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Occuparsi di memoria a partire da una dimenticanza: curioso paradosso…


Occuparsi di memoria a partire da una dimenticanza: curioso paradosso, che non solo evidenzia l’intreccio tra ricordo e oblio, ma sintetizza una costante nell’ormai vasta produzione che, dal versante pedagogico, ruota attorno al metodo autobiografico. Si è affermata una svolta narrativa, proclamata con enfasi e copiosità di contributi: chiunque si occupi di pedagogia, a livello accademico o nella prassi, è invitato a confrontarsi con questo nuovo modello, e probabilmente non potrà resistere ad aggiungervi una propria ulteriore elaborazione, un tassello incastonato a sottolineare ancora l’imprescindibilità della narrazione in qualsiasi percorso formativo che punti alla conoscenza e, immancabilmente, alla cura di sé. Ecco: raccontarsi è “segno inequivocabile di una nuova tappa della nostra maturità“. È un bisogno, un desiderio, e può essere anche un progetto di formazione: “è la scelta che ci rende adulti“, e in tempi di adolescenza lunga e giovanilismo traboccante questa tensione verso la maturità non può che suscitare apprezzamento. Occorre, però, chiarire che la scelta di raccontarsi, così com’è stata finora definita dall’elaborazione pedagogica, non è semplicemente una scelta sul raccontarsi o meno. Si tratta anche di scegliere se narrarsi trascinandosi quella particolare dimenticanza che impone di evitare qualsiasi riferimento a un autore che, persistentemente, si è occupato di ricordo, esperienza e narrazione, e lo ha fatto ponendo domande che non sembrano superate dai tempi. Walter Benjamin è il grande assente nell’elaborazione teorica e nell’impalcatura epistemica di ciò che in pedagogia chiamiamo metodo autobiografico. I tanti lavori pubblicati finora evitano sia di confutare che di riproporre le tesi sostenute da Benjamin. Siamo forse in presenza di quell’atto mancante che sempre è all’origine di un ricordo, oppure il secolo nuovo non sa che farsene del contributo di chi ne ha indagato le fondamenta? Sarebbe una curiosa contraddizione, inaugurare con un’omissione l’indagine sulle radici dell’oggi, e significherebbe connotare il metodo autobiografico di un buco originario destinato a svilirne robustezza e tenuta. Che un filosofo sia utile all’elaborazione del discorso pedagogico è incontestabile. Ci sono i precedenti illustri di Dewey, Husserl e Gadamer, e pare ormai superata la fase in cui la pedagogia sembrava diluirsi nella vastità delle scienze dell’educazione. La rinnovata attenzione per la dimensione filosofica autorizza quindi uno studio attento del pensiero di Walter Benjamin in chiave pedagogica. L’amnesia che sembra aver colpito quanti si occupano di memoria non riguarda, tuttavia, il solo ambito pedagogico, se è corretto quanto riporta Schiavoni a proposito di un destino postumo che vede Benjamin “pressoché svanito in punta di piedi dal dibattito politico-culturale” e, nell’area tedesca, “promosso dapprima a star del momento e poi […] imbalsamato e mummificato come un classico“. A coronamento del paradosso qui evidenziato, è da notare che l’inattualità, in questo caso, non è l’esito della distanza temporale. Non sono i decenni trascorsi dal giorno della tragica morte di Benjamin sulla soglia dei Pirenei a decretarne l’estraneità rispetto all’oggi; si tratta invece di una collocazione insistentemente perseguita da questo intellettuale così anomalo, che rivendicava il suo essere fuori tempo e fuori dimora come condizione privilegiata per l’osservazione di una storia sottratta all’uso strumentale del presente. Il richiamo all’inattualità ricalca quanto già affermato da Nietzsche: se il presente è il tempo dell’ingiusto, occorre inseguire il giusto contrastando il continuum storico, e quindi affrontare l’inciampo del ricordo come occasione per proporre un dover essere alla rassegnazione di ciò che è.

L’inattualità di Benjamin va colta come un traino in grado di porre la necessaria distanza tra il soggetto in formazione e i dispositivi che tendono a plasmarlo, in nome della storia, così da rendere il vivere una questione di adattamento alla verità dominante e non di ricerca di un senso elaborato in proprio. Infatti, “la storia è tra il giusto e l’ingiusto. Non esce da questo spazio. Starne fuori significa vivere creando la propria vita, significa mettersi al di fuori del mondo del successo del tempo, stare al di là, da solo. La grandezza non è commisurata al successo storico“. Di conseguenza, l’uso del ricordo e della narrazione deve disgiungersi dalla strumentalità e dall’opportunità del presente, anzi deve contrastare il dominio dell’oggi perché solo così potrà accedere a un racconto che rimarrebbe altrimenti sepolto e senza nome. Appare chiaro, allora, come l’inattualità di Benjamin vada intesa come un collocarsi contro un certo tempo storico, rivendicando una presenza che sarebbe paradossalmente negata dall’adesione al presente.

Occorre prestare ascolto a un’altra storia, una storia che sopravvive solo negli urti con il potere, guizzando all’improvviso fuori dall’oblio a cui è sistematicamente destinata. Ancora Nietzsche indica negli albori del cristianesimo un esempio di questo collocarsi contro il successo storico, a rivendicare una verità superiore e una memoria da coltivare e proteggere dalla coltre di oblio: “I seguaci del cristianesimo più puri e veraci hanno sempre messo in dubbio e ostacolato, piuttosto che promosso, il suo successo mondano, la sua cosiddetta ‘potenza storica’; essi solevano infatti porsi fuori del ‘mondo’ e non si curavano del ‘processo dell’idea cristiana’; per questa ragione sono rimasti per lo più del tutto sconosciuti alla storia e non nominati“.

