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Vi presentiamo un lavoro di approfondimento per valutare il concetto dell’intelligenza animale del “dopo” Darwin


 

Il termine intelligenza può essere inteso come la capacità di contrastare tutte le moderne spiegazioni scientifiche poiché consente, ad un cervello pensante, di operare in modo non meccanico e spesso imprevedibile.

Già nel XVII secolo si è reso necessario qualificare il concetto di intelligenza.

A tale fine si svilupparono due correnti di pensiero: Dualismo e Ambientalismo.

I dualisti ritenevano che l’intelligenza fosse una facoltà esclusiva di esseri governati da una sostanza immateriale, l’anima e gli ambientalisti che consideravano l’intelligenza una potenziale capacità di interazione con il mondo esterno.

Uno dei maggiori sostenitori della teoria dualistica fu Cartesio, il quale sosteneva che anche il più stupido degli esseri umani, proprio perché dotato di anima, appartenesse ad un livello superiore rispetto al più intelligente degli animali.

Dall’analisi della teoria dualistica si evince che si possono ritenere propriamente intelligenti soltanto quegli esseri il cui comportamento scaturisce dall’interazione tra una anima autonoma ed il mondo esterno.

Inoltre poiché tramite il linguaggio l’uomo manifesta la capacità di esprimere astrazioni, è possibile postulare l’esistenza di un “interiore” (anima) intesa come sede delle attività intelligenti che prescindono da interazioni con il mondo esterno.

Il soggetto, qualora operi tali interazioni non può, però, sottendere al concetto di responsabilità; un essere intelligente, infatti, deve dimostrare di possedere la capacità di prevedere le possibili conseguenze che scaturiscono dalle proprie azioni e di percepirne le interazioni con i principi morali, sociali e legali.

La teoria dualistica può essere considerata “prescientifica” poiché presume l’esistenza di un’anima autonoma cioè autoregolante e pertanto non oggetto di studio di una scienza deterministica della natura ( fisica ) ma di una scienza di esseri non fisici (metafisica).

La posizione opposta alla prospettiva dualistica si basa sulla teoria che il comportamento intelligente deve essere considerato come un complesso meccanismo di insieme di reazioni scaturite dall’interazione con l’ambiente circostante.

Ciò comporta la capacità di inventare nuovi metodi di investigazione atti a risolvere le problematiche che via, via di incontrano.

L’intelligenza pertanto, non può essere considerata un bene esclusivamente umano ma può essere riscontrata, in gradi diversi, in tutte le specie viventi.

Evoluzione dell’Intelligenza biologica

Nello sviluppo dell’intelligenza la forza motrice è rappresentata dalla capacità di trasferire una conoscenza percettiva acquisita ad un diverso tipo di attività e di generalizzarne le soluzioni.

Questo è quanto cerco di dimostrare l’esponente più illustre del “comportamentismo”, B.F. Skinner il quale tramite esperimenti condotti su ratti riuscì a quantificare la reazione che esiste nell’animale, tra una reazione fisica e un dato stimolo, dimostrando che gli animali poteva essere considerati intelligenti, in quanto, mostravano una discreta capacità di inventare metodi inaspettati per la risoluzione di un dato problema.

Ancore oggi, circa il concetto di intelligenza, non esiste una vera risoluzione in quanto è un problema in continua evoluzione.

Già nel 1911 sul Journal of Educational Psycology vennero pubblicate le relazioni di numerosi psicologi relative al simposio sull’intelligenza: per Terman l’intelligenza è “l’abilità di pensare astrattamente”, per Woodrow l’intelligenza “la capacità di acquisire capacità”, per Thomdike consiste nel “poter dare buone risposte dal punto di vista della verità e dei fatti”, Vernon distingue le tre categorie da cui dipende lo sviluppo dell’intelligenza in biologiche, psicologiche ed operazionali.

Vernon, pertanto, definisce l’intelligenza “un aggregato di capacita” intese come capacità di agire intenzionalmente, capacità di pensare razionalmente e capacità di operare efficaciemente nel con l’ambiente.

Freman tra queste capacità distingue quelle che determinano l’adattasmento all’ambiente, quelle che permetto di apprendere e quelle che determinano la formulazione del pensiero astratto.

