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Le
riflessioni di un nostro affezionato lettore.

Ceti popolari, ceti abbienti, tributi, sprechi: una equazione dai
risultati razionalizzabili è possibile?

Come noto il nuovo Governo si propone obiettivi di lotta all’evasione
fiscale e razionalizzazione dei costi anche nelle strutture politiche
e amministrative dello Stato, insomma sui costi della politica,
intesa come “ceto politico” di persone, cioè, che
lucrino indennità varie da cariche punto impegnative, o
necessarie, o responsabilizzate per risarcimento danni.

Invero, 12-8-06, i Media riportano inquietanti notizie sull’attendibilità
delle dichiarazioni IRPEF, e preoccupate osservazioni della CGIL sul
consolidarsi d’una incontrastata tendenza degli italiani
all’imbroglio ed alla truffa. Il tema, certo, merita di essere
ampiamente dibattuto e messo al meglio a fuoco. Partiamo dalla realtà
particolare, per poi giungere a quella del contesto generale, ma vi è
un intrecciarsi e sommarsi delle relative criticità. Per es.,
come vivono, dunque, in cosa si riconoscono, di quali valori sono
portatori quegli italiani che hanno ereditato la collocazione sociale
della vecchia classe operaia, senza conservarne la forte identità
di gruppo? Se ne occupa una ricerca 2006 dei professori Mauro Magatti
e Mario De Beneditti, pubblicata per i tipi di Feltrinelli.

Nella sintesi, i nuovi ceti popolari vi appaiono fluidi, diversificati,
invisibili sulla ribalta politica. Basata su un metodo empirico, la
ricerca offre una fotografia ed un’analisi interpretativa di una
parte fondamentale, e numericamente maggioritaria, dell’Italia di
oggi. Si tratta d’ una indagine sociologica condotta su un
campione di italiani tra i 20 ed i 50 anni, appartenenti a gruppi
spesso con scarso bagaglio culturale che risponde a svariate domande:
Che peso hanno il lavoro, i consumi, i media, la politica e la
religione sui gruppi meno privilegiati?

Viene alla luce un mondo che faticosamente cerca di destreggiarsi fra la
retorica del successo e le difficoltà causate dalle scarse
risorse di cui effettivamente dispone. A livello personale, ciò
determinerebbe una condizione di inferiorità, che sostituisce
il conflitto sociale con un dilatato senso di insicurezza. Sono nati
così gruppi disancorati, relativamente instabili, che, però,
appaiono idonei a destabilizzare l’intera struttura sociale.

Forte la pressione comunque su essi; prezzi e balzelli tra i più
elevati nella UE non sono nemmeno compensati dai redditi, anch’essi
più bassi dei francesi, dei tedeschi e degli inglesi. Questi i
dati Eurostat elaborati da La Repubblica: lo stipendio annuo medio
italiano è di 25.808 euro, contro i 34.622 della Germania
(-25.5 per cento), i 29.139 della Francia (-11.36 per cento), i
38.538 (-32 per cento) della Gran Bretagna e i 41.736 (-38 per cento)
della Danimarca. Quindi abbiamo beni e servizi indispensabili a costi
molto più alti degli altri grandi paesi europei, avendo
redditi pro capite mediamente più bassi. E tende ad andare
peggio. Se, infatti, andiamo a vedere le variazioni e la
distribuzione delle retribuzioni, ci accorgiamo che gli stipendi medi
dei dirigenti, pari a 90.802 euro annui (anno 2005, retribuzione
media lorda) negli ultimi quattro anni sono aumentati dell’1,8 per
cento (salari reali), mentre quelli degli impiegati pari a 25.037
euro annui, sono diminuiti del 6,3 per cento (salari reali) (Fonte
OD&M, 6° Rapporto sulle Retribuzioni in Italia 2005, ed
elaborazioni Kataweb). Chi ha più potere si difende bene anche
nel pubblico, per es., Il Times (A. Browne, The Times, 7-6-2005) ha
calcolato i compensi dei parlamentari europei a Strasburgo, ed ha
scoperto che gli italiani sono i più pagati, con 12 mila euro
di salario mensile, pari a più del doppio dei danesi (5.772
euro) (Per il confronto tra gli stipendi medi degli italiani e dei
danesi si veda sopra.), 5 mila euro mensili in più dei
parlamentari tedeschi (7 mila euro) e britannici (6.800 euro). Nessun
altro parlamentare europeo, comunque, guadagna cifre superiori ai 10
mila euro mensili, solo gli italiani.

