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Chissà dove va un’estate quando muore: forse in posti che ho sognato mille volte! Chissà dove vanno tutti quei discorsi, sdraiati sugli scogli nel cuore della notte… Chissà dove finirà poi il nostro amore, quando ognuno prenderà una direzione. Questi giorni sembreranno vecchie storie, Quando riapriran le scuole, che ci serva da lezione! (Frah Quintale – Lunedi blu)

Cari Lettori spesso accade che, quando perdiamo qualcuno di particolarmente importante come, per esempio, la propria Madre, il ricordo degli ultimi istanti vissuti insieme ci proietta in una dimensione emotiva binaria: da una parte ci si rivede poco più che adolescenti nel momento in cui, alla fine della bella stagione, si pensa al ritorno a scuola con, nel cuore, la pena di un amore estivo che non ritroveremo; dall’altra, ci scopriamo all’improvviso troppo adulti e molto soli…

Ecco, cari Lettori,  a noi è successo di sentirci come seduti sui ricordi di una vita che ci appare, dopo un lungo tratto ormai percorso,  a volte persa come una partita.

Allora abbiamo pensato di unire il comune pianto di dolore e scrivere, quasi di getto, questo articolo, come all’indomani della morte di nostra madre, rispettivamente il 13 aprile 2009 e il 22 giugno 2014.

Due cervelli, i nostri che, a furia di sintonizzarci nel confronto settimanale per gli  Editoriali da proporre, hanno creato un comune denominatore emotivo: due cuori che battono all’unisono sotto la regia di un unico diapason.

Da qui, il lavoro che sottoponiamo alla vostra attenzione: come suggerisce la suggestiva immagine di copertina, una sorta di confronto allo specchio, grazie al quale analizzare e analizzarci.

Come ad avere un’unica, grande, Madre e come ritrovarci “Fratelli” nel ricordo.

Nella vita di ciascuno di noi, in fondo, i momenti difficili si susseguono e, spesso, temiamo di non riuscire a venirne a capo. In questa particolare settimana che anticipa il momento del ricordo di chi non c’è più vogliamo “offrirci”, sperando che sia di aiuto a chi sente di essere in difficoltà.

Inconcepibile è, a volte, l’assurdità della vita. Vivere sapendo che si può soffrire in qualsiasi momento e, nello stesso tempo, sperare che tutto quanto si trasformi in gioia. Siamo esseri limitati nelle nostre azioni, nel nostro pensiero, eppure a volte ci sentiamo degli Dei. Comprendere che la vita è fatta così, di alti e di bassi, è capire noi stessi: la nostra intima natura di uomini. (Andrea Filice)

Cara Mamma, abbiamo imparato da te che, fin dai primi istanti di vita, ognuno di noi sperimenta la necessità di abitare il cuore dell’altro e scopre, a propria volta, quanto sia importante aprire il proprio cuore all’altro.

Nelle fredde sere d’inverno, ci hai più volte spiegato che, qualcuno, ha scritto che siamo in grado di conoscere la verità non soltanto con la ragione ma, anche, con quel meraviglioso termine che si chiama compassione, una forma di empatia sintonica che implica la capacità di prendere parte alle passioni dell’altro.

Siccome nella passione si mescolano il “sentire” e l’agire, la compassione non comprende solo ciò che si sperimenta dell’altro ma, anche, il movimento che spinge verso gli altri. E, forse per questo (o, anche per questo) che abbiamo scelto di essere come siamo.

“Caro Figlio, non c’è felicità soltanto nell’essere amati perchè …ognuno considera solo sé stesso. E, allora, prova ad Amare e scoprirai la differenza…”

Una bella lezione di vita, cara Mamma. Nel tempo, ripensando alle tue morbide e rassicuranti mani, abbiamo cercato di non “ingrigire” il nostro cuore continuando a “donarci” immaginandoti sempre al nostro fianco.

Non c’è niente di più sbagliato e, al tempo stesso, di falso nell’affermare che, in tema di sentimenti, siamo sottoposti a forze misteriose che ci governano in maniera irrazionale.

Il sentimento, infatti, è un’emozione composita in cui, su un elemento razionale (anche se inconsapevole) si innesta una componente affettiva. 

Il tutto si traduce in una evidenza disarmante ma reale.

Fatalmente noi amiamo chi ti somiglia, cercando di non “falsificare” le nostre aspettative.

Ci innamoriamo di qualcosa (un lavoro, un ambiente, etc.) o di qualcuno provando vivo interesse nel realizzarci attraverso (e mediante) questo “qualcosa” o questo “qualcuno”. Ricambiamo l’opportunità offertaci, mediante disponibilità sentimentale.

Da qui nasce tutto il resto.

Amore non è guardarci l’un l’altro, ma guardare insieme nella stessa direzione (Antoine de Saint Exupéry)

Questo, all’interno di una coppia, non significa che uno dei due debba sacrificarsi a favore dell’altro. Vuol dire semmai, che l’uno serve all’altro, in maniera complementare. Ecco cosa significa, condividere interessi e obiettivi.

