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Professore, ma perché facciamo questi esperimenti? Cosa ce ne viene in tasca, facendo questi giuochi d’illusione?”

– “Non lo so. È un trucco che non conosco. Io che esercito la professione di illusionista, mi presto ad esperimenti realizzati da un altro prestigiatore più importante di me… e così, via, via, via fino alla perfezione… Ecco il giuoco prodigioso dell’illusione! Guarda… li vedi quei canarini in gabbia? Appena mi vedono cominciano a cantare… Accostati. Li senti? Devi vedere come mi riconoscono! E forse, mi vogliono pure bene. Ma per forza! Li governo ogni mattina. Gli do la zolletta di zucchero, la foglia di insalata, l’osso di seppia, il mangime… non puoi capire quanto sono contenti di vedermi, non vedono l’ora che io arrivi!”

 – “Veramente? Quanto sono belli!”

– “Ogni tanto, io, sai che faccio? Metto la mano dentro la gabbia e me ne piglio uno che mi deve servire per un esperimento d’illusione. Lo metto in quest’altra gabbietta più piccola e lo presento al pubblico. Copro, il tutto, con un quadrato di stoffa nera, mi allontano di quattro passi e sparo un colpo di rivoltella. Poi, sollevo la stoffa nera e, il canarino, è sparito! Il pubblico rimane allibito credendo di trovarsi al cospetto di un grande Mago… ma, il canarino non sparisce! Muore. Muore schiacciato tra un fondo e un doppio fondo. Il colpo di rivoltella serve a mascherare il rumore che produce lo scatto della piccola gabbia truccata. Poi, naturalmente, devo riordinare. E sai che trovo? Una poltiglia di ossicini, sangue e piume. Li vedi questi canarini? Loro non sanno niente. Illusioni non se ne possono fare. Noi, invece, si. Ed è questo, il privilegio”. (La grande Magia – Eduardo de Filippo).

Cari Lettori, giusto per la particolare empatia che ci contraddistingue e il triste (e apparentemente infinito) momento che sta vivendo l’Umanità intera, ci ritroviamo, spesso, a riflettere sui fatti della vita e, sovente, ci domandiamo quale sia il motivo per cui, in un modo o nell’altro, siamo spinti a “plasmare” la realtà evidente delle cose, per adattarla alle proprie esigenze di breve, medio o lungo periodo.

E, fra guerre (militari, politiche ed economiche durante le quali pilotare l’opinione pubblica) e Intelligenza Artificiale, diventa difficile riconoscere il reale dalla menzogna. E si precipita nella Paranoia

Centoventicinque anni fa, nasceva il grande Eduardo de Filippo: un “Monumento” del teatro mondiale

Ma, intendiamoci bene, per monumento vogliamo dire una persona che occupa definitivamente un grande spazio e, nella sua grandezza, senza volerlo (o volendolo) lascia agli altri posti satellitari.

Quando eravamo più giovani ci capitò di assistere a qualche sua rappresentazione, nei contesti universitari.

Erano gli anni del “post sessantotto” caratterizzato dalla presenza dei rivoluzionari dell’epoca che volevano cambiare il mondo ,e uno come Eduardo, non rientrava nel loro orizzonte.

Alcuni di loro erano autentici e, di conseguenza, hanno avuto una vita difficile (bella, ma difficile). Parecchi che, invece, “giocavano” alla rivoluzione, negli anni seguenti si sono aggregati ai centri di potere politico e universitario e hanno fatto carriera.

“Mutatis mutandis” (fatti i dovuti mutamenti)  il mondo, in sostanza, è andato sempre così.

Una sera, in particolare, ci resta impressa nella memoria: quando entrò in scena Eduardo cogliemmo subito la grandezza della definizione di Pier Paolo Pasolini:

Eduardo è la maschera vivente di Napoli, in tutta la sua drammaticità e nella suprema leggerezza.

Una lezione di vita, di teatro, di amore.