Nella formulazione del concetto di intelligenza è fondamentale considerare la capacità di interazione tra il soggetto e il suo ambiente.

Tali interazioni, definite col termine di percezione, variano a seconda delle specie sono strettamente correlate alla sua evoluzione.

Secondo Nicholas Mackintosh l’uomo si considera più intelligente degli altri animali poiché ritiene che il processo di evoluzione abbia determinato un aumento progressivo della sua intelligenza che si realizza man mano che si risale nella scala filogenetica, dagli invertebrati ai vertebrati inferiori, ai mammiferi, ai primati, alle grandi scimmie antropomorfe ed infine all’uomo.

Un’intelligenza così concepita, consentirebbe di quantificare, mediante un Q.I., il livello di intelligenza posseduto dai vari animali secondo una progressione lineare che aumenta passando dai vertebrati inferiori a quelli superiori fino agli esseri umani.

Le prove che le forme più avanzate di intelligenza si trovano soltanto negli animali superiori sono scarse e queste perché l’intelligenza non deve essere considerata come un qualcosa di unico, posseduto dagli animali, bensì un insieme eterogeneo en vario di processi operazionali e capacità.

In tal senso è indubbio che le capacità variano da animale ad animale, infatti ad esempio a livello di percezione (capacità) visive esistono degli animali capaci di rilevare colori a lunghezza d’onda al di fuori dalla capacità visive degli uomini.

Questo è un esempio di percezione e non di intelligenza, infatti conducendo esperimenti di laboratorio che riproducono situazioni reali si evince che in soggetto intelligente il problema viene affrontato in maniera più complessa.

La soluzione del problema prevede la previsione del futuro, l’adattamento al mutare delle circostanze, la capacità di trarre deduzioni ed il ragionamento.

Esperimenti di condizionamento condotti su molti animali (ratti e cani ) hanno dimostrato che il comportamento è strettamente condizionato da eventi casuali e, pertanto, è necessario che l’apprendimento sia del tipo associativo e cioè il soggetto deve essere capace di associare un dato comportamento ad un dato evento.

Mediante esperimenti condotti su animali che vivono in gruppi sociali Mackintosh ha dimostrato che lo sviluppo intellettivo comporta anche la capacità prevedere l’azioni dell’altro e pertanto, poiché la difficoltà di prevedere il comportamento dell’altro cresce man mano che gli individui diventano più intelligenti, anche l’intelligenza cresce.

In sintesi è plausibile affermare che esiste un sinergismo tra evoluzione e intelligenza.

In genere l’uomo crede di essere più intelligente degli altri animali poiché ritiene che l’evoluzione implichi un aumento progressivo dell’intelligenza man mano che si sale nella scala filogenetica.

Il termine “intelligenza”, per molti, riguarda la comprensione del mondo e non la sua semplice percezione, la previsione del futuro, l’adattamento al mutare delle circostanze, la risoluzione dei problemi, la capacità di trarre deduzioni, il ragionamento.

I processi mediante i quali gli animali raggiungono questo obbiettivo sono basati, secondo Mackintosh, su processi di apprendimento associativo di base e condizionamento.

Di ciò è una dimostrazione la salivazione del cane di Pavlov al suono del campanello che segnala il pasto, o il comportamento del ratto nella gabbia di Skinner che, per ottenere il cibo, preme una levetta.

Questi esperimenti di condizionamento sono, però, astrazioni artificiali del mondo reale e quindi non possono essere considerati che indicatori parziali del comportamento animale.

Il condizionamento permette agli animali di ricordare il luogo dove si trova un dato cibo, di evitare luoghi dove potrebbero annidarsi i predatori, di operare in modo da procurarsi il cibo (cacciando ed estraendo il cibo da contenitori ermeticamente chiusi ).

Sicuramente il processo di apprendimento associativo non può essere considerato solamente come l’instaurarsi ed il formarsi di nuovi riflessi ciclici, meccanici ed irrazionali ma come il risultato di un fenomeno di associazione di eventi che vengono associati in maniera selettiva, registrando cioè i fattori che caratterizzano l’evento in maniera da privilegiare quelli più affidabili a scapito di quelli che lo sono meno.