Su Il Messaggero 17-8-06, un lettore scrive a Gervaso “Un mio amico
ha detto che in Italia esisterebbero, escludendo i portaborse, circa
167 mila “soggetti in qualche modo eletti” e che le spese
complessive annue, esclusi contributi previdenziali, pensioni dopo
metà legislatura ed adeguamenti pensionistici più
favorevoli rispetto agli altri lavoratori, si aggirerebbero sui 14,2
miliardi di euro l’anno. Sinceramente sono rimasto colpito da queste
cifre? non è il caso di cominciare a porre il problema del
costo-beneficio anche nelle strutture politiche e amministrative
dello Stato? “.Evidentemente non lo è mai stato, se
prendiamo un caso clamoroso di ente inutile: le Comunità
montane(Legge 3/12/71 n. 1102 “Nuove norme per lo sviluppo della
montagna, D.L.vo 18/8/2000 n. 267 ), ne esistono ben 365 in Italia e
sono composte da consiglieri comunali di Comuni montani e non.I
consiglieri sono ben 14600, un esercito che comanda solo 7500
dipendenti. Il costo dell’indennità ammonta a 22 milioni di
euro.Secondo una inchiesta del Sole 24 ore 17-8-06,per ogni
dipendente ci sono in media 2 Consiglieri; mediamente in ogni
Comunità lavorano 21 dipendenti, quasi tutti a tempo
indeterminato. L’appannaggio di 1 Consigliere ammonta
mediamente a 1760 euro per il presidente a 3460 euro; il numero medio
dei Consiglieri è 40 per ogni Comunità. La competenza
disciplinatoria è delle Regioni; i designati non sono eletti
dal popolo, ma su lottizzazioni partitiche; svolgono compiti delegati
da Regione, Province e Comuni.

Sul sito Uomini liberi, si osserva: “Province: Che siano enti
inutili lo dicono in tanti, che costino moltissimo, è
risaputo. Ma il loro numero aumenta. Nel 1960 erano 92, nel 2006
siamo arrivati a 104; consiglieri eletti:4202; compenso agli
assessori:42 milioni di euro;
compenso ai consiglieri: 59 milioni
e rotti. Insomma, l’emolumento globale incassato dal ceto politico,
appare il più alto d’ Europa”. (In realtà, sarebbe
più funzionale l’abolizione dei Comuni, con devoluzione
alle Province:ve ne sono più di 8000, ed il valore aggiunto
della loro autonoma rappresentanza politica appare prossimo a zero,
se consideriamo che, sia i bisogni di quei territori, sia i mezzi per
farvi fronte, nel terzo millennio appaiono sufficientemente
omologati).

Risulta evidente come il sistema seguito da Governi e Parlamenti anche
dall’inizio dell’era repubblicana, quella che doveva
vedere il popolo sovrano, sino ad ora, lasci largamente insoddisfatti
i cittadini: lo “Stato”, dopo aver creato una valanga di
iniquità (vedi giungla assistenziale, retributiva,
pensionistica, fiscale, abitazionale, ambientale, familiare,
sanitaria, ecc.) e fatto strame di diritti individuali, dichiarando
qualcuno che, però, era per il nostro bene,è
miseramente e dolosamente fallito, anche patrimonialmente (contro
l’art 81 Cost, come in questi giorni sta osservando la Corte
dei conti su numerose leggi), addirittura, ha caricato folli debiti
sui neonati, e molti pretendono di insistere, con più o meno
divertenti scuse, nel ricorso al debito.