L’intellettuale più discusso di quegli anni, Pasolini appunto, aveva un affetto profondo per la grandezza di Eduardo.

L’amicizia era nata negli anni Cinquanta, quando Pier Paolo vinse il Premio Cattolica con una sua bellissima poesia in friulano. La giuria, presieduta da Luigi Russo, aveva come membri Quasimodo, Ernesto De Martino, Eduardo De Filippo e altri di tal livello.

Il “Cattolica”, era un premio controcorrente, che voleva valorizzare i dialetti in una epoca in cui, ai maestri elementari, si dava disposizione di parlare in italiano e di oscurare totalmente il dialetto.

Probabilmente, un modo “democristiano” di uccidere le radici regionali in nome del “fiorentino del trecento” (da cui prende piede la lingua italiana) che alcuni, ancora oggi, definiscono “ridicolo toscaneggiare”

Dopo decenni, finalmente si è capito che la lingua nazionale può essere arricchita dai contributi dialettali, che hanno la freschezza e la genuinità del “parlar materno”.

Tale era la stima di Pasolini verso Eduardo che, poco prima della tragica fine, aveva approntato un copione che doveva essere completato da Eduardo, il quale sarebbe stato poi l’attore cinematografico protagonista.

Chi ha visto, a suo tempo, I racconti di Canterbury di Pasolini avrà ascoltato il vecchio viandante che è molto triste per la perdita della giovinezza. La voce doppiata era, in italiano, quella di Eduardo De Filippo.

Il nostro amatissimo Eduardo non aveva fatto studi di qualche qualità.

Per la sua grandezza ebbe in età matura due lauree “honoris causa”, in lettere (Birmingham e Roma – “La Sapienza”).

A Roma, negli ultimi anni, insegnò come docente a contratto. Per fortuna le lezioni sono state, anche con le proposte sceniche, registrate e pubblicate.

Chi furono allora i maestri di Eduardo? Gli stessi di Goldoni.

Due sono stati i miei maestri: il teatro e il mondo. (E. de Filippo)

E, tuttora, assieme a Goldoni, Pirandello, Fo, il nostro Eduardo è uno degli autori teatrali italiani più rappresentati nel mondo.

Qualche decennio fa qualche “esperto” diceva che il teatro di De Filippo sarebbe finito con lui. Voleva laudare la sua grandezza scenica ma svalorizzava I testi, che invece, sono di qualità alta e, in alcuni casi, veri capolavori.

Voglio dire che tutto ha inizio, sempre da uno stimolo emotivo: reazione a una ingiustizia, sdegno per l’ipocrisia mia ed altrui, solidarietà e simpatia umana per una persona o un gruppo di persone, ribellione contro leggi superate e anacronistiche con il mondo di oggi…. Se un’idea non ha significato e utilità sociale non m’interessa lavorarci sopra. (Eduardo de Filippo)

Eduardo è stato regista, sceneggiatore, drammaturgo e poeta (nelle liriche in napoletano delicatissimo e struggente).

Nel 1981, il Presidente Pertini lo nominò Senatore a vita, riconoscimento ufficiale della sua grandezza.

La severità e il rigore scenico venivano additati come punto di riferimento ad un popolo che aveva (ed ha tuttora) bisogno di esempi.

Non chiamatemi Senatore, ci ho messo una vita a diventare Eduardo

E, infatti, il grande Maestro, Eduardo conferì al dialetto napoletano la dignità di idioma ufficiale ed elaborò con genialità una lingua teatrale che travalicò napoletano ed italiano per diventare una forma di comunicazione verbale di tipo universale.

Un personaggio che richiederebbe lunghe analisi. Ma non è nostro compito.

Vogliamo ricordare che come Senatore e sul palcoscenico si batté molto per le condizioni dei minori rinchiusi negli istituti di pena. Lui, che veniva dal “mondo” sapeva che era difficile “vivere” per ragazzi di strada, abbandonati e in famiglie difficili. La società, per essere civile, non poteva far finta di non vedere e di non sapere.