Qual è il motivo per cui, man mano che procediamo negli anni, siamo attratti da tutto ciò che ci intristisce e, in ultima analisi, ci divide fra la nostalgia e la malinconia e ci porta a soffrire?

Siamo minacciati dalla sofferenza da tre versanti: dal nostro corpo, condannato al declino e al disfacimento e che non può funzionare senza il dolore e l’ansia come segnali di pericolo; dal mondo esterno, che può scagliarsi contro di noi con la sua terribile e formidabile forza distruttiva; infine, dalle nostre relazioni con gli altri (S. Freud, Il disagio della civiltà).

Allo stato attuale delle cose, ci sentiamo di affermare che, con molta probabilità, questo è dovuto a più fattori.

Anzitutto, più avanziamo nel tempo, maggiore è la quantità di progetti che temiamo di non riuscire a portare a termine. Poi, ci si scontra con un numero sempre maggiore di ostacoli (frustrazioni, sensi di colpa, rimorsi, conflitti e angosce varie) che, pur facendo parte del gioco, perché ci allenano a crescere, al tempo stesso sfiancano la nostra voglia di continuare. In ultimo, e non è poco, aumenta il solco degli affetti “sublimati” (che non ci sono più). Quindi, ci si trova, come necessità compensatoria a “rifugiarsi” all’interno di realtà virtuali che portano a cercare stati d’animo risultanti da riflessioni inerenti quello che abbiamo avuto, di bello (e che non possiamo più abbracciare) e quello che avremmo potuto avere (ma che non si è mai realizzato).

“Mano a mano, ti accorgi che il vento ti soffia sul viso e ti ruba un sorriso… la vecchia stagione, che sta per finire, ti soffia sul cuore e ti ruba l’amore. A mano a mano si scioglie nel pianto quel dolce ricordo sbiadito dal tempo, di quando vivevi con me in una stanza: non c’erano soldi ma tanta speranza. E a mano a mano mi perdi e ti perdo. E quello che è stato ci sembra più assurdo, di quando la notte eri sempre più vera. E non come adesso nei sabato sera…. Ma…dammi la mano e torna vicino. Può nascere un fiore nel nostro giardino, che neanche l’inverno potrà mai gelare Può crescere un fiore da questo mio amore per te. E a mano a mano vedrai che, nel tempo, lì, sopra il tuo viso, lo stesso sorriso che il vento crudele ci aveva rubato, che torna fedele. L’amore è tornato da te” (Riccardo Cocciante).

Mamma, ma perché si deve soffrire?

Soffrire. Termine composto che deriva dal latino e significa “attività perturbata dell’animo, come conseguenza a squilibri (o disequilibri) da mancato appagamento”. Qualcuno, nei secoli, ha concluso che la sofferenza è l’unico mezzo valido ed efficiente, in grado di rompere il sonno dello spirito e della ragione. E in effetti, in determinate circostanze critiche, il cervello attiva il meglio di sé per elaborare strategie efficaci alla risoluzione del problema. Ogni epoca storica, a ben guardare, è caratterizzata da momenti altalenanti compresi fra gioie e dolori. 

Ogni rapporto umano, quando è “vero”presenta frazioni di tempo “critico”.

Abbiamo imparato che la madre di tutte le sofferenze prende il nome di “Lutto Originario”, che ci riporta ai primi momenti della nostra vita quando ti abbiamo simbolicamente voltato le spalle accettando di perderti (e, al tempo stesso, di rimpiangerti) come Madre “indistinta” (una sorta di “atmosfera”) per provare a ritrovarti come una madre esterna e distinta da noi, per provare a introiettare quei valori che ci avrebbero reso forte.

Non so se ci siamo riusciti completamente. Forse ancora finiamo col cercarti in qualche volto Amico.

La nostra mente, analizzandola su un piano psicobiologico si “accende” in due circostanze: quando si raggiunge l’equilibrio (perché si prova benessere) e quando ci si è assuefatti a quella condizione (perché, generando noia, si deve cercare qualcosa di meglio, per poter ripristinare un equilibrio più “evoluto” del precedente).

È per questo che l’amore (in qualunque tipo di rapporto), quando è “intriso di valore”, è tutto carte da decifrare e lunghi momenti da raccontare.

Vedo questo spazio immaginario di stelle. Fa bene al cuore ma, perché non sia un’illusione, cerco di scrutare quel mare senza più fine, per continuare a camminare verso te. Vorrei afferrare il vuoto che ogni tanto mi afferra, attutire questa guerra che c’è in me…

Se proviamo ripercorrere il nostro rapporto con te, ricordiamo una sommatoria di momenti anche conflittuali che, però, ci hanno lasciato sempre la certezza di essere accolti. Forse ti abbiamo talmente “respirato” da viverti come una costante di gigantesco granito capace di rigenerare ogni mia ferita. Con dolcezza ma altrettanta fermezza.

Mamma, la vita è un insieme di attimi concatenati. Silenziosi, presi da soli. Assordanti nel loro stare uniti. Apparentemente scoordinati e incapaci di generare immagini, quando li guardi singolarmente (come i colori fondamentali); intensamente espressivi, incostanti ma continui quando li sommi alchemicamente.

