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Forse l’ultima dell’era moderna?


La nascita dei giochi olimpici si perde nei misteri dell’Ellade, ma il canto dei poeti e i resti dorici del massimo tempio dedicato a ZEUS, in Olimpia, rinascono, quasi per incanto, anche nella nostra era fatta di missili, di terrorismo e di un meccanicismo sfrenato che ammorba l’aria delle contrade del mondo.


Eppure, l’uomo continua a guardare gli spazi siderali e sogna di percorrere il corso solare di Fetonte, mentre l’impotente ansia di volo fa rinascere, nei velocisti e nei saltatori che si misurano negli stadi, l’ebbrezza di Icaro.

Anche lo sport, nel suo significato più puro, fu invenzione dei Greci, perché rappresentò il momento più esaltante della “paideia” ellenica; e non poteva essere altrimenti poiché del corpo umano tutti gli ellenici ne avevano, già, una significazione divina; infatti, le loro divinità, scolpite ed incise nella forma andropomorfica, rappresentavano il più alto significato della bellezza.

E la pratica dell’attività ginnica, iniziata fin dalla fanciullezza, incise nello spirito degli uomini e delle donne greche l’immagine della plasticità delle forme, l’euritmia dei movimenti aggraziati nelle danze sacrali, l’autocoscienza della potenza muscolare, l’anticipazione della cultura militare, quasi a rendere concreto il pensiero eracliteo dell’armonioso divenire dell’universo; non si dimentichi che per i greci l’universo rappresentava il concetto di Cosmo, inteso, quest’ultimo, come forma armonica di tutta la materia, una volta superato lo stadio primigenio del Caos.


La solennità della manifestazione olimpica, nell’antica Grecia, era garantita dalla benedizione divina di Giove, ed i giochi si svolgevano nel culto del padre degli dei, nei pressi del tempio a lui dedicato in Olimpia, città posta nella regione nordoccidentale del Peloponneso, l’Elide, che così si chiamò per il tempio che ospitava ed a ricordo del monte Olimpo sulla cui cima si pensava fosse la dimora degli dei. Il che imponeva non solo la partecipazione degli atleti di tutte le regioni greche e perielleniche, ma determinava – e questo fu l’aspetto più significativo – la sospensione di ogni attività bellica; insomma era un modo religiosamente politico di interrompere guerre e combattimenti che spesso si concludevano con armoniosi trattati pace e di fratellanza.

Nessuno sa indicare, con esattezza, l’origine temporale dei Giochi, ma significative sono le leggende che intorno a loro fiorirono; alcune individuano in Eracle, figlio di Zeus, l’organizzatore della prima gara che consistè in una corsa tra l’eroe ed i suoi fratelli detti Dattili; altra leggenda richiama sempre Ercole, quello dorico figlio di Alcmena e Zeus, che organizzò i Giochi per ricordare la sua vittoria contro Augia, uno dei personaggi delle mitiche dodici fatiche; certamente tutti fanno risalire all’anno 776 a.C. la data convenzionale dell’inizio delle Olimpiadi, che dureranno fino all’anno 393 d.C. quando vennero soppressi da un editto di Teodosio.

Degli antichi giochi si è rispettata la cadenza quadriennale, per cui l’attuale manifestazione viene numerata come la XXVIII.ma dell’era moderna, cioè da quando questo esaltante spettacolo di gioventù, di forza e di fratellanza fu ripreso grazie all’opera del barone di de Coubertin che ne propugnò la rinascita nella città che fu culla di civiltà e sapere, Atene, a partire dal 1896.

Purtroppo, lo spirito di Olimpia soggiacque alla bestialità umana nel quadriennio 1916/1920 e negli anni 1940/1944 e 1944/1948; negli annali olimpici quegli anni furono laconicamente indicati come VI, XII e XIII: “Olimpiadi non disputate” senza nessuno accenno ai due grandi conflitti mondiali, forse – o quasi – per non offendere la religiosità degli dei.

Per il loro carattere panellenico, i giochi sportivi dei greci più famosi furono: i G. Olimpici; i G. Pitici; i G. Istimici e i G. Nemei, quasi a voler ricordare a tutte le città-stato dell’antica Grecia la loro comune discendenza divina; infatti, la partecipazione ai primi giochi fu riservata ai soli abitanti del Peloponneso; poi, furono ammessi quanti erano in grado di provare la loro “grecità”, oltre che dimostrare di non aver violato le norme che ammettevano gli atleti alle gare.

I giochi duravano 7 giorni, di cui 5 dedicati alle gare, mentre il primo era offerto ai riti religiosi e l’ultimo, alla premiazione dei vincitori. Le gare delle prime olimpiadi antiche erano essenzialmente podistiche, poi venne introdotto il pentathlon, poi la corsa di findo,, la corsa con i cavalli, la corsa armata, e poi il pancrazion una specie di Kick-Boxing attuale.

Oggi le gare olimpiche vogliono rappresentare l’antico bisogno dell’uomo di misurarsi con se stesso; ecco perché l’atleta olimpico dovrebbe rappresentare quell’ideale dilettantistico che lo stesso Aristotele, nella sua opera “l’Etica Nicomachea”, considerava l’attività sportiva come il più sublime dei giochi nei quali l’atleta gusta l’essenza della felicità e della virtù: e quante volte, abbiamo letto, nell’ansimare degli atleti protesi nello sforzo, quel momento fatidico della vittoria che è quasi il gustare, per un attimo, la gioia del Nirvana; chi non ricorda – per averlo vissuto di persona o ammirato nelle retrospettive televisive- il volo di Livio Berruti nei 200 metri piani, il primo velocista italiano sulla corta distanza, ad iscrivere il proprio nome e quello dell’Italia nel medagliere olimpico? Chi lo applaudì nell’agosto del 1960, durante la XVII.ma olimpiade di Roma, ha ancora negli occhi quell’armonioso stile circolare delle gambe del nostro Livio mentre, quasi sfiorando la pista, sembrava sfidare il ponentino di Roma a tenergli dietro: anch’io ho ancora nei miei ricordi più cari quel volo inebriante, al quale si accomuna l’ambrata falcata della “gazzella nera” l’americana Wilma Rudolph, o il passo morbido ed affettuoso dell’etiope Abebe Bikila che riscattava, con la serenità negli occhi e senza la superbia del vincitore, il passo falcato delle legioni romane e gli oltraggi della milizia fascista al suo popolo inerme.

Sono questi messaggi che i Giochi Olimpici devono trasmette alle folle osannanti degli stadi; ma è ancora più commovente l’abbraccio del vincitore ai suoi competitori che, pur secondi o terzi o ultimi , rappresentano i veri tedofori di quella fiamma il cui chiarore, che non si accende, né si spegne nel tripode dello stadio, possa illuminare le strade del mondo, viatico insopprimibile di fratellanza.

Giuseppe Chiaia (preside)