– Vieni avanti. Tu ti chiami Vincenzo?

– Sissignore.

– E di cognome?

-Faccio De Pretore.

-Tuo padre?

-De Pretore fuje mamm.

-Come sarebbe?!

-Sono di padre ignoto.

-Non capisco. Ma ignoto di che cosa?

-Che quando sulla terra non si sposa, e’ figlie nun se ponno dichiarà!.

-Ma i figli sono figli!

-Niente affatto. Vuje ve credite ca so tutte eguale; ma e figlie, ‘nterra, si nun so legale, campano comme ponno: c hanno a fa?

– Aggio capit o fattariello: perci tu addeventaste mariuncello?

-Gnorsì, ma solamente pe campà. Senza nu pate ca te manna a’ scola, campanno abbandunato mmiez’ a via facenno solamente a capa mia, se sape ca fernisce p’arrubbà!  (E. de Filippo – de Pretore Vincenzo)

Nell’ultimo discorso, al Teatro Greco di Siracusa (15 settembre 1984) Eduardo tirò il consuntivo della sua dura esperienza di vita:

È stata tutta una vita di sacrifici e di gelo! Così si fa teatro. Così ho fatto! Ma il cuore ha tremato sempre tutte le sere! E l’ho pagato, anche stasera mi batte il cuore e continuerà a battere anche quando si sarà fermato

All’inizio di questo Editoriale, parlavamo di Esigenze, a proposito di quello che spinge a manipolare la realtà facendoci credere vero quello che, invece, vero non è.

Voi sapete che io ho la nomina che sono un orso, che ho un carattere spinoso, che sono sfuggente. Non è vero. Se io non fossi stato sfuggente, se non fossi stato un orso, se non fossi stato uno che si mette da parte, non avrei potuto scrivere cinquantacinque commedie. (E. de Filippo)

Cari Lettori, fra le innumerevoli opere del grande Eduardo, quella che maggiormente ha colpito la nostra attenzione, a proposito della tematica che stiamo trattando, è “La Grande Magia”, definita dal Regista Gabriele Russo quella più complessa e necessaria per i temi che affronta, per le relazioni che propone: una commedia squilibrata, sospesa e caotica come il tempo in cui viviamo, in grado di esplorare il rapporto tra realtà, illusione e fede, evidenziando come, l’illusione, possa essere necessaria per affrontare la vita e le sue difficoltà.

Il suo tema sostanziale, quindi, è il rapporto tra realtà, vita e illusione: il Professor Otto Marvuglia fa “sparire”, durante uno spettacolo di magia, la moglie di Calogero di Spelta per consentirle di fuggire con l’amante e fa, poi, credere al marito che potrà ritrovarla solo se aprirà, con totale fiducia nella fedeltà di lei, la scatola in cui sostiene sia rinchiusa. Alla fine, la donna ritorna pentita ma, il marito, si rifiuta di riconoscerla, preferendo restare ancorato all’illusione di una moglie fedele custodita nella inseparabile scatola.

Insomma, amore, ricerca di attenzioni, voglia di essere stimati, paura di restare soli non sapendo più come impegnare il tempo, nell’attesa di morire.

È come se “chiedessimo”  al “Grande Regista” (o “Architetto dell’Universo”, fate voi…) che la realtà ci venisse mostrata in funzione di ciò di cui abbiamo maggiormente bisogno

Un po’ quello che ci ricorda Alessandro Baricco con “La leggenda del pianista sull’oceano”: “La Terra è una nave troppo grande per me, è una donna troppo bella, è un viaggio troppo lungo, è un profumo troppo forte, è una musica che non so suonare. Non scenderò dalla nave, al massimo posso scendere dalla mia vita!” 

