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Te ne sei andata via, oh madre mia! Ti sorregge un giovane ragazzo, oh madre mia, con un fiore bianco davanti! Oh madre mia, con me anche mia moglie… Oh madre mia, te ne sei andata per sempre! (Pivio e Aldo de Scalzi)

Cari Lettori, come sosteneva lo scrittore e giornalista Gilbert Keith Chesterton, le fiabe non dicono ai bambini che esistono i Draghi perché, loro, già lo sanno. Le fiabe, semmai, insegnano ai bambini che i Draghi possono essere sconfitti.

Ecco, con semplicità, vorremmo incrociare questa tenera riflessione con quella, altrettanto delicata e vera, della scrittrice Flavia Basile Giacomini

Come si coniuga il verbo madre?

Non è un verbo?

Ne siete proprio sicuri?

Amare, Fare, Dare, Ascoltare, Confortare, Gioire, Piangere, Abbracciare, Baciare Accarezzare, Sentire, Curare, Sostenere, Proteggere, Insegnare, Accompagnare, Ricordare, Studiare, Leggere, Pulire, Cucinare, Nutrire, Vegliare, Urlare, Sussurrare, Cantare, Sorridere, Correre, Saltare, Educare, Comprendere, Perdonare, Subire, Angosciarsi, Sollevare, Soffrire, Tacere, Parlare…

Avete ragione: madre non è un verbo solo ma tutti i verbi di una vita!

Da quanto appena letto, deriva che il sinolo madre /figlio è il momento base da cui tutto nasce e a cui tutto rinvia.

Se riflettiamo sullo sviluppo del cattolicesimo troviamo figure maschili (Il Padre, il Figlio etc) che ad un certo punto, per dar senso al tutto, hanno “bisogno” di un elemento femminile: la Madre.

Un grande Papa, Giovanni Paolo I (al secolo, Albino Luciani), nei suoi folgoranti trentatré giorni di pontificato, in uno dei suoi interventi ha affermato: “Dio è madre”.

Ovviamente tanti stupidi, dotati di genuina ignoranza, risero di quanto il papa, con spirito soave, aveva affermato.

Noi ne restammo turbati e, senza avere competenza alcuna in Teologia, ancora oggi ritorniamo con la memoria a quella frase folgorante: Dio è Madre; Dio è, anche, Madre.

La Madre è Tutto. Da lei tutto nasce e si dipana.

È l’amica per eccellenza.

Può essere illuminante ricordare che il termine Latino usato per dire amicizia deriva dalla radice – am , che nel latino popolare significa mamma (amma) e nutrice(ama).

Le parole spesso ci dicono, nella loro profondità, molto di più di quanto pensiamo.

Solo un vero amico può ascoltarci senza giudicare.

La mamma non solo ascolta: è, sempre, in trepidazione.

Le sue “viscere” si agitano ancora perché ricorderanno per sempre di aver ospitato qualcuno che, andato poi via per la sua strada, resta naturalmente legato al “natio loco” da dove ha avuto origine tutta la storia.

Cari Lettori, ogni tanto accade che, irrefrenabilmente giunga, nella vita di ciascuno, il momento di fare un po’ di pulizia. Nell’attesa di riposizionare questioni esistenziali, si comincia con l’eliminare un po’ di confusione dai cassetti, come una sorta di catarsi simbolica. Ed è stato così che, come una pergamena dissepolta, abbiamo ritrovato una indimenticabile dedica, ad una mamma speciale.

Mamma, ricordi?

Fosti tu a darmi, il primo, tenero abbraccio… mi hai concesso il privilegio di dare l’ultimo a te. Un triste addio sulla Terra per ritrovarsi uniti nella dimensione dell’amore infinito che unisce una mamma ai propri figli, andando oltre la morte, al di là del tempo e dello spazio.

Mamma, puoi credermi…

In entrambi i casi, quell’abbraccio è stato appagante, caldo, intenso… come solo una madre sa dare e che solo un figlio può capire.