Per illustrare come questo processo avviene è utile ricordare l’esperimento condotto sul comportamento di un ratto sottoposto all’assunzione di un cibo per esso dannoso.

Se dopo l’ingestione del cibo il ratto si ammala, esso rifiuterà di toccare nuovamente quel cibo, poiché assocerà il sapore alla malattia e svilupperà unna avversione verso di esso.

Questo è tipico esempio di memori associativa infatti, in questo caso, il ratto associa l’evento malattia all’evento assunzione del nuovo cibo.

Il fenomeno di associazione in questo caso è avvenuto in un intervallo di tempo breve che ha portato l’animale a far risalire l’origine del suo malessere all’ingestione del nuovo cibo.

Ma cosa succede se nell’intervallo di tempo che intercorre tra l’esplicarsi dei due fenomeni si inseriscono eventi casuali del tutto imprevisti ?

Ripetendo più volte l’esperimento con intervalli di tempo diversi e con sostanze diverse si è visto che la risposta rileva l’instaurarsi di un fenomeno di condizionamento selettivo che privilegia i fattori di previsione più affidabili a scapito di quelli che lo sono meno.

Nella tabella che segue sono descritte le varie fasi dell’esperimento effettuato sul ratto.

 Condizionamento come esito dell’attribuzione selettiva

t1 t2 t3

1. caffè

malattia

avversione al caffè

2. caffè

saccarosio

malattia

nessuna avversione al caffè

avversione al saccarosio

3. –

caffè

malattia

Avversione al caffè

caffè

nessuna malattia

4. saccarosio

caffè

malattia

nessuna avversione al caffè

caffè

nessuna malattia

avversione al saccarosio

 

Nel caso n° 1 ad un ratto viene somministrata una bevanda dal sapore particolare, in questo caso caffè, ad un dato momento temporale definito t1; a t3 (un’ora dopo), gli viene praticata un’iniezione di cloruro di litio che gli procura una lieve indisposizione di stomaco per circa mezz’ora.

Ciò è sufficiente a produrre un condizionamento di avversione per il caffè e il giorno successivo il ratto sarà riluttante a berlo, questo è tuttavia dovuto unicamente al fatto che il caffè è stata l’ultima sostanza dal sapore nuovo che il ratto ha consumato prima di sentirsi male.

Nel caso n° 2, se somministriamo al ratto a t2 una soluzione di saccarosio, la malattia verrà attribuita al saccarosio e non al caffè.

Nel caso n° 3, in alcuni giorni il ratto beve caffè a t2 e riceve un’iniezione di litio mezz’ora dopo; in altri giorni, la bevanda di caffè non è seguita dall’iniezione di litio.

Il ratto sviluppa un condizionamento di avversione al caffè, anche se il caffè no sempre lo fa stare male, dato che rimane il migliore fattore di previsione del suo mal di stomaco.

Se, come nel caso n° 4, lo sperimentatore fornisce un fattore di previsione più efficace – saccarosio a t1 nei giorni in cui il caffè è seguito dal litio – allora il ratto attribuisce la propria malattia al saccarosio e non al caffè.

In tutti questi casi il ratto tiene anche in considerazione la propria esperienza passata.

Nel caso n° 2, in cui normalmente esso attribuirebbe la malattia al saccarosio anziché al caffè, dato che è l’ultima cosa consumata prima di sentirsi male, possiamo invertire tale esito in due modi diversi.

Il giorno prima della prova di condizionamento, facciamo bere al ratto del saccarosio senza indurre conseguenze negative, oppure possiamo fargli bere del caffè che lo faccia star male.

In entrambi i casi, dopo la prova di condizionamento il ratto attribuirà la malattia al caffè e non al saccarosio; esso ricorda quanto è avvenuto il giorno precedente e il processo di condizionamento agisce sul presupposto che il mondo sia un luogo stabile.

Se il saccarosio era affidabile ieri, e il caffè non lo era, è presumibile che sia il caffè, e non il saccarosio, la causa della malattia di oggi.