Di fronte alla paura (cioè, praticamente, di fronte all’allarme che si genera quando incontriamo un pericolo reale o presunto) ci si può comportare in maniera differente a seconda di chi siamo, del momento, dell’ambiente e, ovviamente del tipo di pericolo. Come appare evidente, alla base c’è sempre una serie di valutazioni da portare avanti: si può reagire aggredendo l’elemento che può costituire il pericolo, fuggendo, riflettendoci meglio, aspettando che il pericolo passi. O costruendo un mondo virtuale, all’interno del quale, rifugiarsi.

Qualsiasi cambiamento determina l’attivazione di quelle parti di cervello che non sfruttano i meccanismi dell’abitudine ma si affidano alla creatività e al cammino sul filo teso sul vuoto e senza rete di protezione. E ogni volta che lasciamo il conosciuto e ci avventuriamo oltre le simboliche “Colonne d’Ercole”, dobbiamo sperare di poggiare su un terreno solido. O che qualcuno ci insegni a volare.

Già, qualcuno…

Ma dovremmo trovarci in un ambiente di gente sicura di sé, capace di trasfonderci tranquillità! E allora, piuttosto, la nostra forza dovrebbe scaturire da un “qualcosa” che ci spinge e che prende il nome di CRISI INTERIORE in grado di darci l’impressione di esserci smarriti ma…

…e qui comincia il distinguo.

A quale dei tre porcellini della fiaba di Jacobs Joseph somiglieremo? La nostra casa interiore, l’avremo costruita con la paglia, col legno o, piuttosto, con dei solidi mattoni? E, nel contempo, saremo in grado di dialogare col lupo che, crediamo, voglia mangiarci? O, piuttosto, i germi del “buio” albergano in noi?

Perchè vedete, cari lettori, in tal caso, sarà “quel” Lupo a tradirci aprendo, “da dentro”, la serratura della coscienza, esponendoci alla paura della crisi, vissuta come “la fine di tutto”.

Ed è allora che entra in gioco il bisogno delle illusioni, cioè, di quelle dispercezioni sensoriali causate dal modo in cui costringiamo il cervello ad organizzare ed intrepretare le informazioni che riceve per cui, appare vero, anche quello che, appunto, vero non è!

In alcuni momenti, ciascuno di noi utilizza la propria fantasia per immaginare sceneggiature all’interno delle quali ci vendichiamo di torti subiti, ci caliamo in panorami paradisiaci, incontriamo le persone a noi più care, fuggiamo da quello che temiamo di più…

Poi, però, chiudiamo la pagina di quel libro immaginario e ci riconnettiamo con la “solita” valle di lacrime…

Il problema nasce, quando si comincia a dar credito alle immagini “oniriche” considerandole contestualizzate nel tempo e nello spazio di tutti i giorni. Ecco, allora, che si assottiglia sempre più, quel sottile confine che separa il mondo dei cosiddetti normali, da quello della schizofrenia.

Se è vero che essere felici significa vedere il mondo come noi lo desideriamo, è altrettanto necessario conoscere i nostri limiti, accettarli come dono e non come una sconfitta. Perché, come sosteneva il giornalista Romano Battaglia, 

Le piante e i fiori sono come i nostri progetti: alcuni non si sviluppano, altri crescono quando meno ce lo aspettiamo.

Mai come in questo periodo storico, più di qualcuno ipotizza che, gran parte del nostro Pianeta sia, sul piano geopolitico, sottoposto al controllo di due forze contrapposte (non distribuite in maniera omogenea e uniforme): quella degli “oligarchi” (che auspicano un ritorno al feudalesimo e agiscono per la creazione di zone sociali composte da poveri sempre più poveri e ricchi sempre più ricchi) e quella dei “progressisti” illuminati (che attuano scelte in grado di portare ad una crescita democratica).

Ove mai fosse vero (e non sarebbe affatto strano, vista l’attuazione di politiche sempre più ansiogene tese a trasformarci in nuovi schiavi), entrambi i fronti, se vogliamo, sarebbero adusi a consideraci, tutti, pupazzi da videogioco.

