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L’uomo che vidi venirmi incontro, quel giorno non era mio padre, con quelle rughe che sembravano solcare il viso con la stessa forza di un aratro sulla dura terra…


Una vita difficile – 6° puntata(c)

Siamo alla sesta puntata del diario di Fabrizio Poggi Longostrevi. Una serie di pagine particolarmente toccanti e crude. Ci siamo resi disponibili a dar voce all’autore perché riteniamo giusto dargli l’opportunità di far emergere tutti i risvolti umani di una triste e “opaca” vicenda, cercando di evidenziarne barlumi di lucida realtà intrisa di sentimenti anche positivi. Si fa presente che, comunque, le valutazioni espresse, sono soggettive e, a tratti (volutamente), romanzate.

L’uomo che vidi venirmi incontro quel giorno nel parlatorio non era mio padre.

Le guance e il mento ricoperti di lunghi, ispidi, ribelli peli bianchissimi per la barba incolta, trascurata da giorni, gli occhiali sporchi dalle cui lenti opache traspariva vividamente uno sguardo disarmonico, scomposto, stralunato, a tratti persino spiritato e a tratti invece spento, svilito, rassegnato, la camicia azzurra con le cifre blu scuro delle sue iniziali “GPL” tutta logora, consunta e ricoperta di vecchie macchie, ormai sbiadite di caffè, le rughe che sembravano solcare il viso con la stessa forza di un aratro su un campo di terriccio umido e leggerissimo tanto da farlo assomigliare più ad un personaggio irreale, ad un mimo d’avanspettacolo d’altro tempi di quelli col volto coperto di vernice bianca e le rughe disegnate che ad un essere umano vero e proprio: dimostrava almeno 15 anni in più rispetto ai suoi 63 anni appena compiuti…Ricordo che riuscii a stento a domare lo sconforto, il dolore, lo sgomento e la rabbia che presero con forza a mordermi dentro e a cuocermi nel profondo onde offrire a mio padre, che non aveva minimamente, né forse poteva avere, in alcun modo minimamente coscienza dell’impressione drammatica che suscitava nel suo interlocutore, un’immagine “di facciata” serena, pacata, imperturbabile.

I miei avvocati mi avevano anticipato e ammonito, avvisandomi preventivamente che esisteva la concreta possibilità che l’attività investigativa potesse giungere persino in tale circostanza all’introduzione nel parlatorio del carcere di una microspia in grado di registrare tutto quello che ci saremmo detti, ma quella fu l’unica volta in tutta la mia vita in cui decisi di sbattermene altamente: non ho nulla da nascondere, né reati da scontare pensai…

In quel momento, dopo aver visto mio padre in siffatte condizioni, mi decisi infatti a parlare a ruota libera senza alcun freno, remora, scrupolo o condizionamento perché raggiunsi la certezza e l’assoluta convinzione che qualsiasi suono, parola, frase o mezze frasi fossi riuscito a mettere insieme e produrre in quel pochissimo tempo che ci veniva concesso di trascorrere insieme sarebbe stata del tutto pertinente e appropriata perché il dialogo che stava per rappresentarsi (non svolgersi…) tra di noi non poteva appartenere al reale ma al mondo della fantasia, dell’immaginazione, del fantastico, dell’assurdo, del paradossale, del comico e quindi del grottesco.

Ovviamente questo non fu minimamente inteso…

Anzi i magistrati che analizzarono la trascrizione di quel colloquio attribuirono ad alcune mie frasi assurde e volutamente provocatorie (vedi la fuga alle Bahamas per fare ritorno in Italia solo dopo i 70 anni…) la valenza di prove certe, sicure, inoppugnabili elevate persino al rango di supremi e inconfutabili “riscontri oggettivi” da tradurre poi nell’immediato in nuovi capi d’accusa: a causa di quella mia colossale sparata infatti mio padre si vide rigettare l’istanza di scarcerazione in funzione del, supposto, mai pensato né organizzato, imminente, concreto pericolo di fuga…