Oh, Mamma…

Sdraiata sul tuo ultimo giaciglio… così simile ad un esile filo d’erba nel mezzo di un morbido prato su cui poter rotolare, dal quale, ancora farsi dolcemente accarezzare. Da accudire e amare. (Mariano Marchese)

Abbiamo già avuto modo di scrivere che, quello di Madre, è un termine comune a quasi tutte le lingue del mondo e significa “misuratrice, ordinatrice”, da cui tutto trae origine, in maniera ordinata. Ecco quindi, che, etimologicamente, identifica “ciò che produce”“che contiene” e, quindi, porta in sé, la sorgente, la causa prima.

E allora, forse è per questo che di fronte ad un pericolo, ognuno di noi esclama, inconsapevolmente e irrefrenabilmente: “Oh… mamma mia!”. Che diventa “Oh, Madre mia!” quando siamo avvinti da un grande dolore, o dal vuoto che è l’angoscia abbandonica, che ci fa sentire così precari.

Oh, Madre mia!

il termine precario deriva dal latino e identifica una posizione ottenuta, a seguito di preghiera, per concessione altrui e, di conseguenza, condizionata (nella qualità e nella durata) dalla volontà del concedente.

Il concedente…

Ciascuno di noi viene concepito e cresce in un mondo femminile che, fisicamente (quindi, senza voler mancare di rispetto ad alcuna), può essere definito come un “contenitore attivo equivalente ad un terreno di coltura capace di induzione epigenetica, anche se condizionato dall’esterno”. Cioè, un organismo in grado di fornire tutto quello che serve (dalle primordiali frequenze di oscillazione elettromagnetica, all’aria, al cibo…) per far si che, cellule a forma di mora, diventino un bambino!

Quel che resta insostituibile della madre è la testimonianza che può esistere ancora, nel nostro tempo, una cura che non sia anonima, una cura che ami il particolare più particolare del soggetto, una cura capace di accogliere la rugiada che viene alla luce del giorno… Ed è proprio questo amore che la maternità (nonostante tutte le trasformazioni ipermoderne che ne hanno modificato la fenomenologia) ha il compito di custodire.

Quanto espresso da  Massimo Recalcati, sulla scorta delle riflessioni di Jacques Lacan era stato, a suo tempo, intuito da Carl Gustav Jung con il concetto di Inconscio collettivo e Inconscio Individuale e spiegato da Giovanni Russo con il concetto di Energia Universale condensata nell’Energia Vitale Umana.

In pratica è come se, Madre Natura, avesse plasmato (dai primi batteri fino alle forme di vita più evolute) le trasformazioni necessarie a dar luogo ai “complessi” e “articolati” Esseri Umani i quali, alla stregua di un Computer appena comprato, sono in grado di funzionare (per le elementari ma fondamentali operazioni inconsapevoli) grazie ad un sistema operativo installato dal “Costruttore/Costruttrice Madre” che verrà, in seguito, arricchito di programmi dall’ambiente (Famiglia, Scuola, Società in generale) capaci di attivare la nostra capacità di contestualizzarci in maniera consapevole.

L’ARCHETIPO, dunque, è il sistema operativo capace di “guidare” il nostro sviluppo embrionale intrauterino (in pratica quando da una cellula indifferenziata, lo zigote, un po’ alla volta diventiamo piccoli esseri umani pronti a venire al mondo).

Almeno all’inizio della nostra vita extrauterina, ci leghiamo fortemente alla mamma (riconosciuta per via degli odori e degli umori… ma non solo) come fonte primigenia di vita e di appartenenza.

Nel prosieguo, in base alla corretta estrinsecazione o meno dei vari fattori di attaccamento, molto del carattere materno, condizionerà le nostre scelte sul piano, soprattutto, del rapporto con il potenziale compagno (di vita o del momento).

Ma perchè la mamma è così importante?

Perchè, come abbiamo detto prima, per ognuno di noi è “casa”; infatti, siamo cresciuti in lei e conosciamo, di lei, anche quello che, a lei, è nascosto (la sua frequenza respiratoria, la peristalsi intestinale, gli equilibri idroelettrolitici del liquido amniotico, i rilasci ormonali…. la sua vita più intima, insomma, proprio dal di “dentro”). Ecco perchè, alla nascita, noi cerchiamo quella “cosa” che ci ricorda la “casa”.

Moderni studi di psicobiogenetica delle cure maternali, hanno dimostrato l’assunto della “memoria implicita delle esperienze” di D. Winnicot per cui si è arrivati a comprendere che, quando la “casa” (in questo caso, le attenzioni materne fin dai primi istanti della nostra venuta al mondo) è troppo accogliente o troppo poco accogliente, ci sentiamo oppressi o abbandonati.

Per essere aiutati a “crescere”…

Una mamma “sufficientemente buona” dovrebbe, prima far credere al bambino di avere un potere immenso su tutto e, dai due/tre anni di vita in poi, “disilluderlo” aiutandolo ad accettare il fatto che, senza impegno, non otterremo alcun risultato.

Tu non sei più vicina a Dio di noi: siamo lontani tutti. Ma tu hai stupende, benedette le mani. Nascono chiare in te dal manto, luminoso contorno: /io sono la rugiada, il giorno, /ma tu, tu sei la pianta (Rainer Maria Rilke – “Le mani della Madre”)

LA MADRE DI TORINO

Nella Torino del Boom economico degli anni ’60, un bambino di sei anni gioca da solo sul balcone che si affaccia su Corso Peschiera, all’angolo con Corso Francia.

Probabilmente per la sua insaziabile curiosità, scavalca la ringhiera e resta appeso nel vuoto, sul traffico che sfreccia, al nono piano del palazzo.

La madre, resasi conto della situazione, lo soccorre afferrandolo saldamente nelle sue mani anche se, vani sono i tentativi di attirare l’attenzione dei passanti: tristemente, il rumore della vita quotidiana che prosegue indifferente, copre le urla della donna mentre, il tempo, passa inesorabile e le sue mani ormai cianotiche e in preda ai crampi per lo sforzo prolungato, sembrano dover lasciare la presa, abbandonando il figlio al proprio destino…

E, poi, un barista volge casualmente lo sguardo in alto incrociando il corpo penzolante nel vuoto del bambino e allarma i passanti.

La madre e il figlio vengono salvati dal gesto coraggioso di un operaio che anticipa il soccorso dei pompieri

Cari Lettori, quante volte ci siamo sentiti sospesi nel vuoto come è accaduto a quel bambino?

E quante volte abbiamo cercato, nella solitudine e nell’angoscia di quel vuoto interiore, le mani di chi amavamo?

E, cari lettori, non è forse questa la condizione della nostra vita? Una vita che viene al mondo aggrappandosi e affidandosi alle mani e al cuore di chi si prenderà cura di noi…

È difficile ricordare come si chiamassero quella madre e quel figlio, anche se da lì è nato un film (“La Madre di Torino”, vincitore del Premio Ravenna e del Prix Italia nel 1967): erano solo una madre e un figlio; un figlio senza nome aggrappato alle mani di una madre senza nome.

E le mani non sono, forse, il primo volto di quel primo soccorritore all’esordio traumatico della nostra vita e che ci salva dal precipizio dell’insensatezza, che è nostra Madre?

La mano che fa dondolare la culla è la mano che regge il mondo. (William Ross Wallace)

In funzione di quanto abbiamo percepito e accettato l’idea che la mamma non è proprietà esclusiva e che, anzi, rappresenta un elemento esterno a noi (costanza dell’oggetto), l’angoscia che ne consegue, la scarichiamo addosso a lei e alle figure femminili di riferimento (psicologicamente o fisicamente) oppure ce la teniamo dentro, nell’attesa di una Donna adeguatamente “responsiva”, in grado di ricordarci la reverie materna

Ed è per questo che, come scritto qualche rigo più sopra, ogni volta che ci si trova in difficoltà, l’espressione più usata è “Oh, Madre mia!”

Che ora è? Chiedesti

Le quattro. Sono le quattro del pomeriggio

Allora posso dormire?

Dormi, se vuoi, dormi…

Buona notte.

In modo semplice, quasi banale, Te ne andasti abbandonando il male

(Enzo Ferraro)

A questo punto del nostro “viaggio” che celebra la figura della Madre, proviamo a domandarci cosa “resta” di lei nel tempo del declino della rappresentazione del Padre.

La Psicoanalisi ha celebrato questa “funzione” attraverso il meccanismo Edipico, ben sintetizzato dai “tre tempi” di Jacques Lacan.

Il primo tempo, della confusione simbiotica fra Madre e Bambino, con la prima che tende (simbolicamente) a voler riportare dentro di se’ il figlio e, quest’ultimo che la vorrebbe (altrettanto simbolicamente) “vampirizzare”…

Il secondo tempo, dell’apparizione traumatica e “interdittiva” della parola del Padre, che (simbolicamente) “risveglia” la diade madre – bambino dal “sonno incestuoso” con due “moniti” ben chiari: uno rivolto alla Madre (“Non puoi divorare il tuo frutto!”) e uno rivolto al figlio (“Non puoi tornare da dove sei venuto!”) che non mortificano tale relazione ma la liberano da perversioni incestuose…

Il terzo tempo, della “donazione” paterna, che si pone a cavallo fra il “Desiderio” e la “Legge” rendendo possibile, nel figlio, la creazione di binari di regole non imposte ma capite e accettate che viene resa possibile dalla validazione materna, che ne riconosce implicitamente l’autorevolezza.

Gli uomini reggono il mondo. Le madri reggono l’eterno, che regge il mondo e gli uomini. (Christian Bobin)

Vero è altresì che personaggi del calibro di Jacques Lacan Melanie Klein, hanno descritto in maniera inquietante il desiderio materno proponendo di accostarlo alla bocca spalancata di uno spaventoso coccodrillo. “In questa versione la madre, anziché fungere da riparo dall’angoscia, la provoca, la scatena, diventa un’incarnazione terrificante della minaccia che rende instabili sia il mondo esterno che quello interno”.

L’ipotesi è che nell’inconscio di ogni madre (anche di quella più amorevole e dedita sinceramente al bene dei propri figli) risieda una spinta indomita a fagocitarli.

Ogni uomo deve definire la sua identità nei confronti di sua madre. Se non lo fa, ricade semplicemente tra le sue braccia e ne viene fagocitato. (Camille Paglia)

Prendendo spunto da quanto spiegato da Paul Claude Racamier nel suo “il genio delle origini”, appena uscito dai cambiamenti della nascita, il neonato entra, con la madre, in una intensa relazione di mutua seduzione che serve (almeno all’inizio) a mantenere un accordo perfetto nel quale, insieme (madre e bambino), è come se si calassero nelle acque “amniotiche” di una lago senza increspature.

Tutto ciò mira ad escludere (o a ridurre fortemente) le tensioni che provengono dal mondo interno e le stimolazioni che arrivano dall’esterno, capaci di intorbidire questo rapporto idilliaco (serenità narcisistica ideale) che non cerca e non vuole differenziazioni (foriere di separazioni) ma che crea una simbiosi in grado di determinare una ammirazione reciproca con origini indecidibili.

Guardate il bambino che guarda la mamma; guardate la mamma che guarda il bambino: guardateli entrambi (P. C. Racamier)

Il Lutto delle origini (“Così noi viviamo: per sempre prendendo congedo”)

Cari Lettori, la Natura non finisce mai di sorprendere coi propri miracoli: così come consente la fuoriuscita del nascituro dalla propria madre attraverso due incredibili rotazioni nel canale del parto (senza le quali sarebbe impossibile valicare il muro del bacino materno), allo stesso modo costringe il nuovo nato a subire un indispensabile distacco psicologico definito “lutto originario”.

Tale sofferenza ci riporta ai primi momenti della nostra vita, quando abbiamo simbolicamente voltato le spalle ad una Madre “indistinta” (una sorta di “atmosfera”) accettando di perderla ma, al tempo stesso rimpiangendola per ritrovare una madre esterna  e distinta da noi, come un oggetto esterno che desideriamo e del quale, nel tempo, introietteremo ciò che ci renderà solidi e tranquilli.

Madre, sin da quando ero bambino ho cercato il tuo calore… ricordi quando infilavo le mie dita fra le tue avvicinando il mio volto sul tuo grembo? Già uomo, mi sono abbandonato a te, capace di farmi tornare bambino accarezzando i miei riccioli ribelli. Madre, mi mancano tanto la tua saggezza, quanto quegli occhi, specchio della mia anima. Mi hai insegnato a cercare il sole oltre le nuvole per illuminare i miei pensieri: oggi dietro quel tramonto, cercherò te. Ciao Mamma… semplicemente, Grazie! Tuo figlio Mariano.”

In base a come saremo stati aiutati a metabolizzare questo primo incontro con la “morte”, vivremo tutti i successivi distacchi esistenziali in maniera fisiologicamente sopportabile oppure come la perdita di una parte fondamentale di noi. E, questo, diviene terreno fertile per la condizione di depressione maggiore.

Tu sei la sola al mondo che sa, del mio cuore, ciò che è stato sempre, prima d’ogni altro amore. Per questo devo dirti ciò ch’è orrendo conoscere: è dentro la tua grazia che nasce la mia angoscia.  Sei insostituibile. Per questo è dannata alla solitudine la vita che mi hai data. E non voglio essere solo. Ho un’infinita fame d’amore, dell’amore di corpi senza anima. Perché l’anima è in te, sei tu, ma tu sei mia madre e il tuo amore è la mia schiavitù (Pier Paolo Pasolini – Supplica a mia madre)

Con gli occhi di una mentalità più moderna possiamo ipotizzare che, con molta probabilità, più che una madre fagocitante avremo colei che non impedisce al figlio di muoversi verso la vita ma, semmai (forse per via di proprie paure inconsce), tenta di proteggerlo, simbolicamente, nella propria bocca alla stregua dei pesci incubatori orali che custodiscono, in tal modo, i propri avannotti fintanto che non diventano grandi abbastanza da nuotare verso l’ignoto.

Le verità che contano, i grandi princìpi, alla fine, restano due o tre. Sono quelli che ti ha insegnato tua madre da bambino. (Enzo Biagi)

Sarà quel che sarà…

…ma, probabilmente possiamo, da figli, scoprirci come degli alianti in attesa del distacco dall’aereo madre che ci ha portato lì, dove ci giocheremo vita e destino con le correnti ascensionali, confidando sulla benevolenza della “Madre di tutte la Madri”.

Quando morirò non voglio un Dio estraneo che mi accoglie voglio la mia mamma sarebbe una delusione se trovassi il paradiso io vorrei trovare le tue braccia e vorrei appoggiare la mia testa sul tuo seno perché solo in quei momenti non avevo paura se mi dicessero che anche solo per un attimo ritroverò questo io non avrei più paura della morte e mi sentirei sicuro più forte come mi sento sicuro e forte quando mi sembra di vederti e mi viene da piangere un Dio dovrebbe abbracciare troppe persone una madre soltanto i figli (Monologo scritto da Lamberto Giannini per lo spettacolo Din Don Down)

Cari Lettori, anche questa volta il nostro viaggio insieme volge al termine. Che lo abbiate ritenuto interessante o meno, a noi importa avervi tenuto compagnia trasmettendo l’Empatia che abbiamo ricevuto in dono da chi ci dato la vita.

Il brano di commiato che vorremmo condividere ha il titolo evocativo di “Valzer di Primavera” ed è stato composto dal Maestro Lee Ru-ma (in arte Yruma) e celebra il cammino alla ricerca della maturazione interiore e dell’Amore.

Spring Waltz

Sono tempi cattivi, dicono gli uomini. Vivano bene e i tempi saranno buoni. Noi siamo i tempi”. (Sant’Agostino)

Enzo Ferraro – già Dirigente Scolastico, Letterato, Umanista, Politologo

Giorgio Marchese – Direttore “La Strad@”

Un affettuoso ringraziamento a Mariano Marchese per le sue delicate e profonde riflessioni e ad Amedeo Occhiuto per l’affettuosa disponibilità

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