Queste due forze contrapposte, infatti, sembrerebbero capaci di influenzare quegli eventi che, nei libri di Storia ci hanno spiegato aver avuto motivazioni alte e nobili: dallo scoppio di ogni guerra “importante”, all’ascesa di personaggi “di spessore” (presidenti americani, segretari del PCUS, Pontefici, scienziati. Etc.) colì giunti per volere, sempre, di qualcuno che finisce col diventare la marionetta di un puparo più in alto.

Ogni tanto ci domandiamo (pur da agnostici teleologici) se, per caso, Dio, non abbia bisogno di uno svago e, quindi, non ci metta alla prova, concedendoci l’illusione di scimmiottarlo attraverso la percezione di un’effimera onnipotenza!

Certo è che, di fronte a qualcosa che appare più grande di noi, alla stregua di un’onda gigantesca, alcuni si lanciano verso la sua base, nel tentativo di passare dall’altra parte, verso la vastità e la libertà dell’Oceano, altri attendono e, nell’attesa, rifiutando di ammettere ciò che osservano, immaginano un mondo diverso. Che finirà con loro!

Se voi aprirete la scatola con fede, rivedrete vostra moglie. Al contrario non la rivedrete mai più!”

Ma io ho fede. Mia moglie sta qui dentro. Io voglio crederci! Si era stabilito un gelo, fra me e lei. Io non parlavo. Lei nemmeno. Non le facevo più un complimento, una tenerezza. Non riuscivamo più ad essere sinceri, semplici. Non eravamo più amanti! Ma ora ho fede… E posso aprirla… Se apro la scatola, ti vedo, perché ho fede! E riavrò i capelli neri. Mi rivedrò giovane come un attimo fa, come all’inizio di questo esperimento! Apro. Ecco. Uno, due…”

“…e tre! Il giuoco è fatto!”

Marta!”
“L’esperimento è finito. Ecco tua moglie!”

” Parla, Marta, parla!”

Sono io!”

Marta!”
“Sì, eccomi!”

Pure tu hai sofferto! Il giuoco è stato inesorabile anche per te. Qualche capello bianco ce l’hai pure tu. Parla, dimmi qualche cosa!”

Che parlo? Che dico! Tu sai tutto. Perché dovrei sostenere questo giuoco umiliante per tutti e due? Sono passati quattro anni; quattro anni veri, autentici. E tu hai fatto i capelli bianchi perché gli anni invecchiano, distruggono, annientano! Tutto è successo per puntiglio, per incomprensione Per un senso di libertà. Nella mia vita c’è stato un altro uomo. E tu lo devi sapere, se vogliamo salvarci da questa illusione pazza”

Che hai fatto? Chi è questa donna? Che cosa ha detto? Io le parole sue non le capisco!

È tua moglie. Non è più un’illusione. Il giuoco è finito.

Quale?”
“Il giuoco iniziato da me un attimo fa nel giardino dell’albergo Metropole!”

Non è vero. Fu iniziato da me, lo dicesti tu. Io spinsi il giuoco fino al limite massimo. Io solo, allora, posso far riapparire mia moglie! La responsabilità è solamente mia. Ti sei tradito. Hai sbagliato proprio all’ultimo momento. Sei entrato un attimo prima che io aprissi la scatola. Peccato!”

Ma la scatola è vuota!”

Chi lo dice? Come puoi affermarlo? In questa scatola c’è la mia fede. Come puoi pretendere di vederla tu? Non conosco questa donna. Forse fa parte di un esperimento che non mi riguarda. Diglielo, che il suo mondo è legato a tanti altri, e che deve prestarsi, non può sottrarsi. Portala via, questa immagine mnemonica di moglie che torna. Due esperimenti in uno non li sopporterei”.

Ma io, veramente, ti ho portato tua moglie!”