Quando pensai a dargli la speranza di prendere il largo verso un luogo lontano, esotico, idealmente sereno dissi la parola “Bahamas” solo perché nella mia mente è quella che si associa con maggiore immediatezza, automatismo e celerità all’idea dei tropici, ma avrei potuto benissimo dire, per ciò che valeva “Galapagos”, “Mauritius” o “Figi”: una valeva l’altra in quel momento irreale…

Purtroppo citai senza volere proprio uno dei paesi più impermeabile al mondo, quello ove giacciono pare, ma non ne so più di tanto, senza risposta innumerevoli rogatorie e il peso, il valore, e la forza probante che venne attribuita dai magistrati a quelle mie parole fu tale da ingenerare in loro la ferrea, granitica convinzione che mio padre disponesse di ingenti fondi presso qualche istituto delle isole caraibiche, tant’è che nell’ordinanza del G.i.p. con la quale si negava a mio padre la scarcerazione (a causa appunto del presunto pericolo di fuga) trovai le seguenti testuali parole “a causa dei fondi di cui il Longostrevi effettivamente dispone a Nassau”…

La cecità, l’inganno, l’assurda fede era tale che se avessi detto a mio padre di andare alla Nasa e pagarsi un bel viaggio nello spazio (quello era il tenore della mia “sparata”) nell’ordinanza del Gip avrei, forse, poi letto “a causa dei fondi di cui il Longostrevi effettivamente dispone sulla luna o su Marte”…

Mio padre era totalmente alienato, avulso dalla realtà: non solo non aveva coscienza della sua pietosa, precaria e aleatoria condizione psicofisica, umana e giudiziaria ma non aveva neppure un minimo di “senso critico” e di cognizione circa la circostanza del nostro incontro, il luogo ove si trovasse, ciò che era successo, quanto era drammaticamente cambiato in quell’ultimo mese della sua e della mia vita…

Parlava come se ci trovassimo al bar dello sport o su una sdraio in spiaggia a contemplare il mare…

E io ancora più imbecille e superficiale di lui (ero molto giovane e ingenuo) che gli davo anche corda…

Per tentare di interagire con lui sensibilmente infatti era del tutto ovvio che bisognava (giocoforza) sintonizzarsi sulla sua stessa (pazzesca) frequenza, cogliere e cavalcare l’assurda e surreale lunghezza d’onda alla quale viaggiavano i suoi pensieri e seguirlo sullo stesso fantasioso, fantastico e tortuoso sentiero: “l’habitat” ideale in cui ci si muoveva era, almeno nelle intenzioni dello scrivente, quello dell’assurdo, della provocazione, del delirio assoluto…

Come fa ad essere preso seriamente uno che uscito fresco fresco dalla cella, dal banco del parlatorio del carcere vedendo il figlio gli parla di andare a spostare in giardino la scrivania del direttore generale di una casa di cura che non è nemmeno più sua, e di costituire una nuova holding lussemburghese denominata CIF2 in sostituzione dell’esistente società anonima CIF le cui azioni al portatore erano state nel frattempo consegnate dai fiduciari lussemburghesi (per la prima volta nella storia d’Italia…) alla magistratura competente ad indagare di Milano.

Senza contare che stiamo parlando di una persona ritenuta di elevatissimo spessore criminale… Un criminale talmente astuto, scaltro e “scafato” infatti che per abbattere l’imponibile delle sue società e creare fondi neri da occultare all’estero fabbricava in casa fatture fasulle (al fine di gonfiare i costi) per miliardi e miliardi di lire riproducendo l’intestazione di società e ditte che nella realtà spesso nemmeno esistevano già più, essendo già state nel frattempo ( persino da anni) poste in liquidazione o fallimento…