Pertanto il processo di apprendimento associativo sembra molto ben strutturato per consentire agli animali di formarsi un quadro accurato della struttura casuale/stabile del loro mondo.

L’apprendimento associativo rappresenta un mezzo molto efficace, per animali e persone, di previsione del futuro, di comprensione degli eventi e di selezione tra gli eventi stessi.

Ma può essere considerato uno strumento di misura dell’intelligenza animale ?

Certamente no negli animali, la produzione di discriminazioni cioè di scelta dei processi associativi specifici di un dato evento possono sembrare, a volte, molto complessi ma in realtà sono il frutto di semplici analisi associative che concorrono nell’esplicarsi dell’evento stesso in maniera lineare e non comportano un processo di scelte selettive.

Infatti quando le discriminazioni richiedono la presenza di un fattore astratto che determina una scelta corretta, spesso gli animali sono incapaci di operare tale scelta.

Per esempio supponiamo che si addestri un animale alla discriminazione “uguale/diverso”, così da indurre l’identificazione della risposta “uguale” con due cerchi dello stesso colore (entrambi rossi o entrambi verdi) e dalla risposta “diverso” a due cerchi di colore diverso.

Questa problematica è stata affrontata da David Premack che ha addestrato lo scimpanzé Sarah e da Irene Pepperberg che ha insegnato al pappagallo Alex le parole “uguale/diverso”.

Nell’esperimento condotto da Premack lo scimpanzé Sarah riesce a scegliere tra due forme di plastica collocandole vicino ad oggetti di forme simili.

Ciò dimostra che Sarah e molti altri scimpanzé riescono a dare risposte di trasferimento di immagini basate sull’eguaglianza e sulle differenze delle forme, ma non dimostra che l’intelligenza aumenta salendo nella scala filogenetica, infatti anche il pappagallo Alex mette in atto il trasferimento dimostrando di essere capace di apprendere la regola relazionale che lega le varie forme e i vari colori.

Sarah riesce a suddividere i colori in base alla loro similarità e riesce a scegliere in base agli attributi degli oggetti stessi, ma anche Alex sa farlo, infatti mostrando ad entrambi gli animali oggetti diversi ma con un aspetto in comune, sia Alex che Sarah sanno distinguere l’elemento in comune.

Infatti mostrando ad Alex un cerchio rosso e un triangolo verde, entrambi di legno, alla domanda “che cosa è uguale” esso darà la risposta esatta: entrambi di legno.

A Sarah è stato insegnato a scegliere usando attributi ancora più astratti quali le frazioni, infatti quando le si mostra una caraffa d’acqua piena per metà e le si chiede di associarla ad un mezzo disco o ad un quarto di disco, essa sceglie il mezzo disco.

Questo tipo di percezione è senza dubbio superiore alla semplice capacità di apprendimento associativo, infatti secondo Mackintosh la capacità di percepire la similarità tra due oggetti e due situazioni dissimili è esattamente uno dei modi con cui si può estendere, a settori nuovi, la propria coscienza del mondo.

Si tratta di quella che chiamano “visione delle analogie”, che nella misurazione del Q.I. è detta ragionamento analogico.

Tutto ciò esula dal campo dell’apprendimento associativo semplice, ma pur consentendoci di capire che gli animali sono in grado di apprendere il problema, non ci consentono di stabilire una graduatoria tra le varie espressioni dell’intelligenza animale .

Infatti paragonando i dati di esperienze analoghe condotte su corvi, piccioni e pappagalli si evince che tutti apprendono il problema ma non tutti apprendono le stesse cose.

Nell’analizzare più a fondo il processo dell’apprendimento associativo è opportuno chiedersi che cosa esula dal percorso associativo semplice.

Senza dubbio l’apprendimento associativo consente di prevedere gli effetti di un evento conoscendone le cause, ma no consente di risolvere i problemi originati da inferenze casuali.

Ne è un esempio l’esperimento condotto da Premack sulla capacità intellettiva degli scimpanzé.

Ad un scimpanzé posto dietro uno schermo, l’osservatore mostra una mela ed una banana che, successivamente colloca in due contenitori A (la mela) e B (la banana).