Hai creduto di averlo fatto. Credi perfino di essere in casa mia: ma non è vero. È la successione continua delle tue immagini accumulate. Ora sono io che faccio rivivere in te le immagini mnemoniche. Lei, appare come una comune moglie adultera ma che, in realtà, non esiste e tu, come un meraviglioso giocoliere: ma sei un’immagine. Il giocoliere più importante sono io, ora! Continuiamo il giuoco, professore! Il tempo è in noi stessi, non gli facciamo i conti addosso, giorno per giorno, come dei bottegai… E sembrerà un secolo, ma poi ci accorgeremo che il giuoco è durato un attimo! Gennarino!”

Comandi!”
“Queste immagini devono sparire. Abbi l’illusione di aprire la porta d’ingresso. Credi fermamente di vederle uscire. Quando te ne sarai proprio convinto, richiudi: ma con fragore!”

Chiusa! Chiusa! Non guardarci dentro. Tienila con te ben chiusa, e cammina. Il terzo occhio ti accompagna… e forse troverai il tesoro ai piedi dell’arcobaleno, se la porterai con te ben chiusa, sempre!”

(La grande magia – Eduardo de Filippo)

Cari Lettori, probabilmente dal momento in cui abbiamo cominciato a percepire la consapevolezza di esistere e di essere “diversi” da altre forme viventi, il problema dei problemi (per ciò che concerne la possibilità di una crescita evoluta e condivisa) è stato quello di capire in che cosa consista il progresso e che rapporto possa mai esserci tra progresso tecnico e crescita etica e morale.

Nonostante siano passati più di venti secoli siamo costretti a convenire con quanto scrive Lucrezio nel quinto libro del “De rerum natura”: 

Allora, gli uomini primitivi morivano per mancanza di cibo, adesso noi moriamo per eccesso di cibo. Quelli morivano avvelenati per ignoranza, adesso noi avveleniamo gli altri con ogni mezzo.

Chiudiamo il gran libro e, sulla scorta di Ivano Dionigi (già rettore Alma Mater) riflettiamo sul presente. Quale è oggi il veleno nel quale siamo sommersi che falsifica tutto e tutto contamina?

C’è grande povertà nel mondo: quella delle persone che non sono mai contente di nulla, quella di chi non sa né ridere né piangere, quella di coloro che non sanno dare nulla di sé agli altri. Poi c’è la povertà ancora più gelida: quella dovuta alla mancanza d’amore (Romano battaglia)

Non ci sono dubbi: noi avveleniamo, noi stessi e il nostro prossimo, con notizie e informazioni non dissimili dai contenuti ascoltati da bambini e che ci rappresentavano mondi lontanissimi dall’essere veri. Fatti di Principi Azzurri o di Orchi Cattivi. Rappresentazioni di una sorta di “ideale dell’IO”, lontano dal vero e dal reale.

E, da adulti, diffidenti per modo di dire, ci affidiamo alle informazioni più improbabili e crediamo in esse senza soppesare la qualità della fonte. In breve tempo qualunque costrutto di fantasia diventa “virale” e per un tempo, sia pure effimero, costituisce un centro di gravità attrattivo….

Il confronto, a quel punto, è spesso frutto di genericità o superficialità.

Tutto ciò, ovviamente, non è vero dialogo, distrutto peraltro in ambito familiare da varie fonti disturbanti. E noi, invece, se vogliamo dare un senso all’esistenza in questo gran labirinto della vita dobbiamo riscoprire la bellezza del dialogo dal vivo tra un io e un tu. Che diventi, possibilmente un “NOI”.

Forse è opportuno, pian piano ripristinare il piacere di una sacra “oralità”, con tutta la sua suggestione e bellezza nella musicalità della voce. Ovviamente, quella “sincera”.

Per gli Antichi, le Sirene erano, per esempio, mostri orripilanti, per metà uccelli e per metà donne. Ma avevano qualcosa di irresistibile: la voce suadente e ammaliatrice.

Sovrano potentissimo, la parola è capace di compiere le imprese più divine. Essa sa convincere del vero e del giusto, ma può anche illudere ed ingannare.

Le parole possono essere banali, sfuggenti, inutili ma anche “pietre” quando, in un momento, modificano il nostro modo di vedere la vita.