Gli esponenti politici mai hanno riformato un sistema come quello
italiano sul quale già l’ottocentesco economista
Federico Bastiat allarmava, poichè definiva basato su
“criminale saccheggio”, e con delega in bianco coatta
autogiustificativa, costituzionalizzata licenza di saccheggio senza
responsabilità né rendiconto. Si può dar torto
all’autodifesa di un cittadino, che tosato senza proporzionato
corrispettivo, ed enormemente pregiudicato nei suoi diritti umani di
libertà individuale, non creda più al valore aggiunto
del consorzio civile coatto, che a 60 anni dalla Costituzione
repubblicana ancora non lo vede sovrano? Pur nella contingenza
economica sfavorevole, almeno i diritti individuali, la libertà
e i diritti naturali, dovrebbero essere cosa da non sacrificare,
essere patrimonio indisponibile per i governanti, (come ribadito dai
vari filosofi rivendicatori dei diritti naturali, come R. Nozick,
Rothbard, De Molinari, Szasz, Tucker, ecc.,i quali osservarono che
“nessuno può violare il prossimo, cioè attentare
alla vita, libertà, proprietà, dei suoi simili;quanto
non può essere fatto dai singoli non può neppure essere
praticato dallo Stato”, situazione nella quale questi filosofi
riconoscevano l’espressione più rilevante
dell’ingiustizia e della coercizione, auspicando uno “Stato
minimo”) che purtroppo, come diceva Bastiat 2 secoli fa, sono
usi a praticare, e alla grande, il sacco non solo dei soldi, ma anche
di diritti individuali. Fra l’altro, in Italia il sistema
tributario poggia su imposte indirette e patrimoniali,
incostituzionali per impossibilità di ottemperanza credibile a
progressività e capacità contributiva, in base all’art
53 Cost., tutto per non essere capace lo Stato, o non averne voglia,
di accertare e riscuotere le imposte sui redditi.I cittadini non
vogliono avventure contabili, né conti occulti, né
aiuti di Stato, hanno diritto non solo alla trasparenza, ma alla
buona amministrazione, e ad andare esenti da danni, tutte cose che,
però, poco si vedono all’orizzonte, anche se di lotta
all’evasione o elusione molto si parla (vedi critica dei
sindacati anche alle Agenzie fiscali: la riforma recente, dal 2001,
D28-12-2000, e D20-3-2001, di stampo privatizzante non avrebbe
stanato alcunché di più di quanto sortivano le vecchie
Intendenze di Finanza).

Si potrà porre un rimedio allo spreco? Molti hanno già
risposto: no, non almeno nel breve e nel medio periodo, perché
questo sistema perverso, che viene da molto lontano, per lo meno
dall’inizio del Novecento, ma forse anche prima, pervade tutta
la società civile, danneggiandola; ma senza una adeguata
risposta il futuro non potrà essere di ripresa. Siamo venuti a
sapere che esiste dal 1957 un ente per la liquidazione degli enti
inutili, l’Ispettorato Generale per gli Affari e per la Gestione del
Patrimonio degli Enti Disciolti (IGED), in cui sono impiegate
trecento persone divise in quattordici uffici con altrettanti
dirigenti, per un costo annuo complessivo di oltre tredici milioni di
euro, divenuto a sua volte inutile con la legge 112/2002 che ne
trasferì le competenze ad una società controllata dal
Ministero del tesoro, di nome Fintecna. Pare che attualmente gli enti
inutili siano “meno” di 400, una cifra ben diversa da
quella che ha in mente chi ricordi che, in occasione della
pubblicazione del D. P. R. n. 616 del 1977 e della legge 15-3-97, n.
59, anche allora i giornali, come di recente, si riempirono di
articoli sugli “enti inutili” e la cifra che
(disinvoltamente?) circolava in quegli anni era di 57mila.
Certamente, comunque, il fenomeno è ampio, come vediamo ad
es.,sul saggio di G.A. Stella, “Lo spreco, come buttare 2
milioni di miliardi”1998, o di R.Costa “L’Italia
degli sprechi, enciclopedia di spese assurde a carico dei
contribuenti, 1998, ecc., ove contempliamo quello che potremmo
chiamare lo “spreco” del Bel paese, oppure nel lavoro di
Ortensio Longo, assessore all’ambiente del Comune di Cosenza e
vicepresidente di Italia Nostra, che catalogò, e pubblicò
nel 1995, tutti gli sperperi calabresi, o di G.Plinio “La
Liguria degli sprechi, 2000, per quelli locali.

F.sco Battaglia