Altro che controlli incrociati…Se questo è un genio del crimine…

La verità è che la sua psiche brutalmente frustrata e duramente provata già da un mese di detenzione, percepita come ingiusta, crudele e atrocemente vessatoria, e bombardata, obnubilata, annebbiata da dosi massicce di psicofarmaci che non erano i suoi, quelli ai quali era assuefatta e abituata da anni e chi sa qualcosa di psichiatria capisce immediatamente quale trauma sia e cosa comporti per un (GRAVE) malato psichiatrico anche solo una minima variazione improvvisa nella terapia psicofarmacologica seguita da tempo…

Mio padre fu sottoposto nei giorni della detenzione a ben 8 fra consulenze e perizie psichiatriche stilate dai nomi più illustri esistenti in circolazione in campo psichiatrico, così si espresse infatti il dr. Baldassarre Leone, primario psichiatra, chiamato in causa proprio il giorno seguente (26/6/97) a giudicarne le condizioni in una lettera datata 1/07/97 avente il valore di consulenza (o meglio “non-consulenza” come si capirà leggendola..) indirizzata al professor G.A. (“il divino”) che giudico di straordinaria bellezza e suggestività anche solo da un punto vista meramente letterario:

Così si espresse infatti il dr.Leone, medico-psichiatra in una lettera all’avv. A (“il divino”), di cui ho avuto conoscenza nella qualità di figlio dell’indagato :

“Il signor Longostrevi si è presentato al colloquio col sottoscritto procedendo a piccoli passi, strisciando i piedi, col tronco ricurvo e lo sguardo rivolto verso il basso.

Non mi ha salutato, come se non si fosse accorto della mia presenza, ma mi ha teso la mano allorquando io mi sono accinto a salutarlo, presentandomi. Mi risponde a fatica dicendo di essere già stato informato della mia visita. Il suo pensiero è povero e ripetitivo, espresso solo se stimolato dall’interlocutore, manifestamente influenzato da un grave vissuto depressivo.

A momenti si ha l’impressione, quasi drammatica (per chi la provoca) di un vera e “propria cecità esistenziale”, di rassegnazione passiva e di totale indifferenza emotivo-affettiva che impongono una opportuna interruzione del dialogo.

Breve pausa: durante la quale si alza due volte anche per andare a urinare, poi si siede e piomba in un profondo sonno. Prego le due guardie di turno (di cui uno il vice ispettore) di destarlo. Lo fanno con molta delicatezza riaccompagnadolo a lenti passi in cella.

A questo punto mi chiedo: che valore avrebbe un giudizio clinico inerente alle effettive capacità del signor Longostrevi, che siano desunte dal fatto che egli di volta in volta sia apparso o appaia più o meno lucido, più o meno orientato nel tempo, più o meno depresso, più o meno trascurato nell’abbigliamento ecc. ecc. ?

Una impostazione del genere risentirebbe chiaramente di un vecchio e superato clinicismo dove chi è chiamato a giudicare si porrebbe di fronte ad un malato quasi nella stessa posizione in cui l’anatomico si pone di fronte al cadavere: lo dissezione e lo perde come vivente unità umana funzionale.

In un caso come questo che riguarda il signor Longostrevi con le implicazioni che esso comporta a causa della cronica grave malattia mentale che lo affligge, aggravato oltretutto da contestuali esperienze, vissute come crudeli, dolorose e afflittive, che vengono ovattate a loro volta da interventi terapeutici psicofarmacologici massicci (i quali oltre che sulla psico-emotività hanno notoriamente ampi riflessi coartativi anche sulla libertà di efficienza intellettiva), in un caso come questo, non mi è possibile riuscire a ripensare giuridicamente i fatti biologici di una così complessa condizione psicopatologica che dovrebbero invece essere acquisiti con una indagine clinica accurata e in condizioni ottimali.

I giudizi che si elaborano in sede applicativa psichiatrico-forense non possono essere infatti a mio giudizio dei semplici pareri clinici.