É quanto ci propone Vittorio Lingiardi in “Diagnosi e destino”.  Tutti, prima o poi, riceviamo una diagnosi.

Un giorno arriva un esperto e con una parola ci dice qualcosa che modifica il corso della vita, in peggio o in meglio.

Il passato dell’anamnesi, il futuro della prognosi.

Ma, ogni persona, ha una sua specificità, una sua irripetibilità. Wislawa Szynborska (potessa polacca) ce lo spiega con un verso stupendo: 

Siamo diversi come due gocce d’acqua; come i fiocchi di neve, gli uomini non sono mai perfettamente uguali.

Cari Lettori, comunque vadano le cose, anche se si mettono in atto meccanismi di “difesa dell’IO” (come, ad esempio, quello della negazione della realtà, o del ritiro nella fantasia schizoide quando si ha paura di affrontarla) è importante ricordare che, ogni Essere Umano, rappresenta un Astro Nascente

Oltre che bella, sul piano dell’immaginario poetico, l’affermazione sopra riportata costituisce il vero, fondamentale, assunto cui potersi ispirare nelle scelte della Vita. Infatti, dopo quello che gli Scienziati chiamano “Big Bang”, man mano che le enormi temperature (dovute all’esplosione del Buco nero da cui è nato l’intero Universo) hanno iniziato a diminuire si sono costituite le prime “Stelle”, cioè, sferoidi luminosi di Plasma (gas ionizzato) in grado di generare energia (grazie alla fusione nucleare) che viene irradiata sotto forma di radiazioni elettromagnetiche, particelle elementari (“vento stellare”) e neutrini.

Sostanzialmente, il resto dell’Universo è venuto da lì (con tutto quello che la Biologia ci spiega) e, noi, abbiamo mantenuto la stessa strutturazione atomica capace di generare enormi quantità di energia, sintonizzata con l’entità di partenza (la stella).

Ecco perché quando, inquieti e alla ricerca di qualcosa di più delle “semplici” abitudini quotidiane, ci scopriamo a desiderare di uscire dal “gregge” del già vissuto, veniamo a trovarci di fronte ad un bivio esistenziale: da una parte la strada, molto battuta, delle emulazioni compensative del sociale (che finisce per omologarci riducendo la necessità dell’introspezione); dall’altra, l’ispirazione di quello che viene dalle Leggi di Natura che possiamo ritrovare fermandoci un attimo a sentire le emozioni che si provano a guardare il cielo stellato (infatti “desiderio” viene dal Latino “siderare”, guardare le stelle).

Il 27 febbraio 2020 (prima che fossimo travolti dalla pandemia mediale e virale di SARS CV 2) molti di noi (anche esperti fisici e ingegneri) ha voluto credere alla falsa notizia che (solo quel giorno) le scope sarebbero state in grado di reggersi da sole, per via di un particolare fenomeno gravitazionale che si ripete ogni 3500 anni.

Una ragazza di nome Mariarita, con pazienza e tenerezza, il giorno dopo ci ha inviato una foto che mostrava quello che non avevamo mai voluto vedere: la scopa, è in grado di reggersi da sola, sempre.

Se è vero che, in noi, c’è il bambino che cerca rassicurazioni e che vuole sentirsi dire che tutto andrà bene, è un dato di fatto che, nell’Ipotalamo dovremmo avere ciò che serve per geolocalizzarci con quanto c’è di vero, logico e reale.

Cari Lettori, forse ci siamo fatti prendere la mano dilungandoci un po’ troppo e ci scusiamo, quindi, se abbiamo approfittato della vostra disponibilità a seguirci anche su sentieri impervi.

Per farci perdonare, vorremmo salutarvi con il bellissimo componimento che, Eduardo de Filippo, dedicò alla moglie Isabella nel lontano 1963: un invito a ritrovarlo, in ogni contesto vissuto insieme. Un po’ come quello che si prova nell’osservare la bella immagine di copertina, in cui possiamo immaginare una persona senza età che guardando la grande magia che ha di fronte a sé, dialoga intimamente, con ciò che ha di più caro riscaldando il suo cuore ed esprimendo una bellezza al di là del tempo, del bene e del male.

