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Pubblicato su Lo Sciacqualingua

Ci sono parole che raccontano legami obliqui, prossimità che non si impongono ma si rivelano. “Cognato” è una di queste, già esplorata come figura di parentela mediata: non fratello, ma fratello del coniuge; non parola identica, ma parola con radice comune. In entrambi i casi, il legame è reale ma indiretto, e proprio questa distanza misurata ne rivela il fascino.

Su questa scia si colloca un altro termine altrettanto eloquente: “affine”. Anche qui, il significato si biforca tra il piano familiare e quello concettuale. Gli affini, in ambito parentale, sono i congiunti acquisiti per matrimonio: suoceri, generi, nuore, cognati stessi. In ambito semantico, invece, “affine” indica ciò che è simile, contiguo, compatibile. L’etimologia latina è rivelatrice: affinis, composto da ad- (“verso”) e finis (“confine”), designa ciò che è “al limite”, “vicino”, “accostato”. L’affine è colui che si trova al margine del proprio spazio, ma non lo invade; è il concetto che sfiora un altro, senza sovrapporsi. In chimica, l’affinità è la tendenza di due elementi a combinarsi; in filosofia, è la somiglianza che non coincide, ma richiama.

Come il cognato, anche l’affine incarna una forma di prossimità che non pretende identità. È il parente acquisito, non il consanguineo; è il concetto simile, non il sinonimo. In entrambi i casi, il legame è riconosciuto, ma non assoluto. E proprio in questa tensione tra vicinanza e differenza si cela una bellezza sottile: l’affinità è una forma di rispetto, una coabitazione senza fusione. È il modo in cui le parole, le persone, le idee si avvicinano senza annullarsi.

Questi termini ci insegnano che il linguaggio non è solo uno strumento di precisione, ma anche di sfumatura. Ci parlano di relazioni che non si impongono, ma si costruiscono; di somiglianze che non sono copie, ma echi; di parentele che non sono sangue, ma scelta. E ci ricordano che, a volte, è proprio nella distanza misurata che si trova la forma più alta di prossimità.

A cura di Fausto Raso

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