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Pubblicato su Lo Sciacqualingua

Certe parole sembrano nate per restare confinate nei libri di storia, e invece trovano il modo di attraversare i secoli, cambiando pelle e significato. “Proletario” è una di queste. Oggi la associamo subito al lavoro salariato, alle fabbriche, alle lotte sociali. Ma la sua storia comincia molto prima, nella Roma antica, e parla di cittadini che non avevano nulla da offrire allo Stato se non la propria prole, i propri figli. Da latino proles (figli) nasce, infatti, proletarius: l’uomo senza terre né ricchezze, che “contava” esclusivamente per la sua capacità di generare nuove vite da dare alla Patria.

Con il trascorrere del tempo, il termine ha viaggiato, si è trasformato, ha trovato nuova linfa nel cuore della rivoluzione industriale. Nell’Ottocento, quando le città si riempivano di fumo e di macchine, “proletario” diventa sinonimo di chi non possiede altro che le proprie braccia. È in questo contesto che Marx ed Engels lo elevano a simbolo di una classe destinata a cambiare il mondo: il proletariato, contrapposto alla borghesia, chiamato a unirsi e a ribaltare i rapporti di potere.

Ma “proletario” non è rimasto solo nei manifesti politici. È entrato nel linguaggio quotidiano, a volte con orgoglio, altre con ironia. Si parla di “quartieri proletari” per designare le periferie popolari, di “gusti proletari” per indicare scelte semplici e senza fronzoli, persino di “stile proletario” per descrivere colui che, pur potendo permettersi di più, sceglie la sobrietà. È un sintagma che porta con sé un immaginario fatto di fatica, dignità e appartenenza collettiva.

Così, dalla Roma antica alle metropoli moderne, “proletario” ha continuato a raccontare la storia di chi non possiede molto, ma ha sempre avuto un ruolo decisivo nel plasmare la società. Una parola che, più che definire, narra: racconta di lavoro, di lotte, di speranze, e di quella forza silenziosa che nasce proprio da chi sembra avere meno.

Oggi, quando pronunciamo il lemma proletario, non evochiamo soltanto una condizione economica, ma un’eredità di dignità, di resistenza e di speranza. È la voce di chi, pur avendo poco, ha sempre contribuito a costruire molto: città, fabbriche, culture, comunità. Forse è proprio questo il segreto della sua forza: ricordarci che la storia non appartiene solo ai potenti, ma anche – e forse soprattutto – a chi l’ha scritta giorno dopo giorno con il proprio lavoro. E allora, ogni volta che ci imbattiamo in questa parola, possiamo leggerla come un invito a non dimenticare che dietro i grandi eventi ci sono sempre le vite semplici, quelle che, silenziosamente, hanno fatto girare il mondo.

A cura di Fausto Raso

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