Sto cca’

Sto ccà, Isabè, sto ccà…Ch’è, nun me vide? Già, nun me può vedé… ma stongo ccà.
Sto mmiez’ ‘e libre, mmiez’ ‘e ccarte antiche, pe’ dint’ ‘e tteratore d’ ‘o cummò. Me truove quann’ ‘o sole tras’ ‘e squinge se mpizz’ ‘e taglio e appiccia sti ccurnice ndurate, argiento
grosse e piccerelle ‘e lignammo priggiato – acero, noce, palissandro mogano – pareno fenestielle e fenestelle aperte ncopp’ ‘o munno… Me truove quann’ ‘o sole se fa russo
primmo ca se ne scenne aret’ ‘e pprete ndurann’ ‘e rame ‘e ll’albere e se mpizza pe’ mmiez’ ‘e fronne, pe se fa guardà.

Si no, me può truvà, scurato notte, rint’ a cucina p’arrangià caccosa: na puntella ‘e furmaggio, na nzalata…chellu ppoco ca te supponta ‘o stommeco e te cucche.
Primmo d’ ‘a luce ‘e ll’alba po’ me trouve a ttavulino, c’ ‘a penna mmiez’ ‘ ddete e ll’uocchie ncielo pensanno a chello ca t’aggio cuntato e ca nun aggio scritto e ca va trova si nun è stato buono ca se songo perduto sti penziere distratte e stanche d’essere penzate che corrono pe’ ll’aria nzieme a me. E si guarde pe’ ll’aria po’ succedere ca si ce stanno ‘e nnuvole me truove. ‘O viento straccia ‘e nnuvole e comme vene vene, e può truva ciert’uoccie ca te guardeno sott’ ‘a na fronta larga larga e luonga e ddoje fosse scavate…
‘e può truvà.

Traduzione

Sono qui Isabella, sono qui! Non mi vedi? Già, non mi puoi vedere ma sono qui.

Sono tra i libri, tra le carte antiche, dentro i cassetti del comò.

Mi trovi quando il sole entra e accende le cornici dorate d’argento, grandi e piccole, di legno pregiato (noce, acero, mogano e palissandro) che sembrano finestrelle aperte sul mondo.

Mi trovi quando il sole diventa rosso e, prima di tramontare, indora i rami degli alberi e si inserisce tra le foglie, per farsi guardare.

Altrimenti mi puoi trovare, quando si fa sera, in cucina mentre mi preparo qualcosa per riempire lo stomaco: un pizzico di formaggio e un po’ di insalata prima di addormentarmi

Poi mi trovi, all’Alba, seduto a tavolino con la penna tra le dita e gli occhi verso il cielo pensando a ciò che ti ho raccontato e che non ho ancora scritto…

E chissà che non sia stato un bene che si siano persi questi pensieri distratti che, stanchi, di essere pensati vagano per l’aria insieme a me.

E, se guardi per l’aria, può succedere che mi trovi tra le nuvole e che il vento le strappi e che, tra di loro, tu trovi due occhi che ti guardano…

In marcia, cara Umanità: la Vera Grande Magia consiste nello scoprire che, in noi, esiste il veleno ma, anche l’antidoto e che, soprattutto, come ha avuto modo di ricordarci un parroco (don Fabio Pieroni), non ci verrà chiesto: “perché non abbiamo emulato Mosè o Papa Francesco quanto, piuttosto, ci verrà domandato: “Ma perché non sei stato te stesso?”

Enzo Ferraro – già Dirigente Scolastico, Letterato, Umanista, Politologo

Giorgio Marchese – Direttore “La Strad@”

Un ringraziamento ad Amedeo Occhiuto, per la sua affettuosa disponibilità

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