Inattualità, ricordo e oblio intrecciano così la trama di un nuovo inizio: non si tratta di ricordare per adeguarsi all’è così ma, al contrario, di rivendicare fortemente il primato del volere, un volere a ritroso in grado di caratterizzare una pedagogia del soggetto e di rivoltare la necessità storica in volontà.

Anche la pedagogia, quando non si configura come apologia à la page dell’esistente, si trova a fare i conti con il suo essere inattuale, e condivide con Benjamin questo provenire da altrove per portare un messaggio che riannoda passato e futuro. L’inattualità diviene qui trasparenza, in quanto “per un verso il pedagogico è sistematicamente eluso e marginalizzato e per l’altro evocato ed evidenziato con una singolare formula di coinvolgimento anonimo (si utilizzano spesso categorie pedagogiche senza sentirsi impegnati a un’esplorazione, un’interpretazione o a una giustificazione esplicitamente pedagogica)“. Questa doppia esclusione accomuna il destino di un autore a quello di una disciplina: entrambi volti a scovare e definire la forma, a cogliere sotto la persistenza le chiavi del divenire, a ricostruire il già avvenuto con un intento non solo descrittivo, ma essenzialmente progettuale.

La pedagogia della narrazione trova, nell’accezione qui proposta, la ragione per esercitare questo primato del volere; un volere altro rispetto alla contingenza perché parla del nucleo profondo del soggetto, e rimanda a un fondo ancora incontaminato della memoria che, aprendosi, può concorrere a salvare proustianamente il senso del vivere.

Si tratta di valutare la possibilità di delineare, per la pedagogia della narrazione, un modello in parte alternativo e antagonista rispetto a quello attualmente maggioritario; ricavarne coerenti indicazioni anche metodologiche ed operative che sappiano marcare il racconto di sé in quanto agire formativo orientato non più verso una generica età adulta ma, piuttosto, in favore di una elaborazione critica del vissuto soggettivo e dei dispositivi sociali che vi concorrono. L’obiettivo del presente lavoro è, di conseguenza, vagliare la possibile collocazione della narrazione autobiografica all’interno di una proposta pedagogica capace di non adagiarsi sull’esistente e di sottrarsi a una funzione di imbellettamento amministrato dell’ordine dominante. Se il lavoro pedagogico deve tendere anche all’apertura di mondi e colloquiare con l’Utopia, il racconto non può che costituirsi come discorso doppio, teso da un lato a disvelare modelli e strutture dell’accaduto e, dall’altro, a prefigurare l’altrimenti e il possibile. Anche la pedagogia possiede un duplice statuto: tesa tra riproduzione e cambiamento, tra individuo e collettività, tra ieri e domani, tra dominio e liberazione, è chiamata allo stesso tempo a dare forma e a de-formare, a scendere a compromessi con la pratica concreta di situazioni locali senza ridursi ad amministrazione e, viceversa, a guardare altrove senza per questo sfuggire alla misura del presente.

Proprio per queste ragioni la narrazione, l’esperienza e il ricordo sono campi specifici della pedagogia; qui non si tratta di fare letteratura, sociologia o mnemotecnica. Occorre definire con precisione sia il quadro di riferimento teorico che la matrice metodologicamente utile a rendere il narrare un’azione pedagogica forte e al riparo da manierismi e tecnicismi alla moda. Proprio affinché l’autobiografia attesti il proprio milieu pedagogico, riteniamo necessario orientare il presente lavoro in direzione di un recupero, certo non statico ma criticamente elaborato, del pensiero di Walter Benjamin. Senza per questo ricalcare quanto già evidenziato in ambiti diversi, la traduzione in chiave pedagogica del pensiero del filosofo berlinese potrebbe rivelarsi di notevole ausilio in tempi, come gli attuali, in cui da più direzioni si segnalano temi benjaminiani quali l’atrofia dell’esperienza e la caduta della capacità di narrare. Siamo di fronte, ed è questo l’assunto di base nel nostro discorso, a una grave emergenza formativa: il soggetto rischia di tramontare anch’esso come inutile e inattuale orpello di un’epopea della modernità che volge ormai a chiudersi in una totalità appiattita. Ridotto a ingranaggio indifferenziato, invaso e colonizzato, marchiato nella carne e nella psiche da modelli impersonali quanto soverchianti, convertito e ammaestrato a rispondere ai segnali con riflessi e automatismi, dominato dolcemente e prodotto in serie, è un soggetto che non racconta, ma si parla addosso. Non sceglie, al massimo partecipa ai sondaggi; le sue opinioni sono gli indici di gradimento e l’audience è il suo spazio politico. È un soggetto privato, estremamente privato proprio nel suo essere in gran parte eterodiretto, determinato e accessoriato dagli optional alla moda; un soggetto ineducabile che pone la pedagogia da un lato di fronte al proprio fallimento, e dall’altro dinanzi all’esigenza di reinventare uno scatto creativo.

Ecco, il presente come tempo dell’ingiusto: raccontiamo a partire da questo.

Prof. Giorgio Amato

l.go le croci, 6

70037 Ruvo di Puglia (BARI) tel. 340.6736849

Università di Bari – dipartimento di scienze pedagogiche e didattiche

Progettazione e valutazione dei processi formativi