Quando allo scimpanzé viene chiesto di scegliere tra i due contenitori, sceglie la A che contiene la mela poiché deduce che la B sia vuota dato che l’addestratore ha mangiato la banana.

Questa è un’inferenza: vedendo, l’osservatore, mangiare la banana esso deduce che i contenitore, dove dovrebbe essere contenuta, sia vuoto.

Questo processo è un esempio di inferenza. Lo scimpanzé vedendo che l’addestratore mangia la banana trae la conclusione che la scatola B è vuota ma esclude l’inferenza casuale data dal fatto che l’addestratore ha una seconda banana in tasca.

Non tutti gli scimpanzé esaminati da Premack hanno operato la scelta giusta alla prima prova.

Un simile ragionamento è riscontrabile in bambini di età compresa tra 0 e 4 anni, ma per fasce superiori la risoluzione del problema diventa più complessa ed imprevedibile poiché tiene conto della possibilità di inferenze casuali.

Negli umani, a differenza dei primati le scelte del contenitore sono varie e dipendono strettamente dal soggetto che osservala scena che dà la soluzione in funzione delle proprie capacità interpretative del fenomeno.

Ad esempio un soggetto molto pessimista e negativo potrebbe scegliere il contenitore B poiché, considerata la malvagità dell’addestratore che mangia la banana, lo stesso potrebbe trasferire la mela dal contenitore A al contenitore B per penalizzare ulteriormente l’osservatore.

Da quanto espresso è evidente che l’intelligenza animale manifesta un programma di tipo adattitivo mediante il quale gli animali pervengono alla soluzione di un dato problema ma non spiega perché i primati manifestano comportamenti considerabili più intelligenti di quelli di altri animali.

La risposta ad un simile quesito è da ricercare nel processo di evoluzione e di adattamento che hanno subito questi animali.

Tra le risposte più plausibili le più accreditate sono, senza dubbio, quella secondo la quale i primati non sono particolarmente intelligente poiché anche loro sfruttano un processo di tipo associativo e l’altra che individua come determinante nel processo evolutivo dei primati la convivenza in gruppi sociali grandi e complessi.

Questa tesi pur essendo molto affascinante non risulta però completamente soddisfacente, infatti non tutti i primati vivono in gruppi sociali e non è possibile definire lo scimpanzé più intelligente del solitario orango.

Nello sviluppo di tale problematica è indispensabile risalire al concetto di intelligenza che sicuramente ha come funzione la capacità di prevedere ciò che potrebbe accadere.

Ma se tale previsione dipende dall’operato degli altri allora è necessario che il singolo abbia la capacità di prevedere il comportamento degli altri.

La complessità del comportamento e quindi la capacità di prevederlo aumenta man mano che gli altri diventano più intelligenti e quindi l’individuo stesso diventa più intelligente.

Parallelamente alla crescita dell’intelligenza del singolo, anche il gruppo diventa più intelligente poiché deve poter prevedere la crescente complessità del singolo.

L’intelligenza potrebbe quindi progredire tramite un effetto sinergico con l’evoluzione della vita sociale.

La maggior parte dei primati è certamente sociale, anche se il loro processo di apprendimento è senza ombra di dubbio funzione dell’osservazione e dell’imitazione.

Nell’eseguire una azione non è sufficiente l’osservazione è indispensabile anche la pratica.

Comunicazione degli animali

Accanto ad un tipo di intelligenza adattivo, gli animali, filogeneticamente più avanzati manifestano comportamenti più intelligenti di qualsiasi altro animale.

I primati, infatti, sembrano essere più intelligenti è ciò permette loro una vita abbastanza facile.

Ci su chiede quindi se i primati mostrano un aumento di quoziente di intelligenza più elevato e tutto ciò a che cosa è dovuto ? Quali sono i condizionamenti che hanno indotto un tale sviluppo della intelligenza?

Una possibile risposta potrebbe essere desunta dal tipo di vita che questi animali conducono.

La maggior parte di essi vive in gruppi sociali gradi e complessi e dato che i giovani primati restano dipendenti, dal gruppo, per un periodo relativamente lungo, giocando ed interagendo, probabilmente imparano l’uno dall’altro mediante un processo di osservazione e successiva imitazione.

In molte, lingue, infatti il termine “scimmiottare” significa imitare.

Non c’è dubbio che le scimmie lo facciano meglio degli altri, ma ci sono anche altri animali che imparano imitando.

Sicuramente l’imitazione è un fenomeno molto diffuso tra gli animali ma è indubbio che questo processo debba essere stato conseguente all’atteggiamento di un primo individuo che autonomamente ha deciso di compiere un dato gesto di seguito imitato dal resto del gruppo.

Ad esempio è noto il caso di una scimmia giapponese che, durante un esperimento di osservazione del comportamento da parte di alcuni sperimentatori, iniziò a lavare le patate dolci, che erano state lasciate sulla spiaggia dagli studiosi, nel mare per asportarne la sabbia.

Di seguito questo comportamento fu imitato dalla maggior parte del gruppo e fu interpretato come imitazione e come esempio di comportamento “proto – culturale”.

Tre anni dopo l’accaduto, meno del 50% del gruppo lavava in mare le patate mentre il resto continuava a mangiarle sporche di terra.

Un altro esempio di comportamento basato sull’imitazione è la “caccia alle termiti” degli scimpanzé, che consiste nell’utilizzare un ramoscello privato delle fogli che viene leccato e introdotto nel termitai per poi leccare le termiti che vi rimangono attaccate.

In questo caso si può supporre che il piccolo che imita la madre in tali operazioni sta certamente imparando qualcosa è cioè che dalla terra, inserendo un ramoscello, esce del cibo, ma non è in grado di eseguire l’operazione di imitazione subito dopo averla vista.

Infatti per poter eseguire esattamente la procedura, il piccolo, ha bisogno di molta pratica e riuscirà nell’intento di estrarre le termiti dal termitaio solo dopo aver ripetuto l’operazione innumerevoli volte.

Anche in questo caso non è possibile attribuire il comportamento acquisito ad un particolare livello di intelligenza anche se è plausibile asserire che gli animali che vivono in gruppi socialmente organizzati ricevono più stimoli e si influenzano vicendevolmente mediante un processo basato più che sull’elaborazione logica dell’evento, sul processo d’imitazione e sulla esercitazione pratica di un dato comportamento che viene che viene ripetuta fin tanto che non si acquisisce una tecnica opportuna.

In conclusione non è possibile stabilire il grado di intelligenza di ogni animale ed è anche errato pensare che più si sale nella scala filogenetica più gli animali sono intelligenti, infatti alcuni, comportamenti animali osservati su polli e piccioni, basati su di un processo di discriminazione ci sbalordiscono, mentre li riteniamo normali quando a compierli sono dei primati.

Il problema è dato dall’impossibilità di stabilire quali sono i processi responsabili di tali differenze di intelligenza e pertanto non possedendo un metodo per oggettivare il concetto di intelligenza non è possibile nemmeno stabilire se e quali sono gli animali più intelligenti poiché questo termine, complesso e controverso, assomma capacità, attitudini e comportamenti non oggettivabili.

Gli animali sociali non solo prevedono il comportamento reciproco ma si influenzano a vicenda mediante la comunicazione.

Gli effetti prodotti dall’esperienza su di un organismo sono la risultante di un processo molto importante definito apprendimento.

Il fenomeno dell’apprendimento, paradossalmente, sembra negare il processo di evoluzione, infatti quanto più questo avviene in una specie, tanto meno sembra avvenga una evoluzione nel comportamento della specie stessa.

Studi semplici in proposito sono stati condotti da Niko Tinbergen, Peter Marler, Sherwood Washburn, Hans Kemmer ed altri.

Poichè col termine intelligenza si intende assommare una serie di comportamenti presenti in tutte le specie, dovuti ad una interazione tra capacità posseduta ed esperienze vissute, è chiaro che una delle problematiche più rilevanti riguardo alla Intelligenza Biologica è senza ombra di dubbio quella volta a stabilire se per intelligenza si deve intendere una funzione geneticamente correlata all’organismo o qualcosa che può essere insegnata ed acquisita dall’organismo stesso.

 

Stanislao Guglielmelli (ricercatore)