Così come ci è stato presentato fino ad oggi il signor Longostrevi, nella descrizione documentale in mio possesso e che pure ho esaminato attentamente, assieme alla cartella clinica del centro medico di Opera, non ci permette di scoprire un individuo reale e complesso rispondente alla sua vera identità, in senso clinico e psichiatrico forense, ma sibbene una specie di fantasma psicologico-clinico che si è cercato di cogliere affannosamente, con tutte le riserve collaterali, nella griglia di desueti schemi gnosici caratterizzati da riferimenti categoriali di “comportamento” “fattore verbale” “capacità ideativa” “capacità mnemonica”, “capacità affettiva” ecc. ecc.

Allo stato attuale a mio giudizio il sig.Longostrevi non dispone delle condizioni di salute ottimali per esprimere un giudizio sulle sue effettive capacità, e ciò, a causa della destrutturante patologia mentale che lo affligge e per le collaterali interfernze ambientali e della massiccia terapia farmacologica a cui è sottoposto.

Tutto ciò, in sintesi, non consente, di esprimere una corretta valutazione psichiatrico-forense che possegga, in sede applicativa, il vigore e il rigore dei documenti, come il caso in questione impone.

La prego pertanto di dispensarmi da ogni ulteriore intervento fino a quando le condizioni psico-fisiche del sig. Longostrevi non saranno ottimali per potere così porgere a Lei e a chiunque ne sia interessato, anche tramite il mio eventuale contributo, il necessario pabulum medico-legale per poter giudicare correttamente e definitivamente.

Cordiali Saluti.

Baldassarre Nello Leone

P.S. Mi incombe l’obbligo di puntualizzare che poiché è stato verificato nel corso degli anni che la grave malattia mentale di cui soffre cronicamente il sig. Longostrevi non risente positivamente di alcuna sorta di intervento psico-farmacologico, giudico tecnicamente e umanamente errato insistere nella somministrazione di detti farmaci anche se da un lato sono utili per la contenzione

Mio padre commentò anche con me alcune dichiarazioni fatte da altri e riportate dai quotidiani fra le quali quelle del direttore generale della Casa di Cura di Vigevano, dr.P. G. (quello della scrivania in giardino…), il quale intervistato dai giornalisti dopo essersi fino a un mese prima adoperato in un petulante atteggiamento adulatorio che aveva talvolta persino del comico, dopo l’arresto di mio padre dichiarò a commento della nuova gestione della clinica di Vigevano intervenuta a causa dell’affidamento ( non proprio cristallino) della stessa in affitto ad un magnate della sanità privata lombarda “L’importante è che questo rappresenti una netta, radicale svolta rispetto alla precedente gestione ” e qui si scatenò il festival degli insulti all’indirizzo di chiunque lo avesse offeso e tradito (vedi p.es. il cognato, amministratore unico di quasi tutte le sue società): i suoi vari uomini d’ordine che non appena incarcerati invece che “coprirlo” si palesarono nella loro veste di mere “teste di legno” e scaricarono su di lui tutte le responsabilità…

La fantasia raggiunse l’apice, l’apoteosi, il parossismo quando mio padre mi passò un bigliettino di carta con scritto l’indirizzo e il telefono della moglie di “una squisita, bravissima persona, un uomo molto malato veramente perbene”(Si interessò anche per fargli avere la visita la visita di un cardiologo del quale aveva molta stima) che stava, nella cella accanto alla sua del centro clinico di Opera, a scontare una condanna a 20 o 30 anni a suo dire ” per una cosuccia da nulla in cui lui nemmeno c’entrava”: sequestro di persona…affinché provvedessi poi a contattarla per farmi aiutare a reperire il denaro depositato su un conto svizzero (tra l’altro già sequestrato).

E’ del tutto evidente che l’episodio non poté che indurmi un sorriso straripante che sarebbe degenerato in una grassa risata se non fosse per lo stato assolutamente serio e drammaticamente alienato del mio interlocutore.

