprattutto conservatore.


La nostra noia è quella che ci inculcano giorno per giorno i
mass-media tradizionali, la televisione, i quiz, i giornali, i
comunisti, i fascisti, gli ultras e la vita in diretta, è un
calderone di emozioni, false fedi e abitudine alla trasgressione. Ci
si riempe di stupidaggini finché si hanno i soldi, quando non
ce ne sono più allora si filosofeggia, eppure mi pare di aver
studiato che nell’antichità i filosofi erano tutto fuorché
poveri, non avevano l’assillo del dover mangiare, capovolgo il
discorso e vi sorprendo aggiungendo che del resto se un filosofo è
pagato per filosofeggiare state sicuri che filosofeggerà, ma
nell’antichità forse non avveniva “a ragionamento”,
cioè non si ragionava spinti dal denaro anche quando non si
intravedeva nulla su cui valesse veramente la pena riflettere, del
tipo: “I reality riflettono la vita e i comportamenti di tutti
i giorni o sono caricature e copioni già scritti?” Sono
contento che a queste discussioni si uniranno cani e porci senza
ritegno, sono contento che nessuno balzerà dalla poltrona
dicendo “Ma cosa me ne importa di uno pagato per dare una
valenza seria a un programma di intrattenimento.”


Non ho visto un’artista uscire da “Saranno famosi” nonostante
tra loro ci sia gente di valore, ma del resto se io vado a fare un
provino sperando di diventare famoso non aspiro a molto altro al di
fuori del diventare famoso; se invece facessi un provino affinché
un etichetta decida di investire sulle mie idee allora magari
qualcosa di buono potrebbe venire fuori. Dammi tre parole, sole,
cuore, amore. Non è il caso italiano probabilmente.

Poco importa, è molto triste, culturalmente siamo regrediti di
qualche generazione, avendone persa qualcuna per strada, non sentite
ancora parlare dei trentenni? Eppure oggi sono quantomeno
quarantenni, dunque anche i trentenni di oggi forse non se la
passano così bene, un paio di cicli decennali si sono
compattati in questa crisi di identità, idoli, precarietà
e scarsa valorizzazione delle qualità.

Una società dove c’è scarso investimento nell’arte o è
addirittura l’arte a dover pagare per rendersi visibile è
sicuramente una società che sta cullando in grembo un feto in
fin di vita. Nascerà?

Il Pil cresce se alle speranze di affermazione secondo i propri meriti
(e non sempre “Certo ma senza fortuna non succede mai
nulla”) non si aggiungono altre speranze invece che
affermazioni, ad esempio: “Ehi, te lo presento, questo è
un mio amico d’infanzia, guadagna più soldi di noi due messi
insieme, ma non ha abbastanza fantasia per spenderli, anzi direi che
non se ne fa quasi nulla dei soldi, oltre a una gran bella macchina,
una villetta e qualche regalo ai figli i soldi se ne stanno lì
per il futuro dei figli (E allora a che dovrebbe usarli i soldi?);
ho sempre saputo che aveva qualcosa di speciale, quando risolveva le
equazioni di matematica alle medie poi alle superiori gli si
illuminava il volto, quell’espressione un po’ più navigata la
vedo oggi quando se ne esce dal laboratorio dove studia
nanotecnologie, dopo un esperimento riuscito; il laboratorio è
a 30 km da casa sua, prende il treno poi il tram, entrambi in orario,
altro che fuga dei cervelli, hanno appena ricevuto ulteriori
finanziamenti dal governo.”

Voglio solo vedere l’Italia che alle speranze e agli spot non aggiunge
altre speranze e altri spot cosicché anche per chi non è
mai stato in grado di comprendere perché e è uguale a
mc al quadrato il destino non sarà sperare in un rinnovo del
contratto annuale per tutta la vita, rinnovo dopo rinnovo (“e se
poi non si rinnova che si fa? Chi mi prende?”).
L’unica cosa
positiva è che i figli che nasceranno da queste vite in bilico
comprenderanno fin dai primi anni di infanzia quanto la vita può
essere difficile e a quante cose inutili e per cui anche si piange
può aspirare una persona che si reputa sana di mente, forse
quei genitori saranno gli unici dopo un cinquantennio dalla Seconda
Guerra Mondiale a non aver illuso i figli con il benessere
fittizio e super-ostentato della materialità delle cose, non
se lo possono permettere, perlomeno senza fingere.


Ma di questi genitori ce ne sono pochi, pochi figli nascono già e
sempre meno nasceranno di questo passo, nessuno vorrebbe sentirsi
dire dalla propria prole: “Papà, non sei in grado di
offrirmi dopo 20 anni di lavoro un regalo di natale senza ricorrere
ad un acquisto a rate, che schifo!”

E poi nel letto quello stesso papà forse verserà lacrime
accanto alla propria compagna con cui convive da una decina d’anni e
con cui il matrimonio non si è fatto solo perché non
sembra possibile unire il niente, se i nonni si sono sposati senza
soldi, senza una casa, è anche vero che hanno sposato
insieme anche le speranze, i sogni, i progetti di vita, la voglia di
far crescere i propri figli in un mondo migliore.


Il precario non è tale perché ha un contratto temporaneo
ma perché non crede razionalmente che la sua vita potrà
mai stabilizzarsi, da un momento all’altro qualcuno potrebbe dirgli
“Di te non sappiamo che farcene,” mi dispiace, ma non è
poi così dolce naufragare in questo mare, eh sì, si sta
come d’autunno sugli alberi le foglie.

Tutti siamo utili e inutili allo stesso modo.

Nico Guzzi