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Ancora una volta, piangiamo le giovani vite di quattro militari falciate dalla ottusa violenza di un terrorismo che non sa dare limiti alla propria ferocia.

Tre italiani ed un rumeno, aggregati alla forza di pace che opera in Iraq, hanno perso la loro vita a seguito di un attentato, mentre svolgevano compiti di pattugliamento in difesa e tutela di una popolazione disperata e violentata da massimalismi teologici e politici.

Non si vuole, in questa sede, proporre l’ennesima critica agli eventi passati che hanno indotto gli U.S.A, ed alcuni loro alleati, ad intervenire militarmente contro un regime fondato sulla violenza, la tirannia ed il genocidio; si vuole, soltanto esprimere solidarietà alle famiglie dei caduti e ai corpi militari che continuano a pagare un incomprensibile tributo di sangue; ma ci si deve pur chiedere il perché di una tragedia di cui non si scorge la conclusione, dal momento che la quotidianità dei telegiornali ci ha abituati ad una apatia di sentimenti per lo stillicidio di vite umane che gli attentati seminano dappertutto.

Si dice che è beata quella nazione che non è costretta a recare fiori sulle tombe dei propri morti; purtroppo, chi non è immune da simili funerei rituali?

E di nuovo si ripete la mesta cerimonia dell’ossequio alle salme che un panciuto C-130 scarica sulla pista dell’aeroporto; e gli onori militari, ed i visi pallidi, nell’inconsolabile dolore, dei familiari, ed il pianto della tromba che suona il silenzio d’ordinanza, sono tutte scene che ti attanagliano il cuore; ma, più inconsolabile fra tutti, è il singhiozzo sommesso degli orfani che si fonde all’urlo della “madre nera”, abbracciata al feretro del figlio; e le spose, novelle Antigone, avranno talami freddi e vuoti.

L’altra sera rivedevo un profetico film “Armageddon” nel quale il regista lancia la speranza di una umanità che ritrova la propria matrice di solidarietà contro la minaccia cosmica. Ed allora, mi piace sognare che è possibile il rinnovarsi di un nuovo umanesimo che ci riscatti dalla materialità e dalla violenza che ci circonda, perché la vita, pur nella sua caducità – malgrado agitati e nomadi siano i suoi elementi – si rinnova in un eterno divenire.

Ciascun giorno del nostro vivere, pur nella sua singolarità, è testimonianza non della fugacità del tempo, ma della stabilità del tutto.

Ed allora, onoriamo i nostri morti, circondiamo d’affetto i loro familiari, ridiamo sostegno ai loro bimbi; e se il maggio della loro vita si è improvvisamente avvizzito, c’è un futuro che non conosce soste e che insegna ad essere temperanti e fiduciosi, anche quando la speranza è negli abissi della sofferenza e a non disperare, mai, anche nelle ore più buie.

Sapranno i nostri politici, i reggitori della “Cosa Pubblica” essere saggi per le scelte future, per far sia che non ci siano più le dieci, cento, mille Nassiryie?

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