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Per la nascita di un nuovo progetto esistenziale… per dismettere i panni di “chi non siamo”!

Qualcuno mi ha insegnato che NOI siamo la Società, non gli altri, “Società” non è solo una parola detta in fretta per non dire nulla, quindi NOI possiamo e dobbiamo migliorarci. Ogni tanto in quest’Italia dai sobbalzi disincantati ci accorgiamo della presenza di problemi che rimangono insoluti. Problemi più volte individuati e rispediti al mittente. Problemi di equità legati alla nascita di una Giustizia alta, perché giusta. Problemi che fanno irruzione ogni qualvolta vengono intaccate quelle garanzie e quei diritti fino a un momento prima ritenuti inalienabili. Sono problemi che ad un primo esame possono essere ricondotti ad un inciampo del meccanismo giudiziario o penale, ma a ben guardare riguardano invece noi tutti, intesi come collettività, come parte attiva e itinerante della nostra società. Problemi che ci riguardano davvero da vicino, nelle persone ammanettate, arrestate, condotte in carcere, e fin qui non c’è nulla da eccepire….

…almeno credo!

Persone prelevate sul posto di lavoro, nella propria abitazione, di fronte ai propri figli ed ai parenti, persone poste in carcere, in isolamento, in una situazione di incapacitazione, perché ritenute socialmente pericolose. Persone con i braccialetti ai polsi, arrestate, chiuse in galera, e rilasciate a seguito di interrogatori chiarificatori. Persone che nel frattempo sono rimaste schiantate dall’incontro devastante con una realtà carceraria disperata e disperante, dove il rispetto della dignità ha lasciato il posto all’indifferenza, al punto da diventare consuetudine. Persino l’umanità non ha più un solo volto, ma doppie e triple identità, a seconda dell’esigenza più prossima.

Il risultato di questa azione di Giustizia è poco rassicurante: ma in quanti sentiamo il bisogno di lavorare su NOI stessi, per tentare di migliorare il sistema, questo andazzo sgangherato delle cose, che volenti o nolenti ci appartengono…

…nonostante tutto?

E’ bestemmia l’errore grossolano, è insopportabile la lacerazione disgregante per l’ingresso precipitoso in un luogo di dolore così profondo come il pubblico disprezzo. E’ un disagio che aggredisce per l’inaccettabilità di un accidente non cercato, è terrificante l’impatto con la follia lucida di uno spazio ristretto e di un tempo dilatato a dismisura, dove rumori e suoni sono grida inascoltate…in ogni cella di una prigione. L’incontro con queste non dimensioni è uno scontro impari, ci riconsegna le persone cambiate, perché sovente ne escono distrutte, ma non trasforma le nostre eleganti ipocrisie, le nostre belle e comode certezze: ” perché a noi non potrà mai accadere”……

Improvvisamente ci accorgiamo però che in carcere ci finisce il salumiere come l’operaio, il docente come

il giudice, allora il mondo crolla come i suoi falsi miti, e le parole vengono meno, come la pietà non più reperibile, perché fuggita via umiliata dal tintinnio delle manette e dall’incombere di una cella sporca. Ci scandalizziamo sempre, o quasi, con il senno del poi, cultura questa che sottoscrive la nostra ottusità e cecità verso l’altro. Ci infervoriamo immediatamente quando siamo toccati da vicino, ma rimaniamo indifferenti quando ciò colpisce chi magari è già affaticato. Ci preoccupiamo se il sistema ci consegna pari e dispari alla tragedia, ma è una preoccupazione che comunque non ci obbliga ad agire secondo coscienza per migliorare lo stato delle cose, bensì ci si limita ad affermare: ” meno male che non è capitato a me “.

Questo modo di pensare, di vivere, racchiude in sé i germi di una ulteriore tragedia, perché rappresenta quell’ipocrisia di cui parlavo poc’anzi, con l’aggiunta di una new entry, l’egoismo, per cui gli altri sono comunque estranei, tutto mi è estraneo, finché non tocca me… al punto da cambiarmi. In queste righe c’è tutto il mio disagio per non sapere offrire una proposta credibile ad evitare che quel dolore ci colpisca alle spalle, ma forse e più semplicemente sarebbe più consono per ognuno e ciascuno, per il mio pari e per lo straniero che è in me, comprendere una volta di più, l’importanza di mostrare ciò che si è, nel momento più difficile, perché proprio in questa durezza c’è la possibilità di crescere INSIEME, di liberarci davvero delle ipocrisie consolidate.

Una crescita che accompagna la nascita di un nuovo progetto esistenziale, dove al mostrare qualche lacrima per il nostro dolore, opponiamo la nostra capacità e il nostro coraggio di trasformare noi stessi e ciò che ci circonda, smettendo i panni dei migliori, che forse e spesso non siamo.

Vincenzo Andraous – Tutor Comunità “Casa del Giovane” – Pavia