Il dialogo assunse un barlume di serietà, di compostezza e di autenticità solo quando chiesi a mio padre se la sua drammatica e inequivocabile storia psichiatrica precedente fosse stata evidenziata dal suo difensore, “il divino” (che esortai mio padre con tutte le mie forze a revocare quanto prima) e adeguatamente documentata ai magistrati e se quest’ultimo avesse almeno impostato uno straccio di strategia difensiva…

Mio padre mi rispose che avrebbe anche potuto sottoporsi a tutte le perizie psichiatriche di parte del mondo ma tanto il Gip dr.E.T. si basava sul parere del perito di ufficio, noto professionista che ricopriva spesso quell’incarico, tale prof. S.S. (le iniziali talvolta…), che mio padre considerava “un vero nazista, visto che giudicava sempre e comunque tutti compatibili con il regime carcerario”, mentre per ciò che riguardava la sua difesa mi informò con rammarico che l’assistenza e la strategia del professore (“il divino”) si risolvevano unicamente nell’informarlo durante gli interrogatori che poteva avvalersi della facoltà di non rispondere…

Fu solo a questo punto che mi permisi di pronunciare nell’ambito di un discorso assai più generale sull’abuso (massiccio) nel recente passato da parte della procura di Milano dell’istituto della carcerazione preventiva e dell’uso dello “choc carcerario” come “instrumentum veritatis” il nome dell’ex presidente dell’ENI ricordando anche le parole (sarcastiche, di un umor un po’ grottesco…) dello stesso procuratore capo Francesco Saverio Borrelli, che conversando con i giornalisti, nella pausa di un convegno a Saint Vincent disse:”Noi non incarceriamo la gente per farla parlare. La scarceriamo dopo che ha parlato…” (cfr. “Il Giornale” del 4 giugno 1993) di dire: ma qui cosa si aspetta che uno si ammazzi come ha fatto Gabriele Cagliari prima di stabilire che forse era incompatibile con il regime carcerario….?

Il giorno dopo i Giornali si gettarono in massa come rapaci sulla preda di quell’insperato quanto sensazionale scoop e in particolare il “Corriere della Sera” che in un inqualificabile articolo firmato dal sig. Paolo Foschini dal titolo “Fai come Cagliari, si scatenano le tv” affermava che io nel corso di tale colloquio avuto con mio padre in carcere gli avrei suggerito di inscenare un suicidio che ricordasse nelle modalità la tragedia in cui perse la vita l’ex presidente dell’ENI in modo da cavalcare l’onda della paura che si poteva così ingenerare in qualcuno di un nuovo “caso Cagliari” ed ottenere così l’anelata scarcerazione…

Non credo che la vicenda necessiti di ulteriori commenti ma mi preme far presente che scrissi anche un’accesissima lettera di protesta e sfogo indirizzata alla redazione del Corriere e per conoscenza al compianto Indro Montanelli (all’epoca era presente sullo stesso una sua rubrica fissa denominata “La stanza di Montanelli” in cui si dava voce e spazio ai lettori) senza ottenere il minimo cenno di risposta; tra l’altro poi va detto che i due tentativi di suicidio di mio padre ritenuti finti solo perché quest’ultimo così cercò di presentarmeli per non allarmarmi troppo erano decisamente anteriori al nostro incontro, senza contare che (anche a causa dell’aggravarsi della destrutturante patologia che lo affliggeva) in una personalità complessa, enigmatica, sofferente e a tratti istrionica come quella di mio padre non può esistere in certe circostanze una netta demarcazione tra finzione e realtà essendo il confine tra le due spesso del tutto labile, incerto, indefinibile…

“La Repubblica” tanto per citare un altro articolo dell’epoca ricordo bene titolava: “Fingo il suicidio e scappo ai tropici”


Cosa dire di fronte a tutto questo?

“La questione delle prove è una questione che non si pone. E’, anzi, una questione sciocca. E’ inammissibile e ridicolo che la giustizia in regime di dittatura funzioni con le garanzie di cui si parla nei codici borghesi”

Come a dire: carcerati si nasce.

6 – CONTINUA