Il suo più grande rimpianto?
Non aver potuto sorridere alla mamma per poterle dire: “Vedi? Ce l’abbiamo fatta!”
La mamma, colei che lo lasciava scorrazzare per le campagne di Leggiuno, sulle rive del Lago Maggiore.
Luigi (Gigi) Riva nasce, il 7 Novembre 1944, da Edis e Ugo. Una famiglia molto modesta nella quale, colui che, un volta, veniva definito Pater Familias, cercava di sbarcare il lunario prima lavorando come parrucchiere e, poi, come sarto.
E, magari, pensando alla Luna e alle Stelle per disegnare un futuro ai propri figli, incontra la morte per un incidente sul lavoro in una fabbrica della zona, quando Gigi aveva soltanto nove anni.
A quel punto, Edis, trova lavoro in filanda e arrotonda come domestica nelle case dei Ricchi. E il piccolo Gigi deve andare in un Collegio religioso
Erano molto severi, ci obbligavano a pregare e solo allora ci davano il pane per mangiare… ci umiliavano perché eravamo poveri e allora scappai più di una volta (Gigi Riva)
Il dono più grande è stato quello legato al fatto che, ad Edis, il “suo” Luigi è andato sempre bene così com’era, con tutti i suoi difetti.
E quando, un triste mattino, arriva il pulmino che lo deve portare al collegio dei Preti e, lui, si rifugia su un fico lei mostra tutta la sua amorevole fragilità, mettendosi a piangere e singhiozzando che, il pullman, sarebbe partito senza di lui.
Scesi dall’albero e salii sul pullman solo perché me lo chiese mia madre, in quel modo… (Gigi Riva)
Forse, questo modo di vivere quel delicato periodo della vita che si chiama “infanzia”, non ti ha consentito di diventare un gran chiacchierone, lasciandoti gustare i tuoi lunghi silenzi
Il silenzio è stata una parte importante della mia vita, che quand’ero troppo giovane mi ha detto: «Arrangiati». E io mi son dovuto arrangiare.
Chi è avanti negli anni ed ha, in giovinezza, molto amato il calcio ha avuto la ventura di tifare per la propria squadra nel momento in cui nel Cagliari giocava “Rombo di tuono”. Gigi Riva, appunto, secondo la felice definizione di Gianni Brera.
Nelle nottate insonni, mi torna in mente ogni tanto quello che scrisse una volta il grande Brera, che aveva per me una venerazione di cui per sempre gli sarò grato. Era stato lui a soprannominarmi “Rombo di tuono”, come ancora oggi mi chiamano un po’ tutti, anche quelli che quei tempi non li hanno vissuti e sono ormai la maggioranza assoluta. Mi raccontò un giorno, in una sala d’imbarco per una trasferta azzurra, che l’immagine gli era venuta a San Siro, Inter-Cagliari, noi con lo scudetto sulla maglia, vedendomi sempre più scatenato alla ricerca del gol. Come un rombo di tuono progressivo, mi aveva detto a tu per tu fra una tirata di pipa e l’altra, cui non può non seguire l’acquazzone, il temporale, lo sfogo e, insomma, la liberazione del pallone che finalmente finisce in rete. (Gigi Riva)
Cari Lettori, erano anni di qualità e, i giornali sportivi, erano pieni di articoli di giornalisti “autentici”. Talvolta, di scrittori di qualità che davano contributi, oggi impensabili.
Ho vissuto un calcio in cui certi liberi tiravano una riga vicino alla loro area e dicevano ‘se la passi ti spacco’. Tempi in cui per ottenere un rigore a Milano o Torino, non bastava un certificato medico di 15 giorni. (Gigi Riva)
Il calcio, allora, faceva sognare, al contrario di oggi che serve in larga parte per fare scommesse.
Si giocava solo la domenica e, il mercoledì, solo per le squadre privilegiate (la coppa dei Campioni).
Dal lunedì al sabato si commentava quanto accaduto e ci si disponeva alle nuove “tenzoni”.
Parlando di giocatori, ogni tifoso parlava di quelli della sua squadra.
Ma juventini, milanisti, interisti e via continuando, sul finire degli anni Settanta avevano il massimo rispetto per un giocatore italico: Gigi Riva.
Dalla Lombardia era finito al Cagliari. Sembrava breve soggiorno in attesa di squadre più blasonate e più ricche e, invece, fu una presenza di vita sia in gioco che, poi, in pensione.
Perché un calciatore con la classe eccelsa di Riva, arrivato al Cagliari, non si è più mosso dall’isola?
Non è agevole rispondere.
Ma non si è lontani dal vero se si afferma che tra Gigi Riva e la Sardegna scoppiò una vera e propria corrispondenza di amorosi sensi.
Quello che ha reso, per me, tutto speciale è che ero sardo tra i sardi: ovunque andassi, da Alghero o Sassari a Cagliari, ero uno di loro. (Gigi Riva)
Il Sardo è uomo di poche parole e di profondi e fedeli sentimenti. Riva era uomo di poche parole ma di grande operatività nel suo campo d’azione.
La Sardegna, all’epoca, era nell’immaginario collettivo ancora discriminata per essere lontana dal continente.
La minaccia più tremenda era, per un burocrate dotato di potere, quella di dire: “Ti trasferisco in Sardegna”.
Gigi Riva arrivò, dunque, in un posto ove una persona “normale” avrebbe fatto di tutto per allontanarsene al più presto. Egli restò, sempre rifiutando milionari trasferimenti.
Perché?
A nostro modesto avviso, perché stando nell’isola comprese subito le qualità umane della gente sarda, sottoposta a pregiudizi continentali.
Incontrò gente che si innamorò di Riva perché, con i suoi gol, aiutava ad uscire da un secolare abbandono.
Rombo di tuono, senza inizialmente volerlo, si accorse di essere diventato un simbolo basilare. Non era più solo un bravissimo giocatore che aiutava il Cagliari a vincere addirittura lo Scudetto, ma era ormai un sardo doc. Andarsene sarebbe stato un tradimento e, Gigi Riva, era uomo verticale e di buon grado abbracciò l’anima sarda e si senti, tra gli abitanti dell’isola, uno di loro.
Ero una persona chiusa, avevo avuto un’infanzia tragica, i miei genitori erano mancati presto. Poi sono venuto a Cagliari e abbiamo costruito una gran bella cosa: lo scudetto era il sogno di ogni squadra.
Noi che tifavamo per squadre continentali, giovani come eravamo, non riuscivamo a capire come si potesse preferire l’Amsicora allo stadio di Torino o a San Siro.
Con gli anni abbiamo capito e, la scelta di vita di Riva, ci ha arricchito e maturato. Era giovane come noi ma aveva visto più lontano di noi, per quanto riguardava i valori umani e sociali.
La Sardegna mi ha dato affetto e continua a darmene. La gente mi è vicino come se ancora andassi in campo a fare gol. E questa per me è una cosa che non ha prezzo. (Gigi Riva)
A distanza di decenni (ora che non c’è, poi…) la figura, già mitica in vita, è avvolta di un ricordo che concilia con la vita e fa bene al cuore.
Evidentemente il “mal di Sardegna” non era un male ma un arricchente soggiorno che esigeva totalità e completa adesione.
Per questo ed altro possiamo dire che, Gigi Riva non è stato solo un calciatore ma qualcosa di molto più alto e complessivo.
Sardo come se fosse nato nell’isola. Sardo, senza “se” e senza “ma”.
Come capiterà a Fabrizio De André che, rapito, capirà le ragioni dei Sardi, un grande popolo per secoli non compreso e non apprezzato da chi avrebbe dovuto farlo.
Hotel Supramonte andrebbe studiata ed analizzata nelle scuole per risolvere e vincere, finalmente, le diversità e i pregiudizi.
Io sono sardo perché sono di poche parole, spesso e volentieri ho il muso, mi preoccupo per i problemi di questa terra bellissima e reagisco a modo mio. (Gigi Riva)
I gol di Gigi Riva erano, spesso, tiri di sinistro di terrificante potenza. C’era, in quei tiri, una lunga rabbia, una voglia di riscossa, il desiderio di vedere un mondo più giusto, più umano, più fraterno.
Cari Lettori, abbiamo provato ad entrare un po’ più nel profondo di quest’uomo che, a un certo punto della propria vita, si è chiuso ancora di più in sé stesso. Probabilmente il fisiologico contraccolpo legato alla fine della sua carriera agonistica, all’aver dovuto appendere le scarpette al chiodo, dovendo uscire dal sogno “avverato” che aveva tenuto lontani i fantasmi dei lutti mai completamente elaborati ma, solo rimandati.
Il calcio, la carriera, i gol erano stati la reazione che mi serviva: prima una spinta, poi un propellente vero e proprio a mano a mano che arrivavano i successi. Venendomi a mancare tutto questo di colpo, non con un declino progressivo come avevo sempre pensato sarebbe successo, mi sono sentito perso (Gigi Riva)
E, forse, è anche per questo che, quando gli è stato proposto l’intervento di angioplastica che, probabilmente, gli avrebbe salvato la vita, lui avrebbe risposto: “Grazie, ma ci voglio pensare…”
Caro Gigi, tua madre ti ha insegnato a non lamentarti mai e, tu, non hai avuto modo di dimostrarle che, anche grazie al suo aiuto, sei entrato in quella zona esistenziale dove si può scegliere, liberamente, quale posto occupare nella Società.
Ti sarebbe piaciuto vederla sorridere nel riconoscerti come il più grande “marcatore” del Calcio italiano, rappresentando onorevolmente quella “Patria” per cui, tuo padre, è andato in guerra tre volte…
A noi, piace immaginarla orgogliosa e fiera nel vederti come nella suggestiva immagine di copertina (tratta dal film “Sotto il nostro cielo, un rombo di tuono”, di Riccardo Milani) mentre tu, finalmente, le sussurri quello che hai desiderato di dirle almeno un milione di volte: “vieni a vivere come me”
Dente – Vieni a Vivere…
A nido d’ape o a lisca di pesce, facciamo una casetta tutta come ci va
Mettiamo il letto sul pavimento, che al mal di schiena ci pensiamo nell’aldilà
Prendiamo tutti gli accorgimenti: la testa a nord, le gambe dieci gradi a sud-est
Com’è che non ti muovi? Com’è possibile?
Poi fumiamo le sigarette
che a casa nostra non ci vengono mamma e papà
mangiamo tutte le scatolette
beviamo birra, andiamo a fare la spesa al discount
Vieni a vivere come me
Com’è che non ti muovi? Com’è possibile?
Mettiamo un disco sul giradisco
baci in cucina, baci in sala, baci in garage…
Facciamo centoventi bambini, tutti con dei nomi molto particolari
Così gli canto una canzone
di quelle belle che li fanno addormentare
Vieni a vivere come me
vieni a vivere
“Degli Eroi autentici, non si guasti il ricordo” (Gianni Brera)

Enzo Ferraro – già Dirigente Scolastico, Letterato, Umanista, Politologo

Giorgio Marchese – Direttore “La Strad@”
Un ringraziamento affettuoso ad Amedeo Occhiuto, per la collaborazione