Bisogna saperli impastare. Forse, questo, significa essere saggi e non avere paura del confronto con le lancette che, inesorabilmente, testimoniano quello che non può tornare. Se non sotto forma di ricordo.

E ti chiedi: “Dove sono i tuoi sogni?”, e scuotendo la testa dici: “Come volano in fretta gli anni!”. E di nuovo ti chiedi: “Che cosa hai fatto con i tuoi anni? Dove hai sepolto il tuo tempo migliore? Hai vissuto o no?”. Diciamo a noi stessi: “Guarda come nel mondo si gela. Passeranno ancora altri anni, a loro seguirà una triste solitudine, arriverà la vecchiaia barcollante sulle grucce, e poi l’angoscia e la tristezza. Impallidirà il tuo mondo fantastico, svaniranno, appassiranno i tuoi sogni, e cadranno come le foglie gialle dagli alberi. (Fëdor Dostoevskij, “Le notti bianche”)

Qualcuno sostiene che, così come un genitore ha il piacere di vederti venire al mondo, un figlio debba avere il privilegio (che poi diventa un dovere) di stare accanto al padre o alla madre, nel momento del trapasso. Per aiutarlo a morire con la dignità di un tramonto. Come Natura vuole.

Qualcun altro ritiene che anche nei rapporti di coppia si debba stare uniti allo stesso modo. Non per niente si è “consorti”, l’uno dell’altro. Quando ci si innamora, nascono delle emozioni uniche e irripetibili. Il loro infrangersi come onde, sulla spiaggia della memoria, ci modella in maniera specifica rispetto a chi siamo (per come viviamo i sentimenti) e a chi ci ha fatto palpitare.

Così forgiamo le unioni. Per questo, nel rispetto di tutti, quando è il momento, dobbiamo aiutarle a morire.

Per il gusto di soffrire?

L’accelerazione critica, che deriva dallo stress emotivo conseguente, imprime a fuoco i contenuti del patrimonio che abbiamo condiviso e che, a quel punto, diventa parte di noi. E sapremo vivere meglio la nostra solitudine.

Per il piacere di vivere. In un infinito Presente.

Cara Mamma, per tanto tempo (forse troppo) siamo andati avanti convinti di poter fare a meno di chiunque… ma è da un po’ di tempo (forse da troppo poco) che abbiamo dovuto accettare i nostri errori con te. A partire da quello che ci ha portato a voler credere che, in fondo, siamo nati per restar soli.

Forse è vero, Madre ma, per una volta vorremmo che il Mondo e, con esso, la Natura tutta sovvertisse l’ordine delle cose e ci cullasse con un abbraccio collettivo. Forse allora, qualunque distacco, sarebbe attenuato dall’amore di una dolce nenia.

La nostra presunzione, come un servofreno dentro al cuore, ci impedisce di sentire la tua assenza ma la verità è che abbiamo paura di non poter contattare più il nostro “Dolore Originale”: quello che abbiamo provato nel momento della nostra venuta al mondo, col terrore di essere stati abbandonati.

Che stranezza che è la vita… quante volte sei stata con noi: quando leccavamo le ferite delle bocciature o sorridevamo all’idea che ti avremmo reso una Regina; nei momenti che abbiamo temuto di non farcela e anche nei frangenti in cui avremmo preferito che, tu, non fossi lì.

Il punto, doloroso (per noi, oggi) è che, forse, in qualche modo abbiamo cercato di non esserci (emotivamente parlando), quando te ne sei andata.

E’ tutto un silenzio questa nottata. Un venticello, da questa sera, sembrava volesse accarezzarmi il viso… e finalmente, da solo… piango! Tu non puoi vedere perché sei lontana… come puoi accorgerti della mia struggente malinconia? Però te lo mando a dire perché tu possa credermi… e se mi credi, allora piangi insieme a me! Scendono, queste lacrime, lentamente, teneramente, dolcemente… e io non faccio nulla per asciugarle. Io grido per farti sentire la mia voce ma tu non puoi sentirmi. Tutto è silenzio… in cielo, quante stelle! Affacciati, anche tu puoi vederle: sono a migliaia. E sai perché sono così belle? Perché stanno lontano, proprio come te! (Eduardo de Filippo).

Cara Mamma, ricordiamo il tuo amore per la buona musica dal sottofondo struggente ma, al tempo stesso, capace di lasciare lo spiraglio ad una nuova albaVorremmo dedicarti, quindi, questo brano evocativo con l’illusione di poterlo ascoltare insieme. In fondo, sognare non costa nulla.

Enzo e Giorgio

“Noi siamo fatti della stessa sostanza dei sogni, e nello spazio e nel tempo d’un sogno è raccolta la nostra breve vita” (W. Shakespeare-  La tempesta)

Enzo Ferraro – già Dirigente Scolastico, Letterato, Umanista, Politologo

Giorgio Marchese – Direttore “La Strad@”

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