Pubblicato su Lo Sciacqualingua
Ci sono parole che raccontano legami obliqui, prossimità che non si impongono ma si rivelano. “Cognato” è una di queste, già esplorata come figura di parentela mediata: non fratello, ma fratello del coniuge; non parola identica, ma parola con radice comune. In entrambi i casi, il legame è reale ma indiretto, e proprio questa distanza misurata ne rivela il fascino.
Su questa scia si colloca un altro termine altrettanto eloquente: “affine”. Anche qui, il significato si biforca tra il piano familiare e quello concettuale. Gli affini, in ambito parentale, sono i congiunti acquisiti per matrimonio: suoceri, generi, nuore, cognati stessi. In ambito semantico, invece, “affine” indica ciò che è simile, contiguo, compatibile. L’etimologia latina è rivelatrice: affinis, composto da ad- (“verso”) e finis (“confine”), designa ciò che è “al limite”, “vicino”, “accostato”. L’affine è colui che si trova al margine del proprio spazio, ma non lo invade; è il concetto che sfiora un altro, senza sovrapporsi. In chimica, l’affinità è la tendenza di due elementi a combinarsi; in filosofia, è la somiglianza che non coincide, ma richiama.
Come il cognato, anche l’affine incarna una forma di prossimità che non pretende identità. È il parente acquisito, non il consanguineo; è il concetto simile, non il sinonimo. In entrambi i casi, il legame è riconosciuto, ma non assoluto. E proprio in questa tensione tra vicinanza e differenza si cela una bellezza sottile: l’affinità è una forma di rispetto, una coabitazione senza fusione. È il modo in cui le parole, le persone, le idee si avvicinano senza annullarsi.
Questi termini ci insegnano che il linguaggio non è solo uno strumento di precisione, ma anche di sfumatura. Ci parlano di relazioni che non si impongono, ma si costruiscono; di somiglianze che non sono copie, ma echi; di parentele che non sono sangue, ma scelta. E ci ricordano che, a volte, è proprio nella distanza misurata che si trova la forma più alta di prossimità.
A cura di Fausto Raso

Giornalista pubblicista, laureato in “Scienze della comunicazione” e specializzato in “Editoria e giornalismo” L’argomento della tesi è stato: “Problemi e dubbi grammaticali in testi del giornalismo multimediale contemporaneo”). Titolare della rubrica di lingua del “Giornale d’Italia” dal 1990 al 2002. Collabora con varie testate tra cui il periodico romano “Città mese” di cui è anche garante del lettore. Ha scritto, con Carlo Picozza, giornalista di “Repubblica”, il libro “Errori e Orrori. Per non essere piantati in Nasso dall’italiano”, con la presentazione di Lorenzo Del Boca, già presidente dell’Ordine nazionale dei giornalisti, con la prefazione di Curzio Maltese, editorialista di “Repubblica” e con le illustrazioni di Massimo Bucchi, vignettista di “Repubblica”. Editore Gangemi – Roma.

