Pubblicato su Lo SciacquaLingua
L’uso di “incognito” e “in incognito” può generare – secondo chi scrive – un po’ di confusione.
Vediamo, insieme, come adoperare questi termini in modo appropriato.
Il sintagma “incognito” deriva dal latino incognitus, composto con il prefisso negativo in- e il participio passato del verbo cognoscere e vale “sconosciuto” o “non riconosciuto”.
Questo lessema è stato adottato – sembra – nelle principali lingue europee con variazioni minime nel significato. Allorché adoperiamo “incognito” in funzione avverbiale mettiamo in evidenza il fatto che qualcuno sta agendo senza farsi riconoscere: Giovanni è venuto incognito.
Qui, “incognito” descrive come Giovanni è venuto, sottolineando che ha cercato di non farsi notare. “In incognito” invece, anche se è la locuzione maggiormente adoperata può suonare meno naturale. È accettabile, tuttavia, in contesti formali o letterari.
Per esempio, Giovanni si è presentato in incognito potrebbe essere utilizzato, ma Giovanni è venuto incognito è decisamente più comune e naturale nel nostro idioma. Cercheremo di essere più chiari. Pensiamo a un famoso attore che voglia evitare i così detti paparazzi.
Potremmo dire: “L’attore è arrivato incognito per sottrarsi ai paparazzi”. Questo esempio – a nostro avviso – illustra bene come “incognito” viene adoperato per esprimere l’idea che qualcuno agisce in modo anonimo. D’altro canto, in un contesto più formale, come un’operazione delle forze dell’ordine, potremmo incontrare la forma in incognito: l’agente si è infiltrato in incognito nella banda dei falsari. Anche se linguisticamente ineccepibile, risulta meno naturale rispetto all’uso avverbiale.
Un altro esempio – sempre per chiarezza – potrebbe essere: il politico ha partecipato incognito all’evento per non attirare l’attenzione.
Qui vediamo come “incognito” renda la frase più scorrevole e diretta. In conclusione, usare ‘correttamente’ “incognito” e “in incognito” può fare la differenza per la chiarezza del discorso. Attendiamo gli anatemi di qualche linguista, anche perché i vocabolari… Ma tant’è.
A cura di Fausto Raso
Giornalista pubblicista, laureato in “Scienze della comunicazione” e specializzato in “Editoria e giornalismo” L’argomento della tesi è stato: “Problemi e dubbi grammaticali in testi del giornalismo multimediale contemporaneo”). Titolare della rubrica di lingua del “Giornale d’Italia” dal 1990 al 2002. Collabora con varie testate tra cui il periodico romano “Città mese” di cui è anche garante del lettore. Ha scritto, con Carlo Picozza, giornalista di “Repubblica”, il libro “Errori e Orrori. Per non essere piantati in Nasso dall’italiano”, con la presentazione di Lorenzo Del Boca, già presidente dell’Ordine nazionale dei giornalisti, con la prefazione di Curzio Maltese, editorialista di “Repubblica” e con le illustrazioni di Massimo Bucchi, vignettista di “Repubblica”. Editore Gangemi – Roma.