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“Nati due volte”, nell’analisi di un docente universitario della Magna Grecia di Catanzaro.


Nati due volte di Giuseppe Pontiggia, nel panorama culturale italiano contemporaneo occupa, senza alcun dubbio, una nicchia particolare e desueta. L’opera costituisce una particola letteraria la cui trama assume, contestualizza, definisce ed esalta i colori e le sfumature di un problema che l’attuale società sembra voler relegare ad una dimensione marginale per non offuscare l’imperante perfezionismo e l’efficientismo, sue cifre distintive.

Si tratta di un romanzo diverso in cui Pontiggia sembra aver voluto pentagrammare amarezza, comicità, drammaticità, ironia e passione. E’ un segmento di una biografia doppia e incrociata di un padre, docente, e di un figlio “diversamente abile”, affetto da tetraparesi spastica distonica, in viaggio verso un’effimera ed inane ricerca della normalità.

L’autore, con gioco sapiente e consolidata abilità, conduce per mano il lettore alla scoperta di una realtà quotidiana ma lontana dalla comune sensibilità sociale ed emotiva. Agglutina sull’asse del rapporto padre-figlio un universo di personaggi che riflettono con puntualità le coordinate dietro le quali, in genere, si “rifugiano” le persone cosiddette “normali” di fronte ai soggetti “diversamente abili”. Riesce, per questa via, a cogliere temi, aspetti e, soprattutto, problemi epistemologicamente significativi sul piano socio-psico-pedagogico.

Sotto questo profilo, infatti, il “pedagogista” Pontiggia offre al lettore la “cifra” per la trasposizione dal piano narrativo a quello educativo-formativo degli avvenimenti raccontati. Basta pensare, ad esempio, alle dinamiche familiari e parentali e/o clinico-mediche che un soggetto “diversamente abile” determina; oppure a quelle che provoca sul piano dell’integrazione socio-scolastica: si tratta di fattispecie che danno vita ad una sorta di trama in controluce di Nati due volte e che ci consentono qualche riflessione sul tema.

La nascita di un figlio è per i genitori un evento di particolare pregnanza emotivo-affettiva e relazionale. Non è, dunque, difficile immaginare che quella di un bambino “diverso” rappresenti un fatto traumatico per l’intera famiglia: un tale evento scatena in essa dinamiche di angoscia e di aggressività, sia in direzione del bambino stesso che in quella della coppia e/o dei vari componenti familiari.

La madre è colei che vive più drammaticamente la nascita di un figlio “diversamente abile”, la sua angoscia e la sua sofferenza psicologica raggiungono livelli altissimi, anche se si manifestano attraverso una gamma di sfumature legate, ovviamente, alla sensibilità individuale ed al tasso di “tolleranza” all’evento. Pontiggia affida alla “moglie del narratore” il compito di “gridare” che esiste anche una dimensione in cui il dolore e lo smarrimento possono essere vinti e costretti ad arrendersi alla dedizione e all’amore.

Il padre viene sconvolto dall’avvenimento in pari misura ed intensità della moglie, ma, in genere, appare meno condizionato, sia per quanto attiene la sfera psicologica che quella pratica. Non sono infrequenti i casi in cui evidenzia una fuga dal problema coniugata ad una tacita delega alla madre della “gestione” del figlio in difficoltà. Quest’ultima condizione, ad esempio, è paradigmaticamente rappresentata in più di un passo della narrazione.

Entrambi i genitori percepiscono l’impossibilità di individuare e di progettare per il figlio “diversamente abile” un ruolo rapportabile ai modelli sociali della cultura dominante. “Feriti dalla diversità”, realizzano – sottolinea Pontiggia – che “è finito il tempo della commedia, ora è cominciata la tragedia”. E, con singolare sensibilità, sintetizza in una frase breve e secca ma tagliente la tensione che pervade, in questi casi, il rapporto di coppia: “facciamo a gara nell’attribuirci, alternativamente, le frustrazioni che condividiamo”.

Anche il “fratello”, in questi casi, non si sottrae agli eventi ed alla situazione familiare: sottoposto precocemente ad una serie di responsabilizzazioni e di conseguenti condizionamenti, va incontro a sensibili difficoltà nei rapporti relazionali con i coetanei e spesso evidenzia una incontrovertibile tendenza all’isolamento. E’ stato osservato che i fratelli dei soggetti “diversamente abili” presentano una compromissione del concetto di sé e guardano con forte preoccupazione al proprio futuro personale e alle caratteristiche future del rapporto con il fratello disabile. Ciò potrebbe dipendere dal fatto che i genitori al fratello maschio chiedono, non sempre velatamente, di inseguire il pieno successo economico anche per assicurare il mantenimento dello svantaggiato; alla sorella, invece, d’intraprendere la professione di educatrice e/o, addirittura, di rinunciare ad una vita autonoma o ad una famiglia propria per garantire a quest’ultimo un’assistenza permanente. Dall’alterazione dei rapporti infra-familiari, come s’intuisce, scaturiscono reazioni estremamente complesse: non sono pochi i casi in cui il soggetto “diversamente abile” diviene il regolatore dell’omeostasi familiare.

I rapidissimi cenni, poi, riservati al “nonno” risultano altrettanto “in linea”: l’autore coglie un atteggiamento mentale che ancora oggi, purtroppo, è possibile riscontrare in moltissimi casi, forse paradigmatico di una certo modo di rapportarsi al mondo ed agli altri: però, se c’è chi sostiene che i figli sono l’unica speranza d’immortalità riservata all’uomo, non può scandalizzare che un nonno, di fronte alla condizione del nipote che manda in frantumi il suo senso della vita, si convinca che questi sia “diverso solo in apparenza”.

L’involontario pedagogista puntualizza, altresì, un aspetto spesso sottaciuto ma importante e rilevante della condizione di disabilità: nella società cognitiva e dei saperi complessi e dell’alta specializzazione non è raro che i soggetti più bisognevoli di aiuto incontrino (sarebbe più esatto dire si scontrino) con medici (generici e/o specialisti) che, pur di non far trasparire la propria impreparazione in materia, non esitano a nascondersi dietro una coltre di cinismo, incuranti dell’angoscia che questo loro atteggiamento accresce nei genitori del “diversamente abile”. In questi casi sembra che un assordante silenzio solleciti nei provati genitori la voglia di urlare il desiderio di una vita “semplicemente” normale per sé e per il figlio “diversamente abile”. Ma “la vita è ciò che ti accade” (Lennon) e non sempre sul suo archetto possiamo farne vibrare le corde secondo i nostri desideri e le nostre aspirazioni.

Ciò nonostante, se si sposta l’attenzione sulle angolazioni socio – scolastiche dell’integrazione dei soggetti disabili, il messaggio pedagogico di Nati due volte si percepisce meglio: Pontiggia coglie efficacemente aspetti estremamente interessanti della dinamica relazionale e li declina attraverso una galleria di personaggi che certificano situazioni “comuni” che il soggetto disabile è spesso costretto ad affrontare nella sua marcia per l’integrazione scolastica: pensiamo al rapporto tra Andrea e la sua insegnante elementare e/o a quello instaurato con la psicologa; ma anche al professore Cornale. Le prime due figure costituiscono incontrovertibilmente un esempio di solidarietà altruistica. Il docente di storia dell’arte, invece, incarna un modello eloquente di contraddizione umana: crede di aver capito il mondo e perde l’opportunità di “crescere” in umanità, professionalità ed in autorevolezza perché incapace di riconoscere il valore e la dignità di cui ogni persona, diversa e non, è portatrice. Gli alunni non sono per lui la melodia della sua opera e la musica della sua vita!

Anche quando l’autore riporta i dialoghi che “custodiscono” il rapporto tra Andrea e la classe fotografa con rigore dinamiche complesse, non sempre di facile lettura persino per gli addetti ai lavori. Riesce, con poche battute “usate” come pennellate policrome di emozioni, a rendere l’atmosfera che generalmente si determina nelle classi in cui sono integrati alunni “diversamente abili”.

Il pedagogista per caso, in definitiva, costruisce attraverso fatti, persone ed avvenimenti una trama di situazioni, sentimenti ed emozioni che suscita suggestioni e invita alla riflessione.

Il messaggio di Nati due volte è chiaro e forte e non può non essere condiviso: in un’epoca in cui si esalta la sfida fine a se stessa come superamento del limite, la “diversità” impone la sfida più importante, che è la consapevolezza e l’accettazione del limite.

Mario D. Cosco

Docente (a contratto) dell’Università “Magna Græcia